
Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare per la prima volta Christian Balsamo, che ci propone “Giorno di mercato”, racconto sword and sorcery di circa 20.000 battute spazi inclusi.
Buona lettura.
Autore
Christian Balsamo, nato a Catania 34 anni fa, ha conseguito la laurea triennale in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Catania. E’ sempre stato un buon lettore, e ha conosciuto le opere di R. E. Howard all’età di 16 anni circa, rimanendone fulminato. Da allora cerca sempre di ampliare la sua collezione di libri a tema Sword and Sorcery. Suona la chitarra e il violino (da poco), e vorrebbe diventare un traduttore editoriale professionista.
Sinossi
La prima delle avventure di Bronn, un orfano cresciuto in un monastero, nel mondo di Drearinor; le pedine in gioco sono tante, ma come sempre accade, la valanga ha origine da un sassolino. Abbandonato il monastero che era la sua casa, Bronn si aggrega a un gruppo di mercenari, alla ricerca del vero se stesso.
Giorno di mercato
di Christian Balsamo
La strada che conduceva in città era piuttosto trafficata, nonostante l’orario mattutino: venditori su carri carichi di mercanzie provenienti dagli angoli più sperduti di Drearinor; soldati della Guardia di ritorno dal congedo; contadini con carriole semivuote e pastori che trascinavano asini riottosi carichi di fascine; fornitori e semplici sfaccendati, tutti diretti al mercato che avrebbe invaso la piazza principale.
Adattando il passo a quello più lento di Fratello Nachus, Bronn si godeva il paesaggio e la sensazione di libertà dalle mura, a volte opprimenti, del convento.
La striscia di terra battuta che delimitava la strada si andava lentamente allargando, e digradava seguendo l’inclinazione del terreno, fino a giungere ai piedi di un solido arco di pietra presidiato da alcune guardie, che controllavano il traffico in entrata.
«Veniamo dal convento sulle colline, per la questua» spiegò Fratello Nachus, bonario, e una delle guardie gli fece svogliatamente cenno di passare oltre. Superato l’arco, Bronn notò un gruppetto di donne con indosso stracci variopinti, che stazionavano sotto una tettoia, alcune assumendo pose più o meno lascive, e apostrofavano i passanti, riscaldandosi a un gran braciere che ardeva lì nei pressi.
«Ehi, volete che vi lavi la tonaca?» gridò al loro indirizzo una di queste, ridendo sguaiatamente. Fratello Nachus si segnò incrociando le braccia sul petto e borbottando scandalizzato; Bronn si limitò ad osservare quelle puttane di città: era la prima volta che ne vedeva da vicino, e per il momento non ritenne opportuno spiegare loro che, essendo un fratello laico, non aveva preso nessun voto, nemmeno quello di castità.
Proseguendo lungo la via principale, verso la piazza, i rumori e gli odori si facevano più forti: i mercanti facevano a gara nell’elogiare le qualità delle proprie merci; gli astrologi indicavano il cielo e srotolavano mappe celesti; i profeti annunciavano la fine del mondo; gli alchimisti e gli indovini dispensavano i loro arcani a popolani creduloni e nobili diffidenti.
Fratello Nachus levò la voce in un salmodiare monotono: «Un’offerta per il convento, un’offerta per i monaci di Baalinor! Un’offerta per il convento, e in cambio la protezione delle messi per tutto l’inverno! Fate un’offerta…» Bronn notò che la maggior parte della gente li evitava, sgusciando agilmente tra i banchi dei mercanti, i quali a loro volta avevano occhi soltanto per i loro clienti.
A un tratto Fratello Nachus fece cenno a un mercante, che in quel momento non era impegnato con nessun compratore, e che rispose a quel cenno con evidente malavoglia.
«Salute a te, Naos! Felice di vederti» lo salutò Fratello Nachus.
«Salute, salute…» borbottò il mercante, infastidito.
«Oggi è giorno di questua, come vedi» iniziò il monaco, agitando allegramente la bisaccia vuota.
«Mi dispiace Fratello, ma quest’anno non ho niente per voi.»
«Suvvia, non è da te essere avaro, mio buon Naos, né irriconoscente,» lo rampognò bonariamente Nachus, «hai dimenticato l’amuleto che ti diedi l’anno scorso per proteggere i tuoi campi?»
«Non l’ho dimenticato affatto,» replicò il mercante, rabbuiandosi.
«Dunque? Non ritieni giusto sdebitarti, rendere il giusto ringraziamento a Baalinor?»
«Metà del mio raccolto è andato in malora!» cominciò a sbraitare allora il mercante, «metà delle mie patate è ammuffita, e il tuo dannato amuleto non è servito a un accidente! Se non le dovessi vendere, ti lapiderei con le patate che mi restano!»
Fratello Nachus, senza scomporsi più di tanto all’invettiva del mercante, si avvicinò ulteriormente al banco di quest’ultimo e iniziò una lunga conversazione. Bronn rimase leggermente in disparte, guardandosi intorno: la sua attenzione venne catturata da un vecchio, intabarrato in una tunica vecchia e logora, seduto su un tappeto liso, tra due ceri che spandevano nell’aria un aroma greve, in un angolo seminascosto della via, discosto dal flusso di popolani e dagli altri mercanti, che gli lanciavano occhiate sdegnose e indagatorie. Dopo averlo osservato per alcuni minuti, Bronn gli si avvicinò, e nel farlo notò che questi borbottava ininterrottamente frasi incoerenti: «Secoli di sangue, millenni di sangue… nel sangue nati, nel sangue morti, nel sangue incatenati… »
Evidentemente il vecchio sproloquiava. Bronn era in procinto di allontanarsi, quando quest’ultimo lo apostrofò:
«Avvicinati, ragazzo, vieni ad ascoltare le parole del vecchio Ogar!»
Il giovane tentennò: c’era qualcosa in quel vecchio che, seppur male in arnese, gli conferiva un’aura di saggezza e conoscenza.
«Non avrai paura di un povero cieco, non è vero?» lo incitò Ogar, con un riso chioccio che agitò il mare di rughe sul suo viso. Bronn gli si sedette di fronte, fissando con inquietudine il bianco malsano di quei bulbi vuoti.
«Lascia che scosti per te il Velo, ragazzo, e ti dica ciò che giace al di là di esso…» Il vecchio, dopo alcuni istanti di silenzio, prese a parlare con una voce bassa e roca, simile al raspare di un artiglio sulla pietra:
«I Semi dell’Albero d’acciaio si spargono ai quattro angoli di Drearinor, trascinati da Venti invisibili, attirati sulla via della Spada e sospinti su fiumi di Sangue! Alcuni di essi attecchiscono e mettono radici che mordono la Terra, altri soffocano nella sozzura della Civiltà, altri ancora percorrono senza sosta il vasto Mondo, araldi di una Nuova Era! I Regni sorgono e crollano, la barbarie nasce dall’opulenza, come una serpe che divora la propria coda, e l’Uomo sogna la libertà, ignaro delle catene di Sangue che ovunque lo tengono avvinto!»
Bronn ascoltava la voce monotona di Ogar, sentendo vibrare dentro di sé un impeto, una forza sconosciuta che sembrava trarre energia dalle parole del veggente; si sentì trasportare al di là dello Spazio e del Tempo, e fu muto testimone del dipanarsi di infinite Vite attraverso sentieri di Dolore e Ambizione, striati di sangue scarlatto, che inesorabilmente si concludevano nel gelido e silenzioso abbraccio della Morte. Vide eserciti dalle armature scintillanti abbattersi come una pioggia di meteore su città tanto vaste da occupare l’intero orizzonte; vide l’Umanità strisciare fuori dagli Abissi dell’inconsapevolezza ed ergersi sempre più in alto, per inabissarsi nuovamente, trascinata dallo smodato desiderio di potere, magia, ricchezza. A queste visioni, una corda risuonò nell’animo di Bronn, rivelando qualcosa, qualcosa che finora era rimasto celato in lui, come il metallo vivo e lucido ricoperto da uno strato di ruggine. Avvertiva un ardore, un richiamo, una sete, che chiedevano a gran voce di essere seguiti ed estinti…
Quando finalmente la sua mente smise di vagare, Bronn si ritrovò ancora nella piazza del mercato, circondato da popolani che continuavano ad acquistare e contrattare senza prestargli la minima attenzione; anche Fratello Nachus era ancora impegnato a battibeccare con Naos, il mercante. Abbassando lo sguardo, Bronn vide che il piccolo riquadro di selciato occupato da Ogar era adesso vuoto: niente stuoia, niente ceri fumiganti, e niente vecchio. Era scomparso, volatilizzatosi come per magia. Una sottile inquietudine si fece strada nel suo spirito, disegnandogli un brivido freddo sulla schiena. Con la mente ancora assorbita dalle parole di Ogar, si avvicinò a passo lento al suo confratello; la questua andò avanti fino al tramonto.
«È ormai tardi per tornare al monastero, passeremo la notte qui in città» disse Fratello Nachus, dirigendo i propri passi verso una casa dalle finestre illuminate, e sopra la cui porta era assicurato – a mo’ di insegna – un piccolo barile. Giunti sulla soglia dell’osteria, Bronn e Fratello Nachus si fermarono per guardarsi intorno alla luce delle candele. L’aria, che risuonava di roche risate da ubriachi, era appesantita da un miscuglio di odori: foglie di sys, sudore, e qualcosa che sobolliva in un pentolone dietro il banco della mescita. Ai tavoli, oltre a un nutrito gruppo di mercanti Dreliani che bevevano allegramente parlando d’affari, sedevano alcuni cacciatori Liriani tarchiati e dai capelli scuri, che borbottavano tra loro, mentre un tavolo era occupato da un Nano, un uomo dal cranio rasato con indosso una tunica scarlatta, e due uomini dalla pelle scura; un musico Astochiano, seduto presso una finestra, stava accordando un’arpa. L’oste, un uomo alto e robusto, uscì dal banco della mescita reggendo un vassoio carico di boccali:
«Non ho nulla da offrire per la vostra questua, Fratelli» disse, «se non un piatto caldo, un buon boccale e ospitalità per la notte».
«È più di quanto avevamo intenzione di chiedere» replicò Nachus, sorridendo, «Baalinor ti conservi!» L’oste fece loro strada verso un tavolo libero e un po’ appartato, distribuendo al contempo le varie ordinazioni ai tavoli. Nachus si sedette con evidente sollievo: «Sarei davvero curioso di sapere cosa ti è successo: hai passato quasi l’intera giornata in silenzio», osservò. Bronn non aveva potuto evitare di rimuginare per l’intera giornata sulle parole sibilline del vecchio Ogar, senza costrutto: ne avvertiva il significato nascosto, ma gliene sfuggiva la piena comprensione. Percepiva che quelle parole erano in qualche modo destinate solo e soltanto a lui, che solo a lui spettava risolverne il mistero, e tuttavia era necessario rispondere in qualche modo a Nachus, foss’anche soltanto per placarne la curiosità.
Tale fatica gli venne momentaneamente risparmiata dall’arrivo dell’oste con un vassoio contenente due ciotole fumanti e due boccali. «Baalinor te ne renda merito, buon oste!» disse Nachus, facendo un gesto benaugurante all’indirizzo dell’uomo. Ad accompagnare il pasto silenzioso dei due monaci, giunsero le voci provenienti dai tavoli vicini:
«Non siamo ambasciatori», stava dicendo uno dei due uomini dalla pelle scura, rivolto all’uomo dalla veste scarlatta, a voce bassa, ma con tono risoluto.
«Pensavo foste diretti a Muskaria: so che le notizie di queste scorrerie sono giunte fino alla capitale, e so che il Reggente ha ricevuto diverse ambasciate, da Nord, da Sud e da Est, e tutti i latori si sono dichiarati estranei alla faccenda», replicò quest’ultimo.
«Non vedo che altro potrebbero dire!» si intromise il Nano, smettendo di bere avidamente dal proprio boccale, «Non ci si può fidare di nessuno, sono tutti spie! Intanto i tirapiedi di questo dannato Stregone si aggirano impuniti per ogni dove, nascondendosi sulle montagne. E a pagarne maggiormente le conseguenze siamo noi Nani! Io sì che avrei un’ambasciata per il Reggente, giù a Muskaria: se andiamo avanti di questo passo i convogli di merce non potranno più valicare il passo di Ethalennon, e allora vorrò proprio vedere come faranno nella capitale senza gioielli, senza pellicce e senza la carne di foca che non si stancano mai di richiedere!» ruggì, riprendendo subito dopo a ingurgitare birra. L’uomo in scarlatto tirò fuori dalla veste un piccolo fascio di pergamene strettamente legate, e iniziò a scrivere con un piccolo stilo d’osso. I due uomini dalla pelle scura invece sembravano offesi dall’accusa di essere spie, indirettamente rivolta loro dal Nano, ma nessuno dei due parve ritenere necessario approfondire il punto. Al tavolo dei cacciatori Liriani, l’argomento di conversazione era il medesimo: «Ero fuori casa una notte, ero andato a caccia alle pendici delle montagne, e posso giurare di averli visti» stava raccontando uno di loro. «La notte era serena, non c’erano nuvole e il cielo era tutto un luccichio di stelle. All’improvviso udii lo scalpitio di numerosi cavalli lanciati al galoppo; sembravano diretti verso le montagne. Mentre cercavo di avvicinarmi per osservarli senza essere visto, udii e vidi il crepitio azzurro di un fulmine, su una delle cime più basse del crinale. In quel momento sentii il sangue ghiacciarmisi nelle vene, e quasi le gambe non mi ressero. Un fulmine che si abbatte su una montagna in una notte serena può voler dire soltanto una cosa: stregoneria!» Il tozzo cacciatore interruppe brevemente il suo racconto per bere un sorso. «Soltanto dopo mi resi conto che la compagnia a cavallo si stava dirigendo esattamente verso il luogo in cui si era abbattuto quel fulmine, e che dunque si trattava dei seguaci di Nevoir, lo Stregone. Raccolsi le mie cose alla meno peggio e tornai correndo a valle, verso casa». Al termine del racconto seguì un lungo silenzio accigliato, intriso di cupo fatalismo. Tale silenzio venne squarciato da un rumore irregolare di passi che si avvicinavano alla locanda: la porta venne spalancata da un uomo con indosso un saio da monaco.
«Hanno attaccato il convento! Baalinor ci protegga!» fu tutto quello che riuscì a dire prima di perdere conoscenza. L’oste, aiutato dai cacciatori, adagiarono il monaco sulla panca, mentre da fuori giungeva il vocio di una piccola folla che si andava radunando.
«Fratello Reziel!» esclamò Nahcus, riconoscendolo immediatamente. «Il monastero è in pericolo, i nostri fratelli, l’abate…»
«Resta qui con lui,» disse Bronn, «andrò io a vedere cosa è successo.» E senza dare il tempo al confratello più anziano di rispondere, uscì dalla taverna.
«Quelle canaglie si sono fatte troppo audaci!» sentì dire al borgomastro, che stava salendo a cavallo e per mettersi in testa a un drappello di guardie. Alla luce di alcune torce, un gruppo di uomini appiedati, con armi di fortuna, formava ranghi compatti, incamminandosi sulla scia delle guardie a cavallo. Bronn salì in groppa a un cavallo che trovò nella stalla della locanda, e partì anche lui; era diviso tra un sentimento di inquietudine per la scena che gli si sarebbe parata davanti una volta raggiunto il convento, e una sensazione nuova e non del tutto chiara che gli faceva incitare il cavallo e stringere l’elsa della spada: l’anelito alla battaglia, il richiamo del sangue.
Alcune nuvole coprirono la luna, e la notte diventò soffocante come un panno di velluto nero premuto sul volto; procedettero alla luce delle torce, guidati dal suono delle campane a martello. Bronn conoscendo perfettamente il terreno circostante il monastero, riusciva a orientarsi anche nella semioscurità: incitò il cavallo a inerpicarsi lungo il pendio, superando gli altri. Adesso le mura incombevano sopra la sua testa, ed erano rischiarate da uno strano bagliore irregolare e rossastro: dovevano avere appiccato il fuoco. All’ingresso del monastero il portone era intatto, ma sul legno erano state incise, come marchiate a fuoco, delle rune di qualche sorta, probabilmente utilizzate per scardinarlo. Bronn sentì dei nitriti soffocati provenire dal chiostro, insieme a flebili lamenti: lasciando il cavallo sotto il portico si mosse verso quei suoni, seminascosto dalle ombre del colonnato, la mano sull’elsa della spada ancora nel fodero. I monaci sedevano sull’erba umida, seminudi, intontiti e terrorizzati, mentre una ventina di figure ammantate di scuro li circondava, braccandoli come tanti segugi.
«Il tuo porcile brucia, vecchio,» abbaiò uno di loro, rivolto ad Arus, l’abate. Poi, ad un suo cenno, il cerchio di accoliti si strinse, e vi fu un balenio d’acciaio, seguito da rantoli soffocati e tonfi. In quel preciso istante le guardie cittadine a cavallo fecero irruzione nel chiostro.
«Sono gli sgherri dello Stregone! Prendeteli!» urlò il borgomastro. Gli accoliti balzarono a cavallo con una rapidità sorprendente, cercando di guadagnare l’uscita, e ben presto le lame balenarono alla la luce delle fiamme, che si andavano propagando per l’edificio. Gli uomini di Nevoir combattevano con perizia e disciplina, ed era evidente che avrebbero avuto presto ragione delle guardie. Tre o quattro di loro avevano di fatto superato i difensori del convento, e si accingevano a fuggire. Sotto il portico, un cavallo sbuffava spaventato dal fumo che ormai si levava da più parti in ampie spire. Bronn vi saltò in groppa senza pensarci due volte, partendo all’inseguimento. La luna riemerse nella notte, permettendo a Bronn di vedere i cavalli dei fuggiaschi inerpicarsi verso le montagne, spronati aspramente dai loro cavalieri. Mentre cavalcava a briglia sciolta cercando di recuperare lo svantaggio, sentiva risuonare nelle orecchie le parole del vecchio Ogar, che sembravano diventare più chiare, e radicarsi nella sua mente e nel suo cuore.
Le cime frastagliate delle montagne incombevano sempre più vicine, e il terreno si fece pietroso e scosceso; il cavallo rallentò, salendo al passo. Bronn era impaziente di raggiungere quei diavoli assassini e sopportava a stento i passi malfermi del suo cavallo, ma poi pensò che sicuramente anche gli inseguiti avevano dovuto rallentare la loro fuga. Le rocce erano spazzate da brusche folate di vento, e la luna spandeva su di esse un lucore alieno; c’era un sentiero che si addentrava tra due alte pareti rocciose, proseguendo verso la cima: Bronn vide i fuggiaschi addentrarvisi in fila indiana, sempre dando di sprone, e imboccò anche lui lo stretto passaggio. La distanza tra loro si era molto ridotta, tanto da poter sentire chiaramente l’ansito dei cavalli sfiancati e il tintinnio dei finimenti. Improvvisamente uno dei cavalli scartò bruscamente sbalzando di sella il suo cavaliere, che si rialzò immediatamente, avvicinandosi all’animale: un impennaggio di piume nere era tutto ciò che restava visibile di una lunga freccia, profondamente conficcata nell’ampio petto dell’animale. L’uomo diede una voce di avvertimento ai suoi compagni, ma troppo tardi: da una sporgenza rocciosa uscirono una mezza dozzina di uomini, che si avventarono sugli accoliti, disarmandoli e immobilizzandoli.
Bronn nel frattempo aveva raggiunto l’uomo il cui cavallo era stato abbattuto dalla freccia e, sguainata la spada, balzò giù di sella per affrontarlo. L’uomo si era già posizionato al centro del sentiero, le gambe divaricate, impugnando una spada a lama larga. Pur non avendo mai combattuto prima, Bronn si mosse senza esitazione: la lama, una volta sfoderata, emanò un sottile ronzio. Sul viso dell’uomo che gli stava di fronte, Bronn vide nascere un sorriso duro come l’acciaio:
«Stanotte vedrò il colore del tuo sangue, ragazzo!»
Bronn, tenendo la lama obliqua davanti al viso, si avventò, vibrante di energia repressa. Ma un mercenario conosce alla perfezione tutti i trucchi e le strategie per vincere un duello, oltre a conoscere a perfezione la propria arma: le sue parate sono puntuali, i suoi movimenti rilassati, il suo polso inflessibile. Bronn invece combatteva con foga, ma in modo disordinato: il suo avversario riusciva a tenergli testa facendo la metà dei movimenti; gocce di sudore presero a scivolargli lungo la fronte, il polso si intorpidiva ad ogni parata, i suoi passi perdevano di agilità, e il sorriso dell’uomo al servizio di Nevoir si fece più ampio, il suo sguardo brillò, maligno. Mentre i due uomini si muovevano in circolo, specularmente, imbastendo una lenta danza d’acciaio e di morte, nella mente di Bronn si formarono delle immagini: il convento, l’abate Arus, i confratelli, Ogar col suo sguardo cieco, gli avventori alla locanda, gli accoliti di Nevoir. Entrambi gli uomini scattarono nel medesimo istante: l’acciaio urlò come fosse vivo, ma il braccio di Bronn, spinto da una forza arcana e ignota, spezzò la lama dell’avversario, affondandogli nel petto. Cadendo in ginocchio, Bronn boccheggiava in cerca d’aria.
«Mai visto un monaco usare la spada prima d’ora.» Un uomo alto, vestito come un cacciatore, avanzava avvicinandosi.
«Certo, non gli farebbero male un paio di lezioni di scherma,» sghignazzò un altro.
Una mano delicata, ma fredda, si insinuò sotto il mento di Bronn, sollevandogli il viso: apparteneva a una donna dallo sguardo triste. L’altra mano, che la donna gli poggiò all’altezza del cuore, emanava un lieve brillio: quel contatto rassicurò Bronn e gli infuse una sensazione di tranquillità.
«Puoi venire con noi, se lo desideri,» disse la donna.
Bronn si alzò, guardò gli uomini e la donna, e fece loro cenno di fargli strada.