
Sinossi
Perduta nel cuore dell’Africa, vive ancora una stirpe di uomini eredi della più spietata città dell’antico Oriente: Ninive!
Commento
Con I figli di Asshur, il ciclo di Solomon Kane giunge al termine.
E’ vero, dovremo parlare – non è possibile farne a meno – anche della famosa e triste lirica Solomon Kane torna a casa, che, almeno in termini cronologici, costituisce il vero e proprio finale della saga. Resta però indubbio che quello di cui ci apprestiamo a discutere è l’ultimo racconto vero e proprio che possiamo sfogliare.
Chi, magari ancora eccitato per la roboante conclusione de I passi all’interno menzionata il mese scorso, dovesse aver maturato l’aspettativa di un gran finale, rimarrà con buona probabilità deluso.
Nello scrivere I figli di Asshur, Howard non ha palesato la benché minima intenzione di elaborare anche solo lontanamente qualcosa di simile a un episodio conclusivo. Egli lavorava sulla base di un’ispirazione quasi “binaria”, che lo possedeva in maniera totalizzante, ma che pure poteva abbandonarlo tutto d’un tratto, senza preavviso. E se dunque sentiva che un personaggio non aveva più nulla da bisbigliargli all’orecchio, ecco che le sue avventure finivano, e cominciavano quelle di un altro.
Anche in questo epilogo non dichiarato quindi, il racconto si apre sull’ormai familiare scenario africano, e se non fosse per la menzione fuggevole di qualche avvenimento del passato, potrebbe essere collocato in un punto qualsiasi del vagabondaggio periglioso di Kane per le giungle dell’Africa Nera. Abbiamo l’impressione di un progressivo spostarsi verso Occidente del nostro puritano, ma si tratta appunto dell’ennesima giravolta del suo cammino eterno, e il particolare ha un rilievo ininfluente.
E’ invece con un certo imbarazzo che assistiamo al riciclo, invero un po’ spudorato, di incastri già visti in passato più e più volte: un agguato nella notte in un misero villaggio di una tribù nera che ospita Solomon Kane, il successivo inseguimento dei misteriosi assalitori lungo piste ignote, la cattura del puritano da parte di tetri guerrieri di una razza anomala e crudele.
E’ quanto serve ad Howard per trasportare – senza l’incongruo utilizzo di una macchina del tempo o di un troppo clamoroso sortilegio – il suo protagonista nel bel mezzo di una sanguinosa lotta fra le fazioni di un popolo che dovrebbe essere estinto e dimenticato: gli Assiri.
Come degli esuli della biblica Ninive, maledetta dal Signore e ridotta in rovina dai Persiani, siano giunti fino in Africa, stavolta nemmeno lo scrittore texano prova a ipotizzarlo. Sono lì, da almeno 2500 anni, e vivono ancora in monolitiche città oscurate dalla mole di ziqqurat immense, dominio di re crudeli e sacerdoti dal cranio rasato.
E’ un peccato che manchi la consueta digressione parastorica tipica di altri racconti. In queste fantasiose eppur quasi plausibili divagazioni, Howard dava il suo meglio, cimentandosi in favolose descrizioni di esodi magniloquenti, decadenze ineluttabili e travasi di popoli che sono sempre migrazioni epocali.
Inutile dire che l’approdo di Solomon Kane presso la perduta città assira è il prodromo della sua fine; invischiato nei suoi intrighi macchiati di sangue, il viandante vestito di nero assisterà (e persino officerà, sotto l’effetto della droga!) a terribili riti pagani, incontrerà sovrani spietati, schiavi miserevoli, donne dagli occhi neri come berilli… Insomma, un armamentario sempreverde, che abbiamo ben imparato a conoscere, e che mostra qua e là l’usura di un utilizzo troppo intenso.
Anche la consueta dose di azione appare un po’ di maniera. Il tutto, ovviamente, in rapporto agli standard howardiani, che anche nei casi peggiori sono sempre di qualità superiore ai suoi molti epigoni.
Dobbiamo dunque rassegnarci a finire così questa serie dedicata al terribile spadaccino guidato da Dio? Almeno in parte sì. I figli di Asshur è un racconto divertente anche riletto la centesima volta, ma inutile sperare che si possa elevare miracolosamente a conclusione di qualcosa che probabilmente lostesso Bob Howard concepiva come diverso da quello che noi indichiamo come “Ciclo”.
E’ una discreta storia pulp, aggiunge qualche piccolo dettaglio alla storia del suo protagonista (Kane ha viaggiato anche per le brulle pianure della Mesopotamia, in anni a noi ignoti…) e non si dilunga in stucchevolezze. Possiamo quindi lasciarcela alle spalle con leggerezza, da bravi lettori di riviste popolari, come l’avessimo letta nella sala d’attesa del barbiere o sulla banchina del treno per Cross Plains. Per il vero addio al nostro saturnino puritano diventato giustiziere però, ci vediamo il mese prossimo, con Solomon Kane torna a casa.
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