I racconti di Satrampa Zeiros – “L’Ultima Pittica” di Cristiano Saccoccia

Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare Cristiano Saccoccia che ci propone “L’ultima Pittica”, racconto di sword and sorcery mediterraneo di circa 23.000 battute


SINOSSI

Un giovane monaco, dalle illustri origini, scopre un segreto di un passato reale quanto sconvolgente.

Sulla piana di Imera i tyrannos sicelioti, uniti per fronteggiare il nemico cartaginese, lottano per la libertà della Sicilia.

Pindaro, poeta e cantore della Beozia non può far altro che impedire la vittoria di forze oscure tornate in vita.


AUTORE

Classe 1993 è laureato in lettere curriculum storico con una tesi in storia delle religioni e dei conflitti medievali intitolata: L’assedio di Costantinopoli, 1453 presso l’università di Macerata.  Consegue la laurea magistrale nel 2018 in ricerca storica e risorse della memoria nel medesimo ateneo. Non riesce a non ascoltare il richiamo del Fantastico  così  scrive la tesi intitolata: Il crocevia dei mondi: orientalismo e esotismo nella letteratura fantastica. Una ricerca dell’Oriente e della sua ricezione distorsiva nella letteratura fantastica.

Qui è presente il suo primo tentativo narrativo,  di solito più a suo agio nella saggistica.

Marchigiano doc, è appassionato di storia antica, orientale e antropologia.

Grazie alle odierne piattaforme Social entra in contatto con una ricca community unita dall’amore per il fantastico, grazie alla quale conosce il concorso e le pubblicazioni di “Italian Sword and Sorcery”


L’ULTIMA PITTICA

 di Cristiano Saccoccia

 

 

Un umile proemio

 

Era giunto in quel luogo seguendo la Musica, attirato dalle melodie che rimbombavano nella sua testa. Il rullio dei tamburi eleusini, le litanie di streghe tessaliche e gli inni agli dei morti mettevano in dubbio la sua fede. Giuliano si guardò intorno, i resti di un’antica tomba erano sparsi intorno a imponenti statue zoomorfe ricoperte di edera. Nonostante i secoli il marmo era di un bianco verginale, la lucente purezza paradisiaca cozzava con il nauseabondo odore dell’aria.

    Nemrut Dagi! Nell’ombra si alzò un canto pagano. Gocce di sudore freddo rigavano il suo viso incredulo. Bagnando il colletto della sua tunica monacale. Ogni volta che si soffermava a contemplare le statue di quell’antico re greco dal volto d’aquila le sue convinzioni vacillavano.  Ad ogni suo passo le grida delle baccanti laceravano il suo capo, Nemrut Dagi!

    Streghe di una Colchide profana lo invitavano ad entrare in quella tomba sotterranea sperduta nell’alta Mesopotamia. Giuliano balbettò nervosamente «Dio degli spiriti e di ogni carne, che sconfiggi la morte e il diavolo e doni la vita al Mondo.  Concedi al Tuo servo la forza… » Ma gli idoli pagani continuavano ad irretirlo.

 Guardaci Giuliano, non siamo bellissime? Non vuoi affondare il tuo volto tra i nostri seni squamosi? O strusciare il tuo crocifisso in mezzo alle nostre zampe? Non vuoi la verità? Oh si che la vuoi… hai soltanto paura.

  La sua debole carne rispose a quell’invito. La veste da monaco lasciò trapelare una profana erezione. Mise da parte quelle orridi visioni, varcò l’entrata del sepolcro stringendo il libercolo del Simbolo Niceno in una mano e il crocifisso di bronzo nell’altra. Il tanfo dell’Averno lo accolse. Le canzoni nella sua testa, sempre più forti, lo guidarono. La stanza a pianta circolare era colma di statue leonine, di finissimo marmo traslucido dell’isola di Paros.  Toccò lentamente il muso di un possente felino, un lancinante dolore colpì il suo petto. Si accasciò al suolo tormentato da un morbo invisibile. Il  fuoco consumò le pagine del libro sacro. Dio di tutti gli eserciti…aiutami. Portò le mani al crocifisso  e si ustionò.  La croce si era fusa.

«Gesù misericordioso!» Urlò mentre si spogliava della tunica monacale per non essere  ferito dal sacro metallo. 

Non c’è nessun Gesù qui, Giuliano, soltanto noi. Vogliamo tornare, aiutaci!

Nudo e impaurito il principe romano  si accasciò al suolo e contemplò il soffitto della camera.  Un medaglione metallico era affisso al centro della cupola pagana, i caratteri in lingua greca brillavano.  Lesse chiaramente un nome, un antico poeta, esistito più di ottocento anni prima.

Si è proprio Pindaro! Lo conosci! Hai studiato molto Giuliano, ma non così tanto da  svelare i Misteri

Delle labbra, rosate come  l’alba sull’isola di Delo, si stamparono dolcemente sulla sua bocca. La Dea dai fianchi libidinosi ordinò «Leggi Giuliano, leggi l’ultima Pittica di Pindaro, la nostra reliquia, il ricettacolo delle  nostre imprese, leggi quando furono le leggende a salvare il mondo. Dimenticherai il tuo falso dio misericordioso»

L’erezione divenne incontrollabile, il romano desiderò di essere posseduto da quella abominevole apparizione infernale, con poca convinzione rispose «Vattene abominio!»

Lei prese il volto impaurito del romano tra le mani,  forzò lo sguardo  verso il bronzeo medaglione. Giuliano apprese l’unica verità,  la dea iniziò a ridere con la voce di un satiro ubriaco. Gli angeli morirono, i sacri precetti scomparvero dalla sua mente e Dio venne rinnegato.  Il Canto di Pindaro si impossessò di lui e le parole erano così  potenti da divenire immagini, le immagini così nitide da avere un sapore e un profumo, il ricordo di un passato pagano divenne reale. Giuliano ascoltò il canto e vide qualcosa di incredibile.

Bravo mio imperatore, guarda cosa fecero i bastardi di Imera, ricordaci.

Guarda la nostra forza.

Facci tornare.

 

L’ultima Pittica

«Come  avete intuito la situazione è disperata. Le truppe persiane  hanno svernato dalle contrade macedoni per  invadere l’Ellade continentale, si sono accattivate l’aiuto dei tessali e la loro immensa flotta costeggia l’Eubea.» L’ambasciatore ateniese sgualcì nervosamente il dispaccio che teneva tra le mani «Per ora solamente un manipolo di spartani sta tenendo posizione alle Termopili, probabilmente sono già stati sbaragliati…»

Il vecchio sullo sgabello di frassino fissò intensamente il latore delle notizie «Sembra che voi Greci dell’Est stiate davvero scontando la collera degli Dei, ma sono disposto a concedere diecimila uomini, trecento trirermi, provviste e denaro »

L’Ateniese eruppe in un grido di incredulità «Sia lode a Zeus! Oh tyrannos voi ci onorate di cotanta generosità, grazie al vostro aiuto tutta l’Ellade sarà vittoriosa e sbaraglieremo Serse…»

Il vecchio tyrannos esibì un ghigno grottesco a tutti i suoi ospiti, l’ambasciatore fu  inorridito dal quel volto sprezzante.  Il sovrano di Siracusa si abbandonò in una risata  «Ogni cosa ha un prezzo  ateniese! Aiuteremo Atene e Sparta solo se mi concederete il grado di Stratega supremo e una volta sconfitta la feccia persiana mi affiderete i vostri eserciti per scacciare i punici dalla mia Sicilia»

Le pergamene, simbolo di alleanza tra i due popoli, furono stracciate dalle mani dell’ambasciatore «Voi bastardi sicelioti! Gelone sei un’offesa a tutti i vincoli della libertà che accomunano noi greci,  osi diventare il despota di tutte le poleis? Ti sbagli! Pericle, Leonida, Temistocle e Milziade non lo permetteranno»

Gelone di Siracusa si alzò dal suo sgabello, tutti gli astanti sentirono lo scricchiolare delle sue ossa e furono colpiti dalla mole di quell’uomo ormai sui sessant’anni ma dal fisico ciclopico. Le cicatrici sui suoi avambracci se le era guadagnate in mille battaglie,  un dito della mano destra l’aveva perso in una razzia presso Selinunte per colpa di una contadina punica che non voleva lasciarsi violentare in santa pace; troppo abile a mordere.

   L’ateniese apparve come un infante  rispetto a Gelone. Le urla del despota siceliota riempirono la sala  «Voi ateniesi siete come le puttane, sempre impegnati a prendere cazzi in bocca in ginocchio. Femminucce senza spina dorsale. Sono il flagello di Gela e il terrore di tutte le poleis. Posso fottermi la vostra democrazia  e quella merda di monarchia che gli spartani amano tanto»  sbatté  il pugno sulla  corazza di lino, semplice e disadorna come quella di un fante ordinario,  si diresse a gran passi verso l’ambasciatore «Tu non hai idea di quello che sta succedendo su questa cazzo di isola, il mondo intero dovrebbe venire in nostro soccorso e voi vi lamentate dei Persiani? Ho accettato di aiutarvi solo per comandare un esercito smisurato, e mandare all’Ade quei  luridi Cartaginesi»

Il puzzo di urina  punse le narici del tyrannos siracusano: l’ambasciatore aveva bagnato il pavimento.  La kopis balenò. Un fiotto di sangue scuro sporcò il lino di Gelone. La testa dell’ambasciatore non si  staccò di netto, pencolò da pelle e carne.

«Non sono forte come una volta… non riesco a decapitare una fichetta di Atene»

Il  corpo crollò fra sangue e urina. La lordura degli imperi.

    L’uomo emaciato, vestito come un pastore della Beozia, si avvicinò al tyrannos. Aveva un aspetto spettrale. Il tebano contemplò il cadavere da vicino e sentenziò «Bevono troppo poco per dire così tante stupidaggini nell’Attica»

Gelone di Siracusa offrì una coppa di vino di Akragas, più scuro del sangue sul pavimento «Chi sei? Il delegato di Tebe? Hai abbastanza potere da acconsentire alla mia richiesta?»

Il nuovo arrivato gustò il sapore fruttato del vino «Sono Pindaro, poeta e delegato della Beozia. Purtroppo non ho poteri politici, sono un semplice rappresentate. Ma ho una domanda, cosa intendevate quando avete detto “non hai idea di quello che sta succedendo in quest’isola”?»

Il tiranno di Siracusa si voltò, fece un cenno ad un uomo sulla cinquantina. Quest’ultimo si lisciava la lunga barba corvina, le sopracciglia cispose  erano incurvate in un modo così singolare da donare all’individuo un’espressione incredula.

    «Terone, tyrannos di Akregas»  precisò sfoderando la sua spada. Era per metà fusa, come se la lava dello Stromboli avesse mangiato il ferro «Dai miei esploratori sapevamo che i Punici avevano conquistato Panormo, il porto più importante dell’isola» si fermò, fissando il pubblico con uno sguardo vacuo «Amilcare Barca è il comandante supremo, un nemico viscido che ci ha dato filo da torcere per anni. Conosco abbastanza bene  le sue manovre grazie alla rete di spie che ho allestito. Così ho deciso di giocare d’anticipo, senza  avvertire il mio alleato Gelone, ho marciato su Imera, principale obiettivo del Barca, con il mio esercito personale e diverse squadre di mercenari italici. Calcolai di resistere abbastanza tempo da poter aspettare i rinforzi siracusani, Imera è una città fortificata in collina e circondata da un fiume, un assedio sarebbe stato troppo dispendioso» silenzio, Terone era ancora scioccato  «Abbiamo resistito per settimane, quando all’improvviso la terra ha tremato e…» il tyrannos di Akregas perse le forze ponendo un ginocchio a terra «Quella carogna di Amilcare ha fatto qualcosa di così terribile da sovvertire l’ordine naturale di tutte le cose… essi apparvero dal mare, un enorme uomo-pesce…non potrei spiegarvi meglio,  qualcosa di mostruoso»  un brusio confuso dei presenti soffocò il parlottare del tyrannos agrigentino.

    Pindaro indietreggiò leggermente, un movimento involontario, automatico e reverenziale. Gli tornarono in mente le immagini inquietanti degli scudi dei mercenari fenici assoldati da Dario dieci anni prima. Dagon il Dio degli abissi,  mostro orientale e flagello dei marinai. Il poeta sperò che i due tiranni sicelioti stessero mentendo, una scusa banale e superstiziosa per non aiutare i greci contro Serse.

Impazzito, Terone, iniziò ad urlare  «Ella invece era implacabile! Nuda e con la pelle nera come gli occhi di Caronte, in mano aveva spade di luce» tossì sputando sangue «Aniat è il nome di questa puttana, lo urlava in continuazione  mentre ci attaccava con tutta la sua furia»

Pindaro andò a sostenere il tyrannos ormai indebolito, Terone si aggrappò al suo braccio e disse «Ho perso quindicimila uomini, Imera è un cumulo di macerie e dei cadaveri dei nostri fratelli, soltanto io e la mia guardia personale siamo scampati alla mattanza. Nella fuga ne ho visti altri….una creatura possente come il fianco di una montagna e ricoperta di edera. Puzzava di incenso. Il sole si spense e calò su di noi un dio color tramonto. Tutto iniziò a bruciare. Nella mia testa si intrufolò il nome di MOT.  Udito tal nome iniziai a sputare sangue…desidero morire ammazzando quegli avanzi del Tartaro»

Le mani sottili di Pindaro si macchiarono di sangue,  fissò Terone negli occhi «Resterò con voi, sembra che i cancelli dell’orrore siano stati aperti. Amilcare è riuscito a evocare gli antichi dei» accompagnò Terone su un triclinio e proseguì «La delegazione potrà tornare ad Atene, ma resterò qui. Esiodo cantò la nascita degli dei, io vorrò  vedere la Fine del nostro mondo»

«Sei ottimista, mi piaci» commentò Gelone.  Lo stratega siracusano incitò un suo cortigiano a parlare, il suo nome era Empedocle «Il poeta Pindaro ha ragione, i punici hanno risvegliato delle forze oscure. Sono stato in grado di riconoscerne alcune: Dagon terrore dei flutti, Aniat la vergine guerriera, Mot il re della morte, Barthy il gigante e Shalim del Tramonto» l’erudito consultò una pergamena e continuò «Secondo il rapporto di Terone possiamo far ammontare l’esercito di Amilcare a più di trecentomila unità, tra cui mercenari libici, iberici e sardi; non dimentichiamo il Battaglione Sacro cartaginese»  prese un altro resoconto e lesse «Possiamo mettere in campo una forza mista, Siracusa porterà in battaglia trentamila uomini, Terone metterà a nostra disposizione un contingente di ventimila uomini, cinquemila uomini sono stati forniti da Leontini,  Naxos, Gela e Selinunte sotto la bandiera di Ierone  tyrannos di Gela. Per qualche strana ragione  c’è anche  Tito Tarquinio il figlio dell’ultimo re di Roma che comanda   mille fanti etruschi»

Terone si alzò dal triclinio, incerto si diresse verso Gelone e lo strinse in un abbraccio fraterno. Alleato da una vita. Sbraitò «Siamo sommersi dalla sfortuna, ma nonostante questi numeri soverchianti noi andremo contro Amilcare, marceremo verso Imera e ci riprenderemo la Sicilia. Uccideremo tutti gli dei che incontreremo con il ferro e le bestemmie»

Pindaro rimase stupito dal coraggio di quei barbari, che erroneamente si riconoscevano ellenici.

«Poeta sono grato del tuo sostegno, ma questa sarà una guerra atroce… l’ultima guerra di quest’isola probabilmente, ti consiglio di fare vela verso casa, non ci è utile un aedo» commentò  Gelone.

Pindaro lo ignorò, si rivolse ad Empedocle «Siracusa è stata fondata da Archia discendente di Ercole?» il filosofo annuì, il poeta aggiunse «Probabilmente sono un pazzo, ma potrei visitare il sepolcro di Archia?»

Gelone scoppiò a ridere, le vene del suo collo taurino si gonfiarono «Cosa  hai in mente poeta? Ti prego dimmi che non vuoi fotterti il mio avo»

«Tyrannos voi siete il miglior generale dell’Occidente, ma io sono il miglior conoscitore delle leggende. Fidatevi di me, c’è un modo per sbaragliare Amilcare»  spiegò il tebano.

Il tyrannos congedò la questione «Meglio visitare le tombe reali che guardare in faccia gli dei punici, va con Empedocle e fate  come volete»

I due eruditi abbandonarono il grande salone.

   Gelone radunò l’esercito, il sole di mezzogiorno si spense lentamente.  Un’eclissi maledetta  pugnalò  il cielo di tutta la Sicilia, gli dei erano in collera; gli opliti e gli strateghi iniziarono ad urlare come se fossero posseduti dalle baccanti. Lissa la dea della pazzia aveva baciato ognuno di loro, facendoli sprofondare in una melanconica inquietudine. Terone non si era mai sentito così pronto a morire, la sua lancia  tamburellò furiosamente il pavimento e urlò «MORTE»  Si diresse verso il loggiato dove avrebbe potuto contemplare le falangi schierate. Annunciò «Un esercito di  ladri, stupratori, ubriaconi, traditori e blasfemi…signori non avrei potuto chiedere un’armata migliore!  Coraggio andiamo ad Imera, anche la follia merita un applauso» gli opliti urlarono.

Giunsero alle macabre colline di Imera, un tumulo fumante di cadaveri arrostiti. Gelone e Terone  spiavano l’accampamento punico, un mare di uomini. L’aria era satura di negromanzia, c’era il fetore del sangue umano e  delle nauseanti viscere  animali. I nemici erano immobili come  statue bronzee di eroi dimenticati. Su un palco di legno, c’era del movimento. Amilcare, dalla pelle olivastra, condusse una ragazza nuda su un altare  marcio,  decorato da drappi di porpora fenicia. Sferrò un possente pugno alla giovane, sfondando la cassa toracica. La pallida creatura femminile lanciò un grido che gelò il sangue dei due tyrannos. Il suo gracile  corpo tremò e le feci colarono lungo le sue cosce. L’ultima cagata della vita, pensò Gelone.  Amilcare estrasse dal petto della sua vittima un cuore palpitante, e lo divorò senza pensarci.  Il macabro spettacolo fece venire i conati di vomito al tyrannos di Akragas..

   Delle risate  profonde risuonavano dall’oltretomba, l’eco di quei mostri antichi scoraggiava il cuore dei più indomiti  guerrieri siracusani. Amilcare li guardò dalla distanza, i suoi occhi vermigli scrutarono il loro animo. Quando si soffermò su Gelone, il punico ebbe un fremito di paura.  In quel preciso istante di debolezza il mare partorì l’enorme Dagon, il dio marino invitò i suoi compagni alla battaglia.  Una nuvola di incenso avvolse il profilo della montagna ambulante di Barthy, il titano  roccioso della Cananea. Aniat, dea delle spade, ascese da nuvole di sangue, alta quanto il fusto di una colonna dorica, scura come l’ebano e dai seni gonfi. Molti uomini avrebbero voluto morire  al suo cospetto. Shalim e Mot, dei del tramonto e della morte emersero dalle ombre. Iniziarono un colossale braccio di ferro divino, sembravano due ubriaconi litigiosi in una bettola, probabilmente non vedevano l’ora di maciullare i sicelioti.

     Amilcare sporco di sangue sembrava un dio, un errore della teogonia, un arcano vivente. Gli strateghi  si ricongiunsero all’esercito e schierarono le proprie falangi. Gelone si prese il fianco sinistro, solitamente il più vulnerabile  della formazione. Terone piazzò i propri opliti al centro dello schieramento affidando il fianco destro ai comandi del tyrannos di Gela, Ierone figlio di Gelone.  Tito Tarquinio comandava il manipolo di riserva, non avrebbero mai schierato in prima linea un esule romano.

   «Feccia greca, dopo secoli la Sicilia sarà  finalmente nostra. Vi trasformeremo nel letamaio dell’impero, stupreremo le vostre donne e renderemo schiavi i vostri figli. Preparatevi alla nostra furia» Le urla di Amilcare erano così potenti da colmare  una distanza  di dieci stadi attici.

    Gelone salì in groppa al suo destriero, incoraggiando l’armata con il suo sbraitare «Finalmente ci toglieranno dalle palle le nostri mogli, e non sentiremo più piangere i nostri bastardi nati dalle puttane. Uomini è ora di morire  in santa pace. Per Imera!»

E per Imera marciarono, le falangi avanzarono compatte seguendo il ritmo dei tamburi dell’Ade. Sempre avanti, insozzando gli schinieri di bronzo con il fango e i resti di corpi maciullati, sempre avanti facendo scintillare gli oplon decorati con il Leone di Nemea sotto i pallidi raggi dell’eclissi. Avanti, sulla piana di Imera.

In un battito di ciglia apparve il colosso di pietra nelle retrovie; l’esercito di riserva venne spazzato via in pochi secondi, le fanterie miste delle diverse poleis erano disorganizzate e non allenate a combattere un titano di roccia. Barthy  calpestava i poveri opliti sicelioti. Tito di Roma venne arso vivo da un fiotto di lava sputato dal golem orientale.

Il fianco destro di Ierone vacillava, il giovane sovrano non riusciva a fermare il turbinare delle spade lucenti di Aniat, la  vergine nera falciava gli elleni come grano maturo. Terone  venne  accerchiato dalle truppe puniche guidate da Shalim del Tramonto, il dio  vermiglio come il calar del sole. Mot e Dagon inghiottivano nella notte e nel mare gli opliti di Gelone. Il possente tyrannos guerriero aveva  perso la propria lancia nella foga guerriera. Dal terreno divelse un enorme masso, la stazza di Gelone gli permise di lanciare il proiettile di pietra contro Mot; il dio della morte venne  schiacciato e preso ripetutamente a craniate, finché l’elmo corinzio di Gelone non si incrinò.

    E tutto fu inutile, vennero nuovamente respinti, circondati  da  un’ampia  manovra a tenaglia di inquietanti punici,  manipolati   da  Amilcare; Ierone, suo figlio venne squartato brutalmente  da un  drappello di guerrieri africani.  I tyrannos superstiti si riunirono, eseguendo l’estrema posizione difensiva a forma circolare.  Terone sputò sangue «Sono invincibili, sono troppi e hanno il Chaos dalla loro parte»

Gli opliti cadevano come mosche, uno ad uno. Gelone mulinava la kopis «Più sono i nemici e più grande sarà la nostra  parte di gloria Terone. Sarà un onore morire al tuo fianco, amico»

L’aurora dalle dita rosate tornò a splendere, soffocando l’oscura l’eclissi.  Un canto, una musica, un inno antico si spanse  per la piana di Imera. Il mare iniziò a schiumare,  Dagon venne arso vivo dal fuoco sottomarino. La terra si spaccò, i fiumi iniziarono a straripare, le nuvole si aprirono  e Amilcare svenne. Gelone indicò con la spada la collina dove un tempo sorgeva Imera  «Che gran figlio di…» sussurrò. Pindaro era impegnato a suonare un’antica cetra dorata. E dagli squarci del terreno nacquero degli uomini, alti,  immensi, sacri all’Olimpo. Un carro da guerra nacque dall’Ade, Anfiarao profeta guerriero di  Argo si scagliò contro Mot che vacillò sotto la potenza dell’argivo.  Dal mare emerse un uomo nudo, con la spada di bronzo in un mano e una testa di gorgone nell’altra.  Aniat la nera lo fronteggiò, in poco  divenne di pietra.  Teseo la spinse delicatamente, la statua si sgretolò in mille pezzi. Dalla cenere di Imera presero vita il biondo Achille e il mirmidone  Patrocolo, i due intonavano un peana guerriero e colpivano con  le spade nere  centinaia di cartaginesi. Odisseo  seminava la morte col suo possente arco, flagello dei proci africani. Una nave dorata nacque dal fiume  di Imera, Argo era di ritorno dalla barbara Colchide, apparve Giasone con tutti i suoi Argonauti. Nauplio il timoniere con cipiglio severo guidava l’antica nave nel fiume di sangue dei nemici. Scese un colosso dalla nave, ricoperto dalla pelle di leone e armato con un tronco d’albero. Ercole  riuscì  a disintegrare il titano Barthy con una titanica mazzata, la montagna ambulante implose come un vulcano. Eccolo Tideo, flagello di Tebe, divoratore di cervella che elargisce cupa distruzione con sapienza assassina ai vigliacchi iberici.  Su una sfinge mangia uomini c’è Edipo, re giusto e sacrilego,  conduce alla rovina i mercenari di tutte le terre.  Peleo, Castore e Polluce prendono a pugni fino a trasformarli in una poltiglia di sangue quelli che un tempo erano gli opliti del Battaglione Sacro di Cartagine.  Atalanta la vergine guerriera col seno al vento  infilza con centinaia di frecce i numidi, mentre  Menelao e Agamennone Alti Re del Peloponneso   squarciano le file degli uomini dalla pelle nera.

Le leggende e i miti del passato combattevano intorno alla falange siceliota. Imera divenne la tomba di un impero. Orfeo, il primo aedo e il primo dei cantori, sorride perché vede la luce dopo tanto tempo,è felice perché sente il brivido della battaglia. Orfeo affianca Pindaro «Quella cetra dovrebbe essere mia, se non sbaglio»

«So che eri molto amico di Ercole, l’antenato del fondatore di Siracusa. Prima di morire donasti questa cetra al figlio di Zeus, tuo fidato compagno dai tempi dell’impresa della Colchide, lui l’ha trasmessa a tutti i suoi discendenti. Ho pensato che nella tomba di Archia fosse conservato il tuo sacro strumento. Avevo ragione. Tu sciolsi il cuore di Ade per riabbracciare Euridice, così ho pensato di usarla per  risvegliare i miti, per l’Ellade e la Sicilia»

«Hai fatto bene, c’è soltanto una cosa che amo di più della poesia e del canto»

Orfeo sfoderò due lame seghettate dall’aspetto sinistro

«Portare negli inferi uomini che insozzano la Terra con le loro nefandezze»

Pindaro rise, non per la battuta di Orfeo. Gelone stava prendendo a pugni Amilcare.

Del comandante supremo  cartaginese era rimasta soltanto una pozza di sangue.

 

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