I racconti di Satrampa Zeiros – “Masticacuori. Una Storia d’Amore” di Francesco Lacava

Per “I racconti di Satampra Zeiros” , torna a trovarci Francesco Lacava, giovane scrittore che ci propone Masticacuori. Una Storia d’Amore, racconto fantasy di circa 12.000 battute spazi inclusi.

Buona lettura.


Autore

Francesco Lacava nasce a Taranto il 6 Gennaio 1981. Laureato in Scienze Politiche e Antropologia, è un appassionato lettore e narratore, scrive fin da giovanissimo.

Partecipa a diversi concorsi letterari ottenendo risultati in ognuno di essi, spaziando dall’horror, alla fantascienza e la narrativa.

Collabora con la rivista online Callmeishmael.net e con Nocturno in qualità di Freelancer.

Masticacuori

Una Storia d’Amore

di Francesco Lacava

 

Nacqui nel freddo e umido ventre della terra senza che lo volessi.

Scavai frenetico con le unghie, annaspando verso l’alto, mentre frammenti del grembo che mi cingevano scivolavano addosso.

Urlai quando uscii fuori da quell’utero, ma non fu il vagito di un infante, quanto l’atono lamento di un non vivente che viene richiamato alla vita.

La prime cose che vidi furono una pallida e immobile luna in un cielo terso e la tremolante luce di ceri che circondava il luogo che fino a qualche attimo prima mi aveva protetto.

Davanti a me poi apparve il volto e la figura del mio genitore, mi guardava soddisfatto del suo operato, intorno a lui un cerchio di simboli lo proteggeva, o almeno lui pensava così.

Ma la mia fame era più forte di qualunque protezione e sopratutto la svista o la troppa sicurezza avevano fatto in modo che non nascessi esattamente come voleva lui: carne senza volontà, buono solo ad obbedire.

No, io avevo coscienza e ricordi. Avevo volontà e sopratutto fame.

Quando la sua voce ferma e decisa mi comandò, feci finta di obbedire: “Vieni avanti!” e mi mossi.

“Inchinati!” e mi prostrai.

“Seguimi!”

Mi avventai senza che lui se ne rendesse conto.

Affondai le unghie sporche e consunte sul suo collo e con un morso gli strappai la carne tenera delle guance, il caldo sangue che ne sgorgò mi bagnò; mi deliziai di quel sapore metallico come mai prima.

Affondai poi le dita fin dentro la ferita e strappai, allargando le labbra in un sorriso rosso e oscenamente largo, da cui la lingua vermiglia sporgeva come una viscida protuberanza.

Il mio genitore, sbalordito da quella strana dimostrazione di affetto, non poté fare a meno che soccombere. Ma non mi fermai alla sua carne strappata, perché era altro che bramavo, qualcosa che sentivo battere nel suo petto velocemente.

Lo spinsi a terra, ancora vivo e sgambettante, gli strappai la veste che indossava, i ninnoli e i simboli che portava al collo volarono nell’aria, luccicando alle fiammelle delle grosse candele; infine penetrai nello sterno del negromante.

Le mie dita, come frenetiche serpi lacerarono la pelle e le carni dell’uomo che gorgogliava con la bocca penzolante.

Non mi sorpresi della forza, in quel momento, tanta era la brama di divorare il suo cuore. Provò a difendersi invano, poi quando le mie mani spaccarono le sue costole, aprendole in due, smise di muoversi. Solo allora, una volta scoperto quello che cercavo, la mia fame parve placarsi. Mi tuffai sul frutto appena svelato dal suo gheriglio d’ossa, strappandolo come si fa con una radice che si estirpa dal terreno. Una volta tra le mani, trionfante lo sollevai a mo’ di trofeo, mi inebriai di quell’odore, dopodiché lo divorai.

Fu come un amplesso, sentivo il piacere del muscolo nella mia bocca; la sensazione di benessere quando il boccone scendeva nella gola e la soddisfazione nell’essermene nutrito.

Poi la notte fu la mia cappa: ammantato di oscurità lasciai il cimitero, per quanto sapessi che quel luogo sarebbe stato d’ora in poi la mia nuova casa.

Le lapidi erano per me più accoglienti di qualunque letto; la mia fossa più bella di qualsiasi castello.

Le terre che mi avevano visto vivo si distendevano davanti a me placide e silenziose, rischiarate dalla luce della luna galleggiante in cielo.

Dolci campagne e campi aperte, tra filiere di lavande e raccolti, si intravedevano le fattorie e i piccoli villaggi.

Poco dopo giunsi nei pressi della cittadina, le luci accese erano poche, come ultimi baluardi resistevano contro il buio che era calato sul mondo attorno.

L’odore degli oleifici, però mal si sposavano con quello della lavanda appena lasciata alle mie spalle.

Eppure, la gente era abituata a tutto, ricordavo alcune parole sentite in vita: “È il progresso che non può essere fermato!” e frasi del genere.

Io sapevo dove sarei andato, nonostante la mia fame si fosse parzialmente placata, avevo dentro una necessità che mi spingeva avanti, un dovere quasi che mi bruciava dentro e che non potevo assolutamente ignorare.

Quello che mi aveva fatto nascere.

Non sapevo che aspetto avessi, gli abiti con cui ero stato seppellito erano eleganti ma sporchi, senza contare che il sangue del mio genitore imbrattava la faccia; le mani e la camicia. Per strada a quell’ora non c’era nessuno; sugli acciottolati si udivano solo i miei passi; i lampioni erano stati già spenti e quasi tutti i caffè e le osterie invitavano i propri avventori a lasciare quei nidi di tabacco e vino e tornare alle proprie dimore. Mi tenevo ben alla larga da luci e umanità, non erano più mie; un tempo forse mi avrebbero accarezzato e cullato.

Un tempo le parole, l’alcol e la compagnia sarebbero state liete e ben accette, ma adesso invece erano solo immagini vacue e prive di significato, come i riflessi di uno specchio.

Conoscevo ogni strada di quella città, era stata la mia città, avevo avuto tra le mani il potere di controllarla; le mie navi e i carichi che essi contenevano erano stati linfa vitale per il commercio. Adesso tutto questo era finito; non mi appartenevano più, né avrei voluto riavere indietro la mia compagnia o le mie imbarcazioni.

Attraverso i vicoli più bui, come un ratto strisciai fino al porto, fino alla mia destinazione. Guidato da un istinto primordiale e sovrannaturale, camminavo con in mente un solo scopo, tutto il resto non mi interessava.

La grande casa era buia e silenziosa. Le alte finestre avevano le tende tirate e nessuna luce filtrava dai vetri. Tutto era come lo avevo lasciato, di nuovo c’era solo una grossa coccarda nera sulla cancellata, simbolo del lutto che mi rappresentava.

Girai sul retro, dopo aver scavalcato la cancellata, la mia nuova condizione mi stupiva adesso, perché iniziavo a rendermi conto di ciò che ero in grado di fare: la forza; l’agilità e la destrezza erano aumentate e divenute attitudini naturali, con le quali potevo muovermi con facilità.

Mi liberai del cane senza remore, anche lui non mi apparteneva più né mi riconobbe quando mi vide aggirarmi nel giardino.

Stessa sorte toccò ai domestici, gli spezzai il collo mentre erano a letto, senza che se ne accorgessero, una morte pulita, un dono e un lusso concesso a pochissimi.

Salii in camera senza fare rumore, la porta della camera da letto era chiusa, dentro sentivo i respiri regolari di due che dormivano. Nonostante il buio, riuscivo a distinguere le sagome sdraiate, mi avvicinai a quella di sinistra come un’ombra e implacabile affondai entrambe le mani sulla prima.

Ci fu un suono strano, schizzi di sangue schizzarono in faccia e quando giunsi al cuore, lo strappai con ferale soddisfazione e iniziai a mangiarlo.

Il suono e i movimenti sul letto la fecero svegliare, fu solo quando accese la lampada sul comodino, che si accorse di quello che era successo.

Lanciò un urlo che avrebbe richiamato chiunque fosse stato ancora vivo in casa, ma l’unica persona rimasta era solo lei.

Io la guardai, col sangue che imbrattava il volto e pezzi di cuore che penzolavano dalle labbra.

I miei occhi la fissarono intensamente e nella mente passarono tutte le scene e le situazioni che avevamo trascorso: il corteggiamento; le lunghe passeggiate; il matrimonio e l’amore, fino alla decadenza dello stesso, quando incapaci di reagire, avevamo iniziato a percorrere strade diverse.

Troppo tardi mi accorsi della fatale bevanda che la mia sposa mi fece bere un pomeriggio piovoso di aprile.  

«Jean…»

«Valerie.»

Si dice che per amore si compiano imprese folli e disperate, tali che nessuno sano di mente, avrebbe il coraggio di ripetere.

Io non ero innamorato, non più ormai: il cuore celato nel petto, era freddo e immobile, nessun sangue ne irrorava le stanze, nessun sentimento lo smuoveva dalla sua statica condizione.

Il corpo del suo amante giaceva riverso di schiena con un foro vermiglio tra le scapole e schegge di osso che sporgevano come zanne affilate. Il suo cuore aveva un sapore di vittoria, di conquista e vendetta.

Ma non ero soddisfatto, non ancora; non del tutto.

Valerie era impalata dalla paura e dall’orrore, se ne stava immobile accanto al cadavere di Louis, con le coperte tirate fin sopra il petto come una barriera. La sua bocca si muoveva lenta, ma non riusciva più a pronunciare nessun suono, se non una balbettante sequela di sillabe sconnesse e quasi incomprensibili.

Mi avvicinai a lei, scostando il corpo immobile che cadde sul pavimento con un tonfo.

Ci ritrovammo faccia a faccia: la mia sporca di sangue e di terra; la sua rigata dall’orrore e dalle lacrime.

Sentivo il suo cuore battere come un tamburo; allungai una mano fino a sfiorarle i seni; Valerie sussultò ma non si mosse.

Poi salii al collo e lei trattenne il fiato chiudendo gli occhi.

Ero andato da lei con l’intenzione di strapparle il cuore e divorarlo, ma improvvisamente la boria; la fame e il desiderio di vendetta vennero meno.

Vederla atterrita e inerme, vulnerabile come un ramoscello esposto alle intemperie, mi fece un effetto strano.

Una volta, pensai, la amavo; adesso, nonostante tutto mi sembrava distante e priva di significato.

Non pensai più alla sua morte, ma a qualcosa di diverso, di nuovo.

Le posai le labbra fredde sulle sue calde, fu un bacio lungo, come quello che ci eravamo scambiati in vita, pochi in realtà dato il suo algido affetto; sentivo che piangeva e si dimenava cercando di allontanarmi, ma la mia stretta era molto più forte.

Al termine le morsi il labbro inferiore e succhiai il sangue che ne fuoriusciva. Quando la lasciai andare lei cadde sul letto e giacque immobile, come in deliquio.

Sgusciai fuori nella notte lasciando la casa che a vederla in quel momento, sotto un’altra prospettiva, appariva scarna e non suscitava alcuna reazione, come osservare qualcosa di piatto ed estraneo.

Attraversai nuovamente la città, ma questa volta non mi nascosi tra i vicoli come un ratto, percorsi le vie a testa alta; chi mi vide restò spaventato, pensando ad un folle; un fantasma o un angelo della morte, sporco com’ero di sangue.

Ma non ero nessuna di queste cose, mi tornò in mente le parole di un turco conosciuto a Istanbul e che disse di leggere su di me il marchio dei Ghul, ero quello dunque: un demone che viveva tra cielo e terra e si cibava di cadaveri o dei loro cuori ancora pulsanti.

Uno sprovveduto negromante mi aveva richiamato dalla tomba ed una donna mi aveva animato perché le dessi ciò che meritava, secondo il mio modo di vedere.

Adesso sono Masticacuori, il ghul della Provenza, così mi chiamano.

Mi aggiro tra i cunicoli e le gallerie scavate sotto le lapidi del cimitero, a volte vi trascino le prede ancora vive, altre volte creo la mia genia, i miei figli.

Valerie è morta qualche tempo fa: si è impiccata incapace di reggere l’orrore di quella notte.

Anche lei ora si aggira tra le lapidi dei cimiteri, cercando invano il suo luogo, mi detesta alla stessa maniera di una figlia che detesta un padre despota e perverso.

Vorrebbe potermi uccidere, ma qualcosa la frena e così si sfoga sui giovani uomini che riesce a trascinare nella sua fetta di terra.

È ironico che sia stata sepolta accanto a me: Finché morti non vi separi o la non vita vi riunisca.

     

 

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