I racconti di Satrampa Zeiros – “Il tesoro degli Azifi” di Andrea Guido Silvi – Ciclo dei Gatti

Per “I racconti di Satampra Zeiros” , torna a trovarci Andrea Guido Silvi che ci propone “Il tesoro degli Azifi”, quarto racconto fantasy (di circa 65.000 battute spazi inclusi) del Ciclo dei Gatti.

Buona lettura.


Autore

Classe 1981, sono nato a Rieti, dove il verde non manca e si respira ancora un po’ di magia tra boschi, laghi e santuari. Ho sempre viaggiato molto, sin da ragazzo, alla ricerca dell’incanto di paesaggi diversi ed ho continuato a viaggiare per studio (ho studiato in tre continenti), per lavoro e per passione (amo il trekking e la vita all’aperto). Nelle descrizioni delle mie ambientazioni, fantasy e non, c’è infatti poco d’inventato, perché non c’è nulla da aggiungere, se non la giusta storia, alla bellezza del grande nord o delle creste vulcaniche d’isole quasi incontaminate. La magia che non ho potuto vivere direttamente l’ho cercata nella lettura, e ho chiari numi cui ispirarmi: H.P. Lovecraft, E.A. Poe, E. Salgari, C.A. Smith, J.R.R. Tolkien. A questi s’accompagnano tanti altri che, anche con un solo racconto, mi hanno fatto dono di esperienze irripetibili (come King, Chambers, Howard…).

Come scrittore ho un’unica ambizione: mettere davanti agli occhi del lettore il mio mondo, trascinarlo al suo interno e coinvolgerlo. Questo non solo per fargli dimenticare il suo mondo per qualche ora, ma per consentirgli di vivere avventure, sfide, contesti morali e punti di vista diversi con cui confrontarsi. È questo il motivo per cui, a mio avviso, si scrive ancora oggi fantasy con draghi, cavalieri e castelli nella nebbia: la promessa di un mondo onirico, diverso e distante dal giornaliero, predispone al meglio la mente del lettore a regole per lui inusuali o aliene, consentendogli esperienze uniche che si aggiungono al suo bagaglio in maniera del tutto simile a quelle del suo vissuto ordinario.

Bocconiano, nel mio vissuto ordinario lavoro a Roma, dove mi occupo con soddisfazione di marketing per una delle principali compagnie assicurative in Italia, creando prodotti d’investimento destinati alla distribuzione bancaria.


Prefazione del Ciclo dei Gatti a pubblicazione periodica su Hyperborea

di Andrea Guido Silvi

 

La Guerra tra Divinità e Demoni s’approssima, sostiene Emith-Frael, mago e veggente fedele ai Giusti Dèi degli Uomini. I mortali sono le pedine che, mosse sulla scacchiera, preparano gli schieramenti al conflitto, e il loro posizionamento prende anni, decenni, forse secoli. Ladri, guerrieri e mercenari vivono le loro vite, mentre il veggente li indirizza sulla la strada che dovranno percorrere. Edhar “Edh” Manhak (“I Gatti e i ragni”, “Il Nero”) non ha mai conosciuto il veggente, eppure lui ha segnato la sua strada. Edone, lo sgraziato guerriero dalla braccia lunghe (“Il Nero”, “Ynghwamokka”, “La Sfinge” e altri racconti), è allo stesso tempo pedina ed amico di Emith-Frael, che lo spinge verso il suo destino impresa dopo impresa. I Gatti, animali ambigui, sono parte attiva nella lotta alle forze demoniache che minacciano il Creato, ma si muovono perlopiù nell’ombra, vittime ed artefici della superstizione che li circonda.

Il filo conduttore della raccolta è dato dalla predestinazione dei personaggi nella trama decisa dalle divinità, il cui disegno però non è mai chiaro. Attraverso il racconto di vicende tra loro collegate, si scoprono motivazioni e storia dei vari protagonisti, coinvolti in una sorta di staffetta che procede lentamente verso un obiettivo ignoto. Ogni racconto è un tassello del puzzle.

 

Nota: nei racconti i nomi di alcune creature o animali, come avviene per i Gatti, vengono scritti con l’iniziale maiuscola per indicare che si tratta d’esseri appartenenti a specie dotate d’intelletto o dalla natura oltremondana. Allo stesso modo si parla di Uomini, con l’iniziale maiuscola, così come di Nani, Elfi e Gnomi, che insieme compongono l’insieme dei comunemente detti “esseri umani”.


Il tesoro degli Azifi

di Andrea Guido Silvi

 

Berdor dell’Est e Basso Berdor del Sud, dalle Terre dei nomadi Aizi alla Città di Iliad. Dal 2° giorno di Caldosole al 6° di Festa del Raccolto dell’anno 765 dal Mare Ritirato.

 

 

Prologo

Berdor dell’Est, Terre dei nomadi Aizi, foci dell’Aizer. Dal 2° al 10° giorno di Caldosole

 

La volta celeste, tersa e senza Luna, era un manto blu punteggiato d’astri multicolori, luminosi sopra la pianura erbosa che la calura dell’estate, inclemente, aveva reso una distesa di fieno paglierino costellata da papaveri rossi. Il profumo, forte e acre, dell’agnello stufato nel latte acido si diffondeva con la brezza che giungeva dal mare, lontano a sud. In mezzo alle tre tende, il fuoco illuminava cinque Uomini dalla pelle olivastra e gli occhi a mandorla, che gli sedevano attorno mangiando dalle ciotole con avidità, con indosso usberghi lucenti sopra casacche di cotone grezzo. Erano predoni Aizi. Tra loro uno, che spiccava per la possanza del fisico nonostante non fosse più nel fiore degli anni, aveva in grembo un Gatto bianco a macchie nere, un animale minuto che forse sembrava ancora più piccolo guardando al colosso che l’accudiva.

L’Uomo aveva la barba lunga e i capelli brizzolati legati in trecce, con gemme e perle ad ornarli, a riprova della ricchezza dei bottini delle sue imprese. Offrì un pezzo di carne al Gatto, ma l’animale lo rifiutò, sonnolento e abulico, nonostante le orecchie tese e deboli movimenti della coda tradissero la sua inquietudine. Prese quindi ad accarezzarlo, ripagato da deboli fusa di gratitudine, ma non riuscì a ridurne la tensione.

Uno dei compagni del colosso, con la metà dei suoi anni e la barba ancora corta, gli si rivolse con deferenza:

«Napijiri, non diamo da mangiare al bambino?»

Napijiri volse lo sguardo alla tenda alle sue spalle, poi rispose:

«Non accetterebbe cibo da noi oggi, Nepa. Ha visto troppo sangue».

Non lo aveva detto con tristezza, pentimento o compassione: era un fatto che non si poteva cambiare. Continuò a carezzare il Gatto, rinunciando ad altri tentativi di nutrirlo. Il pasto proseguì in silenzio, mentre i volti dei cinque s’adombravano.

«Non avrebbe dovuto essere là», sbottò un guerriero dal volto tatuato. «Che se ne facevano quegli adoratori di Demoni? E perché erano penetrati tanto a fondo nelle nostre terre?»

«Di questo parleremo domani notte con gli anziani della tribù», replicò Napijiri. «Loro forse hanno risposte, e potranno decidere la sorte del bambino.»

«Sarà una lunga cavalcata», considerò il tatuato.

A pochi passi di distanza, al limitare del cerchio di luce, i cavalli ancora sudati finalmente riposavano. In ogni direzione non si scorgevano fuochi e, per quanto potessero vedere, il loro accampamento erano l’unico segno di presenza umana nella pianura.

«Per questo sarà meglio riposare», concluse Napijiri, posando a terra la ciotola ormai vuota.

«Cos’ha Hailasif, Napijiri?» gli chiese Nepa. «La notte non lo invoglia alla caccia?»

«Oggi pare di no, ragazzo. Abbiamo cavalcato a lungo e credo sia stanco. Inoltre qualcosa lo turba, perché non ha appetito. Forse toporagni e serpenti potranno curare i loro affari notturni in pace.»

Hailasif restava acciambellato immobile e sembrava sul punto d’assopirsi, ma teneva ancora le orecchie dritte, come se cercasse di restare vigile nonostante la stanchezza.

 

                                                                   

«Ancora non capisco», affermò il tatuato. «Con che coraggio tieni da conto una simile bestia magica? Per violazioni delle tradizioni come questa non hai ora una tua tribù.»

Gli diede subito man forte un altro predone:

«E io non capisco perché noi siamo così pazzi da seguire un Uomo che s’accompagna a un Gatto: sono infidi e imprevedibili, se non malvagi».

«Come già vi ho detto, vi prego di credermi», rispose pacato il colosso. «Se aveste visto le cose che ho visto io e sapeste quanto io so, anche voi vorreste un Gatto sempre al vostro fianco.»  

Guardava con amore l’animale stremato e nervoso. Fu l’improvviso tremito delle sue vibrisse e gli occhi gialli che si spalancavano ad avvertirlo che la minaccia temuta da Hailasif era reale e imminente.

Folate di vento caldo giunsero dal deserto a nord e i cavalli iniziarono a nitrire. Hailasif balzò in terra, con il pelo gonfio, e prese a guardare in ogni direzione in cerca del pericolo, come anche fecero gli umani, con un inspiegabile brivido a percorrergli le colonne vertebrali: furono subito in piedi, sguainando le scimitarre.

Il rumore del battito d’una moltitudine d’ali e lo stridente gracchiare di centinaia di corvi vennero dall’alto; una macchia nera calò turbinando sull’accampamento. Grida di dolore atroce si diffusero nel vuoto della pianura e il sangue macchiò l’erba secca. Il primo Uomo che cadde ancora dimenandosi non era riconoscibile, perché non aveva più occhi e pelle, e la carne viva esposta e i suoi lacerti tremolavano scossi da convulsioni. La bocca senza labbra era aperta in un urlo senza fine.

 

***

 

Il Sole e le sue sorelle più piccole, le altre dodici Luci del Giorno che con esso scorrevano fisse sulla Cintura Stellare, illuminavano la giornata estiva dall’alto della volta celeste sgombra da nubi; la caracca era salpata la sera prima dal porto della Libera Città di Alaxa e navigava verso ovest, nel mare calmo e limpido, spinta da una fresca brezza. Vicino all’impavesata, a guardare la costa verde lontana a nord, v’erano un colosso barbuto dagli occhi a mandorla e la pelle olivastra, sulla cinquantina, e un bambino dalla pelle più scura di forse sei o sette anni, con occhi e ricci neri e il naso leggermente adunco: un guerriero aizo ed un giovanissimo azifo, due nomadi d’etnie diverse e solitamente in guerra, fianco a fianco.

«Scommetto che è la prima volta che viaggi per mare, vero piccolo?» chiese d’un tratto Napijiri, guardando alla testa riccioluta che si sporgeva dal parapetto, sull’acqua turchese.

Il bambino non rispose, guardandolo con occhi severi, ma questo non lo sorprese perché aveva capito che non parlava la sua lingua. In ogni caso non aveva bisogno d’una risposta: ripensando ai primi momenti a bordo, non poteva essere diversamente. Era una fortuna che non soffrisse il mal di mare.

Napijiri ed il piccolo azifo erano stati respinti da tutte le tribù aize della pianura intorno alle foci dell’Aizer, che gli avevano rifiutato accoglienza e protezione perché maledetti e braccati da un Demone. Mettersi per mare era l’unico modo che Napijiri aveva trovato per allontanarsi dal loro inseguitore. Almeno per il momento, perché lo spirito demoniaco li avrebbe trovati ovunque.

«Spero tu possa goderti questa ed altre meraviglie, piccolo, e spero tu possa farlo senza fuggire da nulla», disse il guerriero aizo sorridendo.

Tornarono a sedersi su una delle grosse casse di legno ordinatamente disposte sul ponte della nave. Nel vento che scompigliava i capelli d’entrambi, i due fuggitivi avevano lo sguardo perso nel vuoto. Erano stanchi, dopo una settimana di peregrinazioni a cavallo con la paura e la morte alle calcagna. Napijiri aveva perduto validi compagni e amici di lungo corso e indugiava spesso con i suoi pensieri su ognuno di loro, con tristezza, iniziando a chiedersi se gli anni l’avessero reso più molle e sentimentale, perché i combattenti morti vengono ricordati con tristezza solo da madri, mogli e vecchi. Il bambino che sedeva al suo fianco, mesto, era preso anche lui da tristi pensieri, con le gambe penzoloni che battevano ritmicamente coi talloni sulla cassa.

D’un tratto il bambino si voltò e abbracciò il guerriero alla vita, stringendo forte. Gli occhi a mandorla di Napijiri tradirono la sua sorpresa, ma anche calore ed emozione. Lo lasciò fare, poi lo sollevò e se lo pose sulle ginocchia, dove s’addormentò presto, cullato dalle onde.

 

L’aiuto sperato

Basso Berdor del Sud, Città di Iliad, Quartiere del Mercato. 3° giorno di Festa del Raccolto

 

Vuhasa e Asheris si levavano sull’orizzonte, segnando l’inizio della seconda ora del giorno, e andavano ad unire la loro tenue luce a quella del Sole e delle sorelle già sorte. Giungendo da ovest, dalle vicine foci dell’Ambrere, il mercantile filava sul mare calmo, finalmente superando la coppia di giganteschi leoni gemelli di diaspro posti a guardia della bocca del porto di Iliad, la città dai moli di marmo.

La salsedine carezzava il viso piatto e tondo dell’Uomo, con la barba nera incolta e i capelli arruffati. Gli occhi scuri, coperti da un unico spesso sopracciglio, guardavano da prua in direzione della meta, la capitale che rifulgeva candida nella giornata estiva. Il suo fisico, protetto da una corazza di cuoio borchiato, era possente ma sgraziato, con il petto ampio, le spalle larghe e le braccia lunghe: testa a parte, pareva che il torso d’un gorilla fosse stato montato sulle gambe d’uno scaricatore di porto. Portava legato alla schiena uno spadone dalla lama dorata, un’arma figlia del sudore dei più validi maestri artigiani: due serpenti dai corpi di bronzo, con rubini al posto degli occhi, ne componevano l’impugnatura e la guardia, piegando poi i colli per formare un rompilama. Edone era il nome del guerriero del nord e Sethethi quello che aveva scelto per la sua spada.

Iliad s’ avvicinava bianca e luminosa, eppure fiera d’una bellezza guerresca: la proteggevano tre tonde cerchia di mura di travertino, concentriche, ognuna alta il doppio e con raggio dimezzato rispetto alla precedente più esterna; al suo centro, al fianco del Palazzo dei Re, svettava la Torre Bianca, alta centosessanta braccia, così voluta settecento anni prima da Grefijar Loderale, il Re Mago dalla Corona Melograno.

 

La caracca sfilò a fianco di vascelli corazzati e altri bastimenti, infine approdando ai moli della capitale. Edone sbarcò tra i primi, subito accolto dal marasma di genti di ogni razza e colore, mercanti, scaricatori e faccendieri che s’accalcavano e spingevano l’un l’altro curando i loro affari. V’erano pure Nani con le barbe blu dei Tre Picchi, Elfi biondi da Sysua, Gnomi che passavano tra le gambe di chi li intralciava. Merci provenienti da tutto il continente venivano catalogate dai solerti burocrati delle compagnie iliadiane, prima d’essere caricate sul dorso di muli, cammelli o dromedari, e le casse più pesanti erano trainate da buoi o spinte da elefanti. Il porto era il cuore pulsante di Iliad e pompava denaro in ogni sua via, arricchendone, non senza iniquità e ingiustizie, tutti i cittadini.

Edone si fece strada tra folla e animali fino ai gelsi, peschi e mandorli in fiore che abbellivano la porta della città, varcando la volta acuta che s’apriva nelle mura slanciate. Piccioni e colombi volteggiavano in stormi tra i merli aggettanti e gli stendardi che li ornavano. Oltre v’era il quartiere della Città Mercato, popolare e caotico, e con passo sicuro il mercenario s’addentrò nei vicoli chiassosi, tra i palazzi intonacati di bianco dove abitavano i più umili di Iliad.

Presto, superando botteghe di venditori di spezie e crocchi di marmocchi presi dai loro giochi, raggiunse la locanda del Gallo Rosso, che occupava un intero edificio di due piani coperto d’edera, con grandi finestre sulla facciata al piano terra.

Il mercenario entrò diretto al fondo del locale, superando bancone e tavoli occupati da tutte le razze umane, compresi Gnomi e mezzi Orchi. Si fermò infine inarcando l’unico sopracciglio, guardando due figure sedute fianco a fianco ad uno dei tavoli più nascosti: riconobbe il guerriero barbaro nonostante il capo chino e le mani tra i capelli ormai quasi bianchi, raccolti in trecce ornate di gioielli; la seconda figura invece, inattesa, era un bambino dalla pelle scura, riccio, con il naso adunco e gli occhi neri, che non dimostrava più di sei o sette anni. Edone fissò il bambino per qualche istante e questi lo fissò a sua volta, sostenendo il suo sguardo. Infine Edone decise di annunciarsi al barbaro rapito dai suoi pensieri:

«Salute Napijiri, so che speravi di vedermi».

L’aizo sollevò il viso barbuto senza mostrare troppo stupore, con un sorriso stanco:

«Speravo di poter attirare l’attenzione del veggente, e che lui mandasse te e la tua spada da me».

«Ed eccomi, amico mio», rispose Edone, continuando poi con fare giocoso: «Ed anche Emith-Frael ti saluta, da grande eroe quale sei o forse ti ricorda lui».

«Cosa ti ha detto?»

«Mi ha scritto in verità. Ha visto te e i cadaveri scarnificati di quattro Uomini, tuoi compagni suppongo, e scrive che è stato un Demone a farlo», rispose. «Credo pensi che lo abbiate liberato voi dal Tartaro, uccidendo e derubando degli Uomini che avevano fatto un patto di sangue con lui. Dopo di che sei scappato e, respinto dalle tribù, sei giunto fino ad Alaxa, dove ti sei imbarcato per Iliad… E qui dovevamo incontrarci.»

«E non ti ha detto che non ero solo? Non ti ha detto del ragazzo?»

Edone tornò a guardare il bambino, scuotendo il capo, poi chiese:

«Dov’è Hailasif, Napijiri?»

Napijiri non trattenne un sospiro:

«Hailasif non ce l’ha fatta Edone… Neppure questo ti ha detto Emith-Frael?»

Edone scosse di nuovo il capo e Napijiri, capendo che il guerriero bianco era sorpreso e dispiaciuto, raccontò:

«Ha opposto la sua volontà a quella del Demone fin quando ha potuto, tenendolo lontano da noi più notti. La sua aura era potente, ma lo sforzo lo ha infine consumato: si è sacrificato per me e per il ragazzo… Se prima avevo per un istante pensato di abbandonare il ragazzo al suo destino, vedere come Hailasif lo guardava mi ha definitivamente convinto di portarlo per mare con me. Emith-Frael non ha visto molte cose, pare, né credo abbia compreso le intenzioni del Demone: se fosse stato liberato per vendicare gli Azifi, non avrebbe cercato d’uccidere uno dei loro».

Edone si limitò a tacere; del resto non era neppure sicuro di come e quanto un Demone fosse in grado di ragionare.

«Comunque non lo ringrazierò mai abbastanza per avermi fatto dono di Hailasif: è stato un amico fedele. Ho tenuto la sua zampa destra.»

E detto questo il barbaro sfilò dalla casacca di cotone la reliquia che portava al collo, legata ad un laccio di cuoio. Edone fissò il macabro talismano e aggrottò l’unico sopracciglio annuendo, poi spostò lo sguardo sul bambino:

«E tu? Capisci la mia lingua?»

Il bambino si limitò a squadrarlo torvo, senza dire una parola. Il barbaro al suo fianco parlò per lui, guardando al piccolo con pazienza e, Edone non ebbe dubbi, affetto:

«In un mese non gli ho sentito dire molto. Non mi pare capisca la lingua comune dei mercanti, né quella delle mie tribù. Le tribù ci hanno respinto perché vedevano la nostra maledizione e non c’era altra via di fuga se non il mare. Siamo stati insieme per tre settimane nella cabina d’una nave e l’unica cosa che sono riuscito a fargli dire è il suo nome, Vlaed’Hamon, se ho capito bene. Siamo arrivati ieri».

«Non stupisce che non abbia voglia di chiacchierare: tu e i tuoi compari gli avete scannato i parenti davanti, dopo di ché vi siete presi tutto quello che avevano. Sarà quantomeno scosso. Emith mi ha scritto di salutarti da eroe, ma», concluse senza troppo sarcasmo, «non vedo molto di eroico nelle tue ultime settimane: assalto ad una carovana; massacro; razzia; rapimento e fuga.»

«Non sapevamo ci fosse un bambino», si difese Napijiri trattenendo la rabbia a stento. «E comunque non tolleriamo gli Azifi e i loro sordidi traffici coi Demoni nel nostro territorio.»

«Ne sono certo, amico mio», concluse Edone con un sorriso sincero. «Ad ogni modo Emith-Frael vuole che tutto quello che avete preso mi sia consegnato.»

Il barbaro storse la bocca e strinse gli occhi a mandorla, ma cedette subito:

«Certo, amico mio: sono pronto a pagarti».

Il guerriero bianco scosse il capo:

«Va tutto a lui: vuole che gli porti quello che hai preso agli Azifi… Per studio suppongo. Io sono già stato pagato».

Napijiri sfilò un pesante borsello dalla sua cintura e lo poggiò sul tavolo, facendo tintinnare il metallo che conteneva:

«Sei sicuro di poter risolvere il problema?»

«Forse il veggente non ha visto tutto, ma io mi fido del suo istinto. Mi ha pagato bene, e non avrebbe sprecato tanti soldi se l’istinto gli avesse detto che l’impresa era impossibile.»

Dopo di che, incurante della possibilità d’attirare l’attenzione d’eventuali tagliaborse presenti, il mercenario rovesciò il contenuto del borsello sul tavolo. Monete, pezzi d’oro e d’argento, anelli e collane s’ammucchiarono, e sopra a tutto un pendente d’elettro di due pollici di diametro, fuso nella forma d’un Sole con una gemma di quarzo nero incastonata nel centro. Edone stette a guardare il gioiello per qualche istante, poi lo prese e lo indossò bene in vista. Rimise il resto nel borsello e s’alzò.

«Dove vai?» gli chiese Napijiri sconcertato.

«A mostrare in giro il mio ultimo acquisto e vedere che succede.»

«La tua spada è un’arma come un’altra contro gli esseri umani, ricordalo.»

«Sethethi non uccide mortali e Demoni da sola: lo fa perché sono io a impugnarla. Ci vediamo qui non più tardi di stasera. Se non mi vedete tornare, rifugiatevi di corsa nel tempio più vicino.»

Napijiri fece una smorfia. Lui e il bambino lo fissarono mentre s’allontanava, speranzoso il primo, dubbioso e diffidente il secondo.

 

La Città Nera

Basso Berdor del Sud, Città di Iliad, Quartiere del Mercato. 3° giorno di Festa del Raccolto

 

Edone uscì dalla locanda alla luce del giorno tenendo il medaglione ben in mostra. Per le strade la Festa del Raccolto s’avvicinava al clamore del mezzodì, coinvolgendo cittadini e stranieri in spettacoli di giullari e giocolieri, offerte di cibi e spezie da tutte le province del continente, brindisi e bevute.

Mentre si faceva largo nella fiumana di persone che scorreva nelle vie principali della Città Mercato, all’ombra degli incombenti palazzi popolari a più piani, Edone raccapezzava le idee sulle nuove informazioni che aveva raccolto. Cercava d’integrare il quadro che gli aveva velocemente descritto Emith-Frael nel suo strigato messaggio. Il grosso gufo era stanco per il viaggio ed il carico di monete che gli aveva portato, ma il mercenario era certo che non avrebbe accusato il peso di più parole: il veggente doveva essersi limitato all’essenziale. Sfilò il piccolo pezzo di pergamena dalla bisaccia e lo rilesse:

Quattro cadaveri scarnificati di predoni Aizi giacciono a terra sotto le stelle, massacrati da un Demone. Napijiri è sopravvissuto, ma l’orrore liberatosi dal Tartaro dopo la morte degli Azifi che hanno derubato lo insegue.

È respinto dalle tribù e sale su una nave ad Alaxa. Giunge ad Iliad il secondo giorno della Festa del Raccolto.

Tu lo raggiungi al Gallo Rosso. Prestagli soccorso, poi portami quello che ha preso agli Azifi.

Nella tua impresa ricorda che esistono anime dalla coscienza oscura, ma che hanno sogni di luce.

Offri a Napijiri saluti degni dell’eroe che è”.

Molti dei messaggi di Emith erano così: da capirsi al momento giusto. Non una parola su Hailasif.

Edone sapeva che Hailasif non era stato un Gatto comune: sebbene tutti quegli animali avessero un certo potere, e per questo erano temuti e scacciati quasi ovunque, alcuni tra quelli che Emith aveva ospitato in casa sua erano diversi, sicuramente più inquietanti. A guardare loro o Frenia, la Gatta che il veggente aveva con famiglio, Edone aveva iniziato a credere alle antiche leggende che dicevano che, quando il tempo della Guerra più Grande fosse giunto, tutti i Gatti sarebbero scesi in battaglia per affrontare i Demoni al fianco degli Dèi, e che sarebbe stata Frigga, la Gatta del Dio della Magia Aemagar, a guidarli. Hailasif doveva aver usato tutte le sue forze pur di respingere lo spirito demoniaco che li braccava. Ripensare ad Hailasif e alla sua morte lo inquietava: aveva creduto che Napijiri e il suo compagno felino fossero riusciti in una fuga veloce, non aveva immaginato la necessità dell’ultimo sacrificio.

Edone sapeva, come Napijiri, che il viaggio in mare poteva aver solo rallentato il Demone, e non di molto. Rifugiarsi ad Iliad era l’unica mossa sensata: la capitale aveva difese magiche contro i Demoni, scongiuri che i sacerdoti pronunciavano ogni sera percorrendo le mura perimetrali e le strade. Era una pratica che veniva da superstizione e tradizione, perché è raro che i Demoni o i loro spiriti calpestino la vera terra del mondo, e serviva più come rituale per dare serenità al popolo e rinnovare la sua fede. Tali difese, sebbene valide, potevano però essere superate, se chi aveva pronunciato gli incantesimi era un novizio o poco più o se un passaggio era stato dimenticato.

Edone e Napijiri erano consapevoli del rischio, ma rinchiudersi in un tempio era una soluzione estrema, perché domande e indagini dei preti avrebbero potuto rivelarsi molto pericolose per chi non era sempre stato esempio di rettitudine, inoltre il Demone avrebbe comunque potuto sfogare la sua rabbia sulla popolazione una volta superate le difese della capitale.

Mentre questi pensieri si succedevano nella sua mente, gli occhi del mercenario erano vigili ed attenti, nonostante la folla e il chiasso delle vie principali, stipate di banchi di mercanti e saltimbanchi. Non occorse molto prima che notasse qualcosa.

 

Con un turbante azzurro a coprirgli il viso e una veste d’identico colore, l’Uomo cercava di nascondere la pelle scura e il naso adunco: Edone ne seguiva i movimenti con la coda dell’occhio ed era certo d’averlo alla calcagna da almeno mezz’ora. Raggiunse una piccola piazza affollata all’incrocio di due vie, dove una mezza dozzina di venditori esponevano tessuti e artigianato urlando le loro offerte, e approfittò dei carri li parcheggiati per nascondersi alla vista dell’inseguitore.

L’azifo s’avvicinò aprendosi la via tra i passanti, ma aveva perso le tracce del guerriero e prese a guardarsi intorno, realizzando d’essere stato seminato. Edone, seduto a terra tra mucchi di stoffe, lo vide dirigersi verso il vuoto che s’era creato attorno ad un gruppo di questuanti lebbrosi, interamente coperti da bende di lino e con maschere sul volto, che s’esibivano come artisti di strada. Gli appestati si muovevano silenziosamente in una strana danza indolente, accompagnati solamente dal tintinnio dei campanelli che avevano legati a vari punti del corpo. L’azifo superò i danzatori infetti entrando in un vicolo ed Edone s’alzò per andargli dietro, deciso a invertire i ruoli del gioco.

Superati i lebbrosi, che durante il ballo gli tendevano le mani guantate, Edone accelerò il passo per non perdere di vista l’ombra che s’inoltrava nel budello scuro e maleodorante. L’onnipresente pavimentazione in pietra bianca, lurida nonostante canaline di scolo e tombini, aiutava lo sgraziato colosso in caccia a non fare rumore.

Un incrocio dopo l’altro, Edone aveva quasi raggiunto la sua ignara preda, pronto a ghermirla all’ennesima svolta. Superato l’angolo però non la vide più… L’azifo era sparito senza lasciare tracce, neppure sul fango che macchiava il lastricato.

Improvvisamente Edone sentì il collo e il petto bruciargli e si piegò sotto un peso inatteso: era come se lo strano talismano d’elettro degli Azifi fosse divenuto incredibilmente pesante e rovente, ustionandolo dove toccava la sua pelle. Istintivamente lo strinse nel palmo della mano destra, senza però sentire bruciore, e vide l’oscurità crescere intorno a lui.

 

Era in ginocchio quando riprese a guardarsi intorno, capendo di trovarsi in un altro luogo, cupo e incolore. Stupito e intimorito impugnò Sethethi, già preparato a vederne la lunga lama dorata accesa di luce viola, a riprova della presenza di forze demoniache nelle vicinanza. Il chiarore ametista illuminò la sua figura che si sollevava con fatica nel grigiore.

I piedi di Edone non poggiavano più sul solido travertino, ma affondavano in una grigia sabbia fine, che ricordava cenere e polvere d’eoni. Intorno a lui non v’erano più palazzi e mucchi maleodoranti d’immondizie, ma monconi d’alberi anneriti in una pianura sconfinata, sotto un cielo plumbeo senza nuvole, chiazzato da sfumature porpora e dominato da costellazioni aliene. Ad una distanza indefinibile, una colossale macchia nera irta di cuspidi, guglie e minareti si distingueva contro lo sfondo violaceo dell’orizzonte. L’aria era immota, morta, e non si comprendeva da dove venisse la poca luminosità che rendeva possibile la vista in quel luogo alieno, perché né i monconi d’alberi né il corpo del guerriero mostravano un’ombra.

La luce di Sethethi era forte e costante, e fu così che vide le impronte: le piccole e leggere tracce del passaggio di un Gatto, che proseguivano in direzione della città nera. Il peso del talismano ed il bruciore s’erano forse affievoliti, ma Edone resistette alla tentazione di strapparsi il pendente d’elettro dal collo. Con grande sforzo prese a seguire le impronte, trovando forza nella rabbia della nuova sfida. Non aveva idea di dove fosse e se quello che vedeva fosse reale o meno, ma era certo di aver imparato almeno una cosa dal veggente Emith-Frael: ben poco di quanto faceva uno degli animali sacri al Dio della Magia Aemagar era da imputarsi al caso. Così, dopo le prime incerte falcate, fu in marcia.

 

Anche il tempo in quello strano posto non pareva avere le stesse regole: Edone era certo d’aver faticato per ore ed ore, forse l’equivalente di giorni, e le strane titaniche porte della città gli furono subito davanti, aperte sulla desolazione e il silenzio della via maestra. Indugiò scosso dal dubbio. Si rese conto di non poter esser certo d’essere realmente affaticato o meno, né d’essere o meno affamato o assetato. Non si sarebbe preoccupato se avesse avuto certezza d’essere in un sogno, ma si rendeva conto della lucidità dei suoi pensieri, dell’affidabilità dei suoi sensi, e della piena consapevolezza delle sue azioni. Le mura di roccia nera incombevano altissime su di lui e non giungeva segno di vita dai giganteschi edifici, grigi e spogli, che s’affacciavano sulla larga strada più avanti. Vedeva palazzi e costruzioni di pietra e acciaio, cupole e cuspidi di cristallo che s’elevavano a trafiggere le stesse profondità uraniche, dove costellazioni sconosciute tremolavano in colori inattesi. Le impronte del Gatto proseguivano nella polvere e lui entrò nella città aliena seguendole, guardingo e pronto a difendersi.

Si rese presto conto che tutto quello che aveva intorno non poteva semplicemente dirsi abbandonato: dimenticato, questa era la parola giusta. Nonostante la costante luminosità della sua spada, non riusciva ad individuare la minaccia che pure sicuramente l’attendeva in quel luogo. Tutto era immobile, tranne le stelle ammiccanti nel cielo blu e viola, che scorrevano lente lungo la volta celeste.

Seguì le impronte nella polvere della via fino a giungere ad uno slargo con al centro un impressionante obelisco, di cento o più braccia, inciso di simboli e cartigli sconosciuti. Oltre v’era un’ampia scalinata e un palazzo dai contorni netti ed essenziali, uno spoglio cubo con la facciata alta quanto l’obelisco che le stava davanti, liscia, se non per la presenza di continue strette feritoie che dovevano fare da finestre.  Un unico portale con arco a tutto sesto, largo dieci braccia e alto il doppio, s’apriva nel centro della facciata. Non v’erano statue, né tantomeno guardie, a sorvegliarne l’ingresso, ed Edone comprese che quella era la meta dove l’aveva condotto la sua guida invisibile.

Con Sethethi, sempre luminosa, stretta tra le mani, varcò la soglia. Oltre v’era un unico grande ambiente pavimentato da lastroni di basalto, dove le pareti e il soffitto a cupola erano interamente ornati da mosaici con motivi geometrici d’oro e gemme, che s’intrecciavano a comporre complesse decorazioni in cornici e fasce. Al centro dello spazio vasto e regale, v’era un enorme trono d’alabastro, spoglio e dalle forme essenziali, su cui sedeva un essere orribile che Edone non s’era mai augurato di poter vedere con tanta chiarezza. Occorrono magie rare e potenti affinché i Demoni possano mostrarsi in carne ed ossa nel mondo del Creato degli Dèi, per questo non ne aveva mai visto realmente uno, ma solo fantasmi ed ombre.

La figura ingobbita del Demone era massiccia ed imponente, alta quanto due Uomini e altrettanto larga, con la pelle di scaglie iridescenti che andavano dall’azzurro al celeste e al viola. La sua testa da rospo, incassata tra spalle ipertrofiche, era grossa e larga rispetto al resto del corpo, con occhi gialli da rettile grandi come giare e più paia di corna inclinate all’indietro, tozze e curve, color rosso sangue. Tra le labbra dischiuse del mostro senza collo, una fila di denti regolari e bianchissimi andava da un lato all’altro della testa, dando l’idea che potesse facilmente ingoiare un cinghiale. Aveva braccia lunghe e forti, con tre falci ossee che gli spuntavano dal dorso delle mani artigliate, mentre le muscolose zampe caprine prive di pelo, che teneva accavallate stando seduto, mostravano speroni simili appena sopra gli zoccoli. Il Demone fissava in direzione di Edone e l’Uomo sentì una paura incontrollabile stringergli il petto, poi comprese che l’essere non lo vedeva.

La figura, terrificante ed allo stesso tempo gloriosa, era certamente viva e vigile, eppure era immobile, come se la sua mente fosse altrove. La luce di Sethethi, forte e ferma, dava sicurezza a Edone, che per un attimo pensò di attaccare il mostro. Lo avrebbe fatto se una folata di vento, fredda e inattesa, non lo avesse distratto. Non gli occorse l’istinto per dirgli che quello spostamento d’aria aveva avuto una causa, bastò un miagolio: ai suoi piedi v’era un Gatto, semitrasparente e minuto, bianco a macchie nere, che ritto sulle quattro zampe frustava l’aria con la coda.

«Hailasif?» lo riconobbe Edone con stupore.

Era integro, aveva tutte e quattro le zampe, ed era lì senza poter essere lì. Comprese che era in quel luogo alieno per lui, ed era nervoso. Subito nuovi gnaulii acuti e affrettati ne confermarono la paura.

 Finalmente Edone comprese l’avvertimento, perché l’ombra del Gatto non era spaventata per se stessa ma per lui, e notò le pupille del Demone stringersi e vederlo. Lo spettro di Hailasif scattò miagolando in direzione dell’uscita ed il guerriero gli corse appresso. Il mostro non sembrava seguirli, ma lui continuò a correre dietro alla sua strana guida fino a quando non sentì mancargli l’aria.

«Hailasif aspetta!» urlò dietro al fantasma che continuava instancabile.

Stremato, cadde con la faccia a terra. Fu come se in un istante il suo corpo avesse ricordato di non appartenere a quel luogo. Sentì la polvere che gli riempiva i polmoni, ardendoglieli. Nel dolore e nella fatica, perse i sensi.

 

Il Bianco Ordine dei Campanelli

Basso Berdor del Sud, Città di Iliad, Quartiere del Mercato. 3° giorno di Festa del Raccolto

 

«Bentornato nel tuo mondo», sentì una voce posata, bassa e rauca richiamarlo alla veglia. «Hai dimostrato forza e coraggio, per un comune essere umano. O forse confidavi nel tuo futuro ritenendolo già scritto, senza comprendere che in realtà non sai nulla di ciò che ti attende e la tua libera scelta può comunque guidarti verso dolore e sofferenza?»

Edone intese solo in parte quello che gli era appena stato detto. Riaprendo gli occhi mise a fuoco l’inquietante maschera di gesso cerato di uno dei lebbrosi, chino su di lui, circondato dagli altri stretti tutti attorno. Poteva vedere da vicino le macchie gialle e rosse sulle loro bende, intuire la presenza di ferite aperte e purulente tra le deformità che cercavano di nascondere. L’odore acido di quella sofferenza infetta era insopportabile. Sethethi, il cui peso era appena sostenuto da uno degli appestati, riluceva ancora tenuemente di viola, mentre il pendente d’elettro con la gemma di quarzo nero era nella mano guantata del lebbroso che gli aveva parlato. Il mercenario si rese conto d’essere a terra nel vicolo dove aveva inseguito l’azifo.

  «L’Oblio…» riprese il lebbroso sempre pacato, con la voce serena del buon maestro. «Non è un posto per un Uomo quell’agglomerato di ricordi perduti.»

Edone aveva bisogno di informazioni e di temporeggiare, per comprendere meglio la situazione in cui s’era cacciato e decidere il da farsi:

«Chi siete?»

«Il mio nome è Emeris Kaelegon, e chiamiamo noi stessi “Il Bianco Ordine dei Campanelli”… Per il resto, cosa ti suggeriscono la tua spada e il tuo intelletto?» fu la risposta dell’unico che continuava a parlargli.

Edone lo vide quindi alzarsi appoggiandosi ad un lungo bastone con dei campanelli legati in cima, rivelando una statura notevole per qualsiasi razza umana conosciuta.

«Se foste Demoni, o comuni umani da loro corrotti, non saremmo stati tanto a parlarne…»

«La nostra natura è a metà tra questo mondo e il Tartaro. Non ti verrà fatto alcun male, perché non è nostro interesse ledere agli esseri umani o al Creato dei loro Dèi, come non lo è ledere ai Demoni: noi vogliamo l’Armonia. Noi siamo emissari dell’Armonia.»

Edone aveva una mentalità tutto sommato aperta, aveva imparato a superare preconcetti e superstizioni con l’esperienza, come con stregoni e Gatti, ma accettare che potessero esservi Demoni o mezzi tali e che non volessero il male del Creato era per lui difficile. Se sugli stregoni e sui Gatti si sentivano, a ragione, cose strane, i Demoni erano stati combattuti e condannati dagli stessi Dèi. Comprese in quel momento la penultima frase scrittagli da Emith-Frael:

Nella tua impresa ricorda che esistono anime dalla coscienza oscura, ma che hanno sogni di luce”.

Edone non metteva in dubbio la morale, i propositi o la fedeltà agli Dèi di Emith-Frael, questo sebbene qualsiasi inquisitore fosse venuto a conoscenza della sua collezione di oggetti incantati avrebbe certamente arso il veggente, ammesso che fosse possibile incastrarlo. Era inoltre possibile che il mago vedesse oltre la bontà o la malvagità di quegli esseri, avendone compreso il ruolo e l’utilità in un disegno più ampio. Per la prima volta Edone si chiese quanto Emith-Frael sarebbe stato disposto a sacrificare per un evento futuro da lui sperato…

«E da me che volete?»

«Che tu difenda il bambino.»

Edone scosse il capo:

«Non è la mia missione».

«Gli Azifi massacrati dai predoni guidati dal tuo vecchio amico volevano portare il bambino da noi, entro le mura di Iliad, perché lo proteggessimo. Ma il sangue di Uomo versato da Uomini ha attirato, come sempre accade, l’attenzione d’uno dei Demoni che più vi odiano. Ora il bambino è in pericolo.»

Edone rifletté un istante:

«Se bastasse che un Uomo versi il sangue d’un suo simile per attirare un Demone in questo mondo, saremmo già stati distrutti da tempo…»

«Il Demone ha visto il bambino e ne ha compresa la natura, per questo ha officiato i riti e trovato la forza di manifestarsi. Il giovane azifo è il primo di noi concepito su Barda. Il Demone vuole ucciderlo, o forse rapirlo e portarlo con sé nell’Oblio.»

Edone metabolizzò con qualche difficoltà la notizia che anche il piccolo Vlaed’Hamon era in parte un Demone, sebbene non lo sembrasse. Sarebbe stato certamente più semplice poter considerare lui e quei falsi lebbrosi tutti abomini e farne strage di conseguenza, ma la penultima frase profetica e sibillina di Emith-Frael lo dissuadeva dal mettere l’idea in atto.

«È una minaccia per i Demoni?»

«No», rispose secca la maschera senza espressione di Emeris Kaelegon. «Solo un abominio che nessuno vuole e di cui tutti hanno in realtà bisogno.»

Edone si prese un momento per raccapezzare le idee. Salvare il bambino non era tra le indicazioni esplicite dategli da Emith-Frael, ma il farlo non avrebbe impedito o reso più difficile il lavoro. Inoltre Napijiri sembrava essersi affezionato a lui. Tornò con la mente alla sua breve visita al Tartaro: 

«Lo spirito di un Gatto morto mi ha fatto da guida e ho visto una città abbandonata, con mura e palazzi altissimi. Lì un Demone sedeva su un trono d’alabastro in una sala dorata, in un palazzo nero e spoglio. Sono fuggito seguendo il Gatto fantasma quando il Demone si è accorto di me».

Il lebbroso con il bastone dei campanelli rimase in silenzio per un istante, poi disse:

«È una fortuna per te essere un amico dei cuccioli prediletti del Dio della Magia. La tua anima è salva grazie a quella di uno di loro, coraggioso da morto come doveva esserlo in vita: se ha interrotto il suo viaggio verso il riposo, doveva conoscere il pericolo cui andavi incontro. Tu hai visto il Principe Demone Taod-Quorraon, che i vostri demonologi dicono Re di Quaerisma, la Città Nera, che un tempo era una città come tante altre del mondo che chiamaste Tartaro, poi sprofondato dagli Dèi nell’Oblio. Per quanto tu sia forte e la tua spada sia potente, non avresti potuto sconfiggerlo, neppure con metà della sua mente e del suo spirito qui nel mondo degli esseri umani.»

«Dovrò allora distruggere il suo spirito qui», rispose il guerriero risoluto.

Il lebbroso scosse la testa:

«Lo allontaneresti per una notte o due… No: dovrà essere combattuto e ucciso in entrambi i mondi, allo stesso tempo».

Edone si zittì aggrottando l’unico sopracciglio, interdetto.

«Ora alzati, guerriero. Raggiungi quelli che vogliono difendere Vlaed’Hamon. Non allontanarti mai da loro ed attendi, perché Taod-Quorraon già preme alle porte della città, e i riti che la difendono sono affidati a umani semplici, inconsapevoli della minaccia.»

 

***

 

Edone aveva avuto indietro il suo spadone incantato e anche il pendente d’elettro: il portavoce, o forse capo, del Bianco Ordine dei Campanelli l’aveva congedato restituendogli tutto e invitandolo a recarsi alla locanda del Gallo Rosso al più presto. Aveva dato risposta a molti interrogativi del mercenario, ma l’aveva infine lasciato con i due più gravi e urgenti: il primo, non sapere nulla del funzionamento del pendente che s’era rimesso al collo e che, intuiva, lo aveva trascinato nel Tartaro; il secondo, come reperire un’altra arma sventra-Demoni, ammesso ne esistessero altre come Sethethi. Ad Edone non pareva infatti possibile essere in due posti allo stesso tempo, nonostante forse qualche stregone potesse provare qualche magia, per cui aveva concluso che qualcun altro, nel mondo del Creato o nell’altro, avrebbe dovuto utilizzare un’arma diversa da Sethethi per uccidere il Principe Taod-Quorraon. Al momento non riusciva ad immaginare una soluzione diversa dal coinvolgimento del clero e di maghi della città, con la certa confusione che ne sarebbe derivata e senza avere comunque alcuna certezza di riuscita, ma l’istinto lo sconsigliava. Rimuginando su questi problemi insolubili, Edone raggiunse la locanda che era già sera, rendendosi conto in quel momento, oltre che del tempo passato, d’avere fame e sete per un reggimento intero.

 

La bestia

Basso Berdor del Sud, Città di Iliad, Quartiere del Mercato. Sera del 3° e 4° giorno di Festa del Raccolto

 

I due giovani chierici, ragazzi sui sedici anni con indosso le vesti bianche del Culto Indiviso dei Sette, avanzavano per i vicoli presso le mura perimetrali orientali. Uno impugnava un aspersorio d’olio benedetto ed una lanterna già accesa; l’altro teneva un incensiere fumante e una grossa candela rosso mattone, con una fiamma alta e vivace, che lasciava una scia di gocce di cera al suo passaggio. Camminavano parlottando tra loro, fermandosi di quando in quando per tracciare in aria simboli arcani e pronunciare scongiuri, contro i Demoni e le minacce sentite come più attuali dalla cittadinanza. Il rituale interrompeva la loro svogliata passeggiata e le chiacchiere ogni pochi passi.

«Credo che abbiamo dimenticato uno degli incroci chiave, Jathfrael», realizzò d’un tratto quello dei due con l’aspersorio.

L’amico trattenne un’imprecazione a stento:

«Questa camminata inutile pare non voler finire stasera. Faremo il rito per sicurezza: se lo abbiamo già fatto o no, poi non ci saranno problemi».

I due si voltarono per tornare indietro, entrambi con l’espressione scocciata ed indolente. Fu in quel momento che il pesante tombino all’ingresso della viuzza cui miravano esplose, venendo sollevato in aria d’un paio di braccia. Davanti allo sguardo attonito degli indegni chierici, una fiumana squittente d’un migliaio di ratti con gli occhi rossi, bavosi e luridi, si riversò sul lastricato di travertino. Le bestie li videro subito e, mentre i due inetti ancora non capivano cosa stesse accadendo, corsero nella loro direzione. Un tentativo di fuga disperato non servì a nulla: sommersi dall’onda di denti e artigli lerci, che già scavavano a fondo nelle loro carni, i giovani dai volti terrorizzati ebbero una morte abbastanza lenta da attirare, con le loro grida strazianti, l’attenzione del vicinato. L’orrore si diffuse di casa in casa e di via in via, mentre altri passanti scorsero i ratti scomparire in un vicolo buio. Alcuni ebbero l’impressione che lo strano branco si muovesse compatto, come se rispondesse ad un’unica intelligenza e volesse darle corpo con la somma delle sue parti.

 

***

 

Torvo, con l’unico sopracciglio abbassato e gli occhi stretti, Edone squadrava gli Uomini dalla pelle scura vestiti di cotone azzurro che, in cinque, lo fissavano a loro volta freddamente nell’aria fumosa della locanda. S’erano riuniti in fondo alla sala, e il locandiere gli aveva assicurato una certa riservatezza, lasciando liberi vari tavoli vicini. Aveva trovato gli Azifi ad attenderlo insieme a Napijiri e al bambino, e tra loro aveva riconosciuto il suo inseguitore del primo pomeriggio. Napijiri, che aveva indossato il suo usbergo, doveva essere ancora in vita solo perché gli altri nomadi non potevano permettersi di scannarlo in mezzo a tanta gente. Tra Azifi ed Aizi non v’erano buoni rapporti, inoltre il sangue versato dall’aizo era ancora caldo per loro. Anche per questo Edone si sarebbe aspettato che Vlaed’Hamon si fosse consegnato, per riavere la compagnia della sua gente, invece era rimasto attaccato a Napijiri.

All’inizio l’arrivo di Edone non aveva contribuito a stemperare la tensione. Senza troppi convenevoli, costretto ad accettare la presenza degli Azifi, aveva scambiato alcune battute con tutti i presenti, per illustrare i fatti a lui noti.

Solo Napijiri era stato sorpreso dall’apprendere la reale natura del suo protetto: già stupito dall’aver saputo che Hailasif era giunto in aiuto di Edone durante la sua breve permanenza nel Tartaro, sembrava avesse perso la parola e guardava il piccolo Vlaed come fosse un fenomeno da baraccone. Era una fortuna per il bambino non capire la lingua e quello che tutti intorno a lui si stavano dicendo.

Gli Azifi invece, che da sempre avevano a che fare con gli obliati del Tartaro, s’erano mostrati impreparati alla notizia che il Bianco Ordine dei Campanelli non avrebbe potuto aiutarli. Il Principe Demone Taod-Quorraon, a detta di Emeris Kaelegon, non si sarebbe fermato dinanzi all’Ordine, che non aveva la forza di ledergli: sarebbero stati travolti e distrutti, e delle loro due anime quella umana sarebbe andata persa, nei luoghi misteriosi che a nessuno era dato conoscere, mentre quella demoniaca sarebbe tornata nell’Oblio del Tartaro, dove il sommo Dio degli Uomini l’aveva imprigionata millenni prima, e li avrebbe atteso che altri ospiti umani la chiamassero alla Realtà. Nessuno poteva invece sapere a quale destino sarebbe andata l’anima di Vlaed’Hamon, priva della colpa che gli Dèi attribuivano ai Demoni, eppure, forse, non semplicemente umana. Taod-Quorraon voleva distruggerla? Neppure questo era dato sapere.

Dopo aver spiegato tutto questo, felice del fatto che, come s’intuiva dallo sguardo, Vlaed’Hamon avesse capito solo che il suo nome tornava più volte nel discorso, lo sgraziato mercenario s’era seduto comodamente ad un tavolo, ordinando arrosto per due persone con birra in proporzione, e aveva sguainato Sethethi, poggiandosela sulle ginocchia. La lama dello spadone emanava un lucore debolissimo e quasi invisibile, difficile da notare, che doveva essere causato dall’aura del piccolo Vlaed.

Finalmente giunse l’arrosto, un intero stinco di bue, accompagnato da bieta rossa e un tegame di sapa acidula. Edone l’addentò famelico, sotto gli occhi degli altri che dovevano aver già mangiato o forse non avevano appetito, lui non si pose il problema. Non appena iniziò a sentirsi sazio e soddisfatto, riprese il discorso dove l’aveva lasciato alcuni istanti prima:

«Quindi, dicevamo: il vostro amico Emeris Kaelegon ha lasciato a me l’incomodo di proteggere il fanciullo da Taod-Quorraon», disse incrociando lo sguardo interrogativo e imbronciato di Vlaed’Hamon. «I miei servigi hanno però costi e condizioni», e iniziò ad elencarli contandoli sulle dita tozze della mano destra: «Per prima cosa, un rimborso di un pezzo d’argento a testa per l’incomodo di dover pensare anche alle vostre vite, comunque senza garanzia di successo; seconda cosa, all’Aizo non va torto un capello, anche se so che l’uccisione dei vostri chiede vendetta; terzo ed ultimo, io do gli ordini e voi fate quello che vi dico».

I nomadi lo guardavano in silenzio, con le braccia conserte, e lui risolse:

«Quindi ora ci organizziamo in turni di guardia. Ce ne staremo qui, dove possiamo sedere e abbiamo spazio per muoverci. Mentre uno di voi dovrà tener d’occhio le finestre, ce ne dovrà essere almeno un altro a fissare la lama della mia spada, in caso io dovessi assopirmi: all’arrivo del Demone sembrerà una spada incandescente di luce viola. In quel caso, fate tutti gli scongiuri che vi fanno sentire sicuri e preparatevi a combattere».

L’azifo che l’aveva inseguito e poi seminato per i vicoli del quartiere, con un ghigno sarcastico, volle comunque dire la sua:

«Efficienti voi pellebianca: non comprendete la minaccia, eppure pensate d’avere un piano per affrontarla…»

Al che riacquistò la parola pure Napijiri, costretto a concordare con l’azifo:

«Edone hai detto che il Demone va ucciso sia qui che nel Tartaro… Come faremo?»

«Ci sto ancora pensando», ammise Edone. «Se distruggo la sua manifestazione qui, avremo tempo per organizzarci meglio. Emeris Kaelegon ha detto che è vicino e non riesco ora a pensare ad altro che al suo arrivo.»

«E vuoi scontrarti con il mostro qui dentro?» domando il guerriero aizo dubbioso.

«Se uscissimo sarebbe più facile per lui sorprenderci», concluse Edone annuendo. «Se è vero che è vicino, non tarderà.»

 

***

 

Una lauta mancia, pagata con i pezzi d’argento degli Azifi, tenne lo smunto e fiacco locandiere sveglio ed allegro tutta la notte. Quando giunse l’alba, Edone imprecò, pensando che avrebbero potuto spendere meglio il tempo perso raggiungendo un tempio o l’Accademia di Magia: sia lui che Napijiri avrebbero certamente dovuto render conto d’aver attirato un Demone in città, ma il bambino sarebbe stato al sicuro. Inoltre all’Accademia il nome di Emith-Frael forse valeva ancora qualcosa, magari abbastanza da salvarli dalle conseguenze d’un assalto alla popolazione da parte d’un Principe Demone frustrato, tenuto a pochi passi dalla sua preda.

Vlaed’Hamon dormiva sereno con la testa sulle gambe di Napijiri, addormentatosi a sua volta, con la zampa di Hailasif stretta nel pugno. I due Azifi svegli salutarono il Sole segnandosi con un veloce tocco della mano sinistra su spalla destra, sinistra e fronte, velandosi poi con i turbanti.

Non passò molto che il locandiere servì a tutti un’abbondante colazione di latte, miele e pane caldo, accompagnati da un decotto di radici amare che liberò tutti subito dal sonno. Accomiatandosi per coricarsi, lasciò il posto alla moglie appena giunta dal piano superiore, una bella donna giovane, procace, fresca e sorridente.

Tutta la città si metteva di nuovo in moto insieme a Edone e gli altri nel locale: fuori, la Festa del Raccolto riprendeva ogni istante più vigore, e le vie si riempivano di persone d’ogni razza, età e colore della pelle.

 

Passarono un paio d’ore e, mentre Edone continuava a tener d’occhio la lama di Sethethi e le finestre, sempre più scuro in volto, la locandiera aveva il suo bel da fare con la clientela che iniziava ad affollare il locale, cercando riparo dalla crescente calura portata dal Sole e dalle sue sorelle. Allo stesso tempo gli Azifi erano calmi e pronti, e s’aggiravano tra i tavoli con le braccia conserte e le scimitarre in vista, dando probabilmente l’impressione d’essere le guardie del corpo d’un qualche ricco mercante dell’est.

«Edone, così non va», sentì dirgli Napijiri. «C’è troppa gente qui: non andrà bene né per noi né per loro.»

«È quello che preoccupa anche me: rischiamo un massacro», concordò non staccando gli occhi dalle vetrate. «Credevo che sarebbe giunto durante la notte.»

«Muoviamoci insieme, compatti, e raggiungiamo un tempio passando per qualche vicolo: avremmo dovuto farlo già all’alba.»

Edone comprese che il vecchio amico era esausto, così come il bambino, di nuovo addormentato sulle sue ginocchia. L’aizo gli accarezzava i capelli con amore.

«Napijiri né io né te conosciamo il labirinto di vicoli di Iliad, e figurarsi gli Azifi che parlano la lingua a stento. Seguendo la via principale saremmo lenti e metteremmo chi ci sta intorno ancora più in pericolo.»

«È un rischio, ma sempre meglio che stare qui dentro in un’attesa senza fine.»

«E sia: ma preferisco cercare aiuto all’Accademia», disse il guerriero alzandosi in piedi. «Vediamo meglio che succede in strada.»

E si diresse alla porta spalancata della locanda. Fu quando la sua massiccia mole fu sull’uscio, eretta nella corazza di cuoio borchiato e pronta all’azione, che Sethethi finalmente s’illuminò con un lampo, come una torcia di luce viola che avvampa appena accesa. Edone la sollevò subito, urlando:

«È QUI!»

In quell’istante il verso stridente di numerosi uccelli risuonò in alto sulla via, ed Edone alzò lo sguardo attonito. Li vide calare compatti come un solo corpo.

 

Nella locanda, dove tutti gli avventori s’erano zittiti e immobilizzati, una delle grandi finestre che davano sulla strada esplose in un turbine di schegge di vetro e piume bianche e grigie, mentre un fitto stormo di colombi irrompeva sciamandoi all’interno. Gli uccelli attaccarono subito quelli che si trovarono davanti.

Napijiri impugnò la scimitarra con rabbia, con la zampa di Hailasif che, uscita dalla casacca, gli batteva sul petto, e Vlaed’Hamon gli stava attaccato. Gli Azifi anche s’armarono, vibrando i primi colpi agli uccelli che gli arrivavano a portata.

 

Edone, nonostante non fosse impreparato ad un simile attacco, dapprima tentennò, indeciso sul da farsi. Vide i normalmente pacifici colombi cittadini usare becchi e artigli per sfregiare i visi di diversi clienti sgomenti, mirando agli occhi e strappandogli le guance. Vide una donna terrorizzata urlare, con un occhio che le pendeva fuori dall’orbita e le labbra ridotte a lacerti penzolanti. Se prima v’era chi aveva cercato rifugio sotto i tavoli, poi fu il panico, e una cinquantina di persone corsero verso la porta del locale, unica via di fuga. Il guerriero aveva sempre potuto contare sulla sua mole, ma, incapace di levare la spada contro persone inermi in fuga, fu travolto e trascinato in strada.

 

Napijiri non aveva intenzione di farsi chiudere in un angolo: sentiva il peso degli anni, ma il suo istinto era quello d’una pantera. Mulinando la scimitarra con la destra, agguantò il bambino sotto il braccio sinistro e scattò dietro alla calca impazzita, mirando ad una delle finestre ancora integre e sfondandola con un balzo. Lui e Vlaed’Hamon si ritrovarono in strada, con gente urlante tutto intorno. Gli uccelli sciamavano ovunque ed echeggiarono nuove grida, cui presto s’aggiunsero i corni della guardia cittadina in allarme. Tenendosi basso per difendere il bambino, l’aizo cercò rifugio sotto il carro abbandonato da un mercante, in mezzo alle merci cadute alla rinfusa.

 

Edone era a terra, schiacciato dai fuggitivi caduti a loro volta, spinti e calpestati da quelli che li seguivano. Quando riuscì a sollevarsi, pesto ma non realmente ferito, si trovò a osservare un angolo della strada dove figure vestite di bianco stavano immobili in mezzo al marasma. Riconobbe l’alta figura di Emeris Kaelegon, poggiato al bastone ornato da campanelli, che guardava nella sua direzione. Fu certo che, dietro l’inespressiva maschera di gesso cerato, gli occhi dell’abominio cercassero i suoi.

Edone si guardò intorno alla ricerca di Napijiri e del bambino, senza poter scorgere i due. Pensò che si fossero dati alla fuga, dopo aver assistito allo scempio che i colombi posseduti avevano fatto dei corpi degli Azifi. Comprese che il Demone aveva approfittato della prima occasione per allontanarli da lui e dalla sua spada.

Tornò a voltarsi verso Emeris Kaelegon e lo vide alzare il palmo destro guantato. Subito il talismano d’elettro che aveva al collo acquistò peso e prese a bruciare. A quel punto capì cosa era accaduto il pomeriggio precedente e, senza paura, fissando in cagnesco i mostri coperti da bende, strinse di nuovo il pendente nel palmo della mano destra.

 

Napijiri e Vlaed, nascosti sotto il carro, avevano appena scorto Edone in piedi in mezzo ai fuggitivi della locanda. L’aizo stava per lanciare un fischio all’amico, quando lo aveva visto stringere con rabbia il ciondolo azifo che aveva al collo: era sparito davanti ai suoi occhi, risucchiato in un punto d’oscurità che subito s’era richiuso. Napijiri trattenne un’imprecazione solo perché, nella situazione in cui si trovava, sapeva di non aver bisogno di attirare lo sfavore divino. Pregò invece i Giusti Dèi per un aiuto o un segno, preoccupato più per il bambino che per sé. Prese a guardarsi intorno alla ricerca di una via di fuga. Gli uccelli si stavano disperdendo, ma l’istinto gli diceva che l’attacco di Taod-Quorraon non era finito.

Dopo pochi angosciosi istanti, oltre le gambe in corsa dei cittadini iliadiani spaventati, Napijiri individuò con sorpresa le sue guide. Pensò che le sue preghiere dovevano essere state esaudite: tre Gatti, un grigio, un rosso e un pezzato tanto simile a Hailasif, immobili come statue, lo guardavano in attesa all’imbocco d’un vicolo.

 

Sangue

Berdor dell’Est, Terre dei nomadi Aizi, foci dell’Aizer. 4° giorno di Caldosole

 

Di nuovo gli stivali di Edone affondavano nella polvere grigia, tra i monconi d’alberi bruciati. Di nuovo Sethethi brillava, sfidando l’animo oscuro che governava su quelle terre da incubo. Le porte della titanica Quaerisma erano aperte e i palazzi scuri s’ergevano opprimenti, ornati di cupole, torri e minareti, artigliando la volta del cielo alieno che ruotava lentamente. Hailasif era lì sulla soglia che attendeva il guerriero, pronto a scortarlo. Quando questi varcò le porte, lanciandosi nella corsa, lo spettro del Gatto corse al suo fianco per la larga via che portava alla piazza dell’obelisco e al palazzo di Taod-Quorraon.

 

Napijiri correva trascinando Vlaed’Hamon per i vicoli scuri e deserti della città, seguendo i tre Gatti. Il bambino aveva gli occhi sgranati ed umidi per la paura. Svolta dopo svolta, l’aizo vide che altri piccoli felini li seguivano, uscendo da vie e nascondigli o saltando di tetto in tetto. Pareva che i Gatti della città non avessero in quel frangente alcun timore di mostrarsi: nonostante avessero imparato a temere per le loro vite per colpa degli esseri umani e della loro superstizione, non tradivano la missione di proteggerli dai Demoni.

Giunsero ad un piccolo slargo, creato dall’ennesimo incrocio nel budello labirintico, una piazzetta circolare d’una dozzina di braccia di diametro. Lì si fermarono, perché le altre vie erano bloccate da schieramenti di decine di Gatti: stavano seduti compostamente con le code rilassate, e altri li guardavano dall’alto, da terrazzi e tetti dei palazzi tutto intorno.

 

Con lo spettro del gatto al fianco, Edone superò l’obelisco sotto il cielo stellato che si venava di porpora, salendo la scalinata che portava all’ingresso del monolitico palazzo nero. Impugnava Sethethi con entrambe le mani e la sua luce viola era abbagliante mentre entrava nella sala d’oro, illuminando il viso piatto e butterato del guerriero, fermo nel suo proposito assassino. Taod-Quorraon era lì, seduto sul suo trono d’alabastro, e l’attendeva. Hailasif si tenne in disparte, osservando ora il mostro ora l’umano, e la sua coda sferzava l’aria immota.

 

Napijiri sentì il forte ronzio che veniva rimbombando dalla stretta stradina da cui erano appena arrivati, capendo subito quale nuova forma vivente Taod-Quorraon aveva scelto d’irretire con la sua magia. Non aveva mai provato disperazione per sé, la provava in quel momento per Vlaed’Hamon, che s’era di nuovo aggrappato alle sue gambe. Strinse la zampa di Hailasif e la baciò, accettando la sfida che i simili del suo compagno perduto gli proponevano. Sollevò velocemente il bambino, baciandolo sulla fronte, e lo depose oltre lo sbarramento di Gatti che chiudevano la piazzetta. Poi si voltò, pronto a fronteggiare il mostro.

Quando la nube di mosche, falene e altri insetti giunse precipitandosi nello slargo, subito i Gatti completarono il cerchio. Davanti al vecchio guerriero, il vortice ronzante si raccolse nella gigantesca forma d’un essere antropomorfo, nero e iridescente per i gusci chitinosi che lo formavano. Napijiri fece scorrere il palmo della mano sinistra lungo il filo della scimitarra, con un gesto lento e deciso. Con da una smorfia d’odio, mentre il suo sangue bagnava la sua stessa arma, disse al Demone senza volto:

«Verso il mio sangue e su questo giuro: tu non farai mai cadere una goccia di quello del bambino che difendo».

 

Il Principe Taod-Quorraon s’alzò dal trono per affrontare chi osava sfidarlo nel suo regno. La sua pelle iridescente era scossa dai muscoli guizzanti con ondate colorate. Gli occhi dalla pupilla fessa, grandi come giare, fissavano il mortale dall’alto in basso, senza che fosse possibile comprenderne le emozioni aliene. Ma Edone non aveva dubbi sulle intenzioni del Demone, che non mostrava timore di fronte alla luce viola di Sethethi. Vide la bocca mostruosa aprirsi in una sorta di ghigno, che tagliava da un lato all’altro il disgustoso muso da rospo, poi la creatura inspirò.

Edone, che aveva memoria del mito della creazione dei Draghi, scartò di lato ruzzolando giusto in tempo per evitare l’eruzione di fiamme soffiatagli contro. Sentì il calore intollerabile che lo sfiorava e l’odore di zolfo del fiato del mostro. Rialzandosi con uno scatto, con i capelli dritti per l’adrenalina che gli scuoteva i nervi, sollevò Sethethi pronto alla carica. Il Demone si preparò a sua volta, tenendo alte le falci ossee che aveva sul dorso delle mani artigliate.

 

Napijiri si rialzò dopo il ruzzolone con cui aveva schivato il disgustoso fiotto d’insetti ronzanti che l’abominio gli aveva sputato addosso. I Gatti tutto intorno assistevano composti allo scontro tra i due combattenti, che tenevano confinati in quella sorta di arena. Dandosi slancio con il peso della sua arma, l’Uomo avanzò piroettando e colpì. Il mostro parò, ma la lama gli troncò di netto il conglomerato di gusci chitinosi che era stato il suo braccio destro. Taod-Quorraon sollevò il moncone di fronte al punto dove avrebbe dovuto essere il suo muso. Il guerriero intuì che s’aspettava il ritorno degli insetti da lui irretiti, ma solo poche mosche ricomparvero a ronzare sul moncone. Una volta liberati dal legame con il corpo che li aveva posseduti, i più dei minuscoli animali s’erano dati alla fuga.

 

Il braccio destro del Demone, colpito poco sotto il gomito, era a terra scosso da tremiti. Si sentì puzzo di bruciato e un icore bluastro schizzò dalla ferita semi cauterizzata, bagnando il pavimento nero della sala del trono. Taod-Quorraon barrì di dolore e rabbia, poi ruotò sugli zoccoli con velocità ed agilità inattese per la sua stazza e le forme tozze, raggiungendo Edone con un formidabile colpo del dorso della mano sinistra e le sue falci. Edone fu scagliato in aria, mentre sulla sua armatura di cuoio s’aprivano tre squarci. Ricadde scompostamente a terra, con una smorfia di dolore, e vide il mostro spingersi con le gambe muscolose in un balzo incredibile, che lo costrinse a ruzzolare ancora per evitare d’essere schiacciato dai suoi zoccoli. Un’esplosione di schegge di basalto testimoniò la forza dell’impatto, poi un calcio lo sollevò di nuovo scagliandolo contro la parete dorata della sala. Sethethi, che ancora stringeva in pugno, gli scivolò dalle mani mentre ricadeva stordito sul pavimento.

 

Napijiri aveva terminato il suo volo contro il muro di travertino d’uno dei palazzi e piombò a terra spuntando sangue. Gli ultimi due colpi del mostro lo avevano fatto sentire poco più che una bambola di pezza. La sua scimitarra era a portata e riuscì ad impugnarla e sollevarla in parata poco prima che un nuovo calcio lo colpisse in pieno petto. La parata, troppo debole, fu rotta e lui lanciato un’altra volta contro il travertino, ma anche la zampa del mostro fu ferita. Col fiato rotto da una o più costole in frantumi, il guerriero aizo si rialzò puntando la lama, guardando colmo d’odio l’incombente figura che zoppicava senza equilibrio.

 

Edone alzò la lama lucente di Sethethi digrignando i denti e la tenne dritta come una lancia, poi caricò senza grazia e colpì in affondo la zampa ancora sana di Taod-Quorraon. Il Demone già sbilanciato cadde a terra e l’Uomo gli si buttò sul petto, colpendo come un disperato con la lama e l’elsa dello spadone. Squarci s’aprirono nella pelle blu iridescente ed altro icore azzurro schizzò a macchiare l’arma luminosa, sfrigolando come su una piastra rovente.

 

Napijiri stava con tutto il corpo sopra la massa chitinosa e brulicante che pareva volerlo avvolgere. Continuava a colpire con la scimitarra, paonazzo in volto, senza riuscire a respirare, e il suo sangue colava dalle ferite al volto e dalla bocca, perdendosi nella congerie d’insetti che lo sostenevano. Con un ultimo profondo affondo, la scimitarra trapassò il mostro toccando il lastricato, e Napijiri la tenne ferma con entrambe le mani mentre vomitava un nuovo fiotto di sangue. E il mostro parve dissolversi, accompagnando a terra il corpo del guerriero che perdeva i sensi. Gli insetti si dispersero e tutto fu silenzio.

 

Taod-Quorraon era morto, con la lama di Sethethi che gli trapassava il petto appena sotto il muso da rospo e che già perdeva luminosità. Edone, affannato e ferito, si sentiva come un sacco di stracci tenuto assieme dall’armatura. Aveva almeno una costola incrinata. Estrasse la lama ormai spenta, ma vibrò un nuovo colpo sul cranio cornuto, spaccandolo. Voltandosi vide Hailasif che lo osservava: lo spettro stette qualche istante immobile, poi si mosse verso di lui con un miagolio grato, strusciando il corpo inconsistente contro la sua gamba in un trionfo di fusa. Pian piano il Gatto divenne ancor più trasparente, fino a sparire del tutto, ed Edone comprese con commozione che quello era un addio.

Il guerriero umano barcollò verso l’uscita del nero palazzo demoniaco, con la testa che gli girava. Prima di cadere tra la polvere del Tartaro, strinse nel palmo della mano destra il medaglione d’elettro che era tornato a bruciare.

 

Il bambino

Basso Berdor del Sud, Città di Iliad, Quartiere del Mercato. 4° giorno di Festa del Raccolto

 

Edone crollò sul lastricato di travertino coperto d’insetti morti e sangue. Con la testa che smetteva lentamente di girargli, mise a fuoco il corpo esanime di Napijiri, i Gatti tutto intorno a loro, i palazzi. La scimitarra del colosso aizo, abbandonata ad un passo da lui, era macchiata di rosso, oltre che dai resti melmosi degli insetti. Si trascinò fino all’amico, vedendo i suoi occhi a mandorla senza vita socchiusi e il volto sereno. Mentre cercava di ricostruire l’accaduto, sentì una voce bassa e rauca che riconobbe subito.

«Il predone aizo ha restituito il sangue», disse Emeris Kaelegon, mentre il cerchio dei Gatti s’apriva ordinatamente per lasciargli il passo.

Edone tacque, trattenendo dolore e rabbia.

«Un sacrificio estremo il suo, per l’amore che provava per l’unico bambino cui aveva concesso di sedere sulle sue ginocchia», sentì dire la maschera senza emozioni. «Ora tu Edone, anche per rispetto a lui, puoi completare la tua missione: portare il bambino ed il suo amuleto al veggente che ti ha mandato qui.»

Edone vide Vlaed’Hamon superare i felini al limitare della piazza e avvicinarsi, con un’espressione smarrita e disperata e le guance rigate di lacrime. Il bambino si chinò sul cadavere del suo protettore e l’abbracciò singhiozzando.

«Come puoi esser certo che Emith-Frael voglia il ragazzo?» chiese Edone, sinceramente toccato dalla scena ma comunque in dubbio sul da farsi. «Lui non ne ha neppure scritto.»

«Devi portargli tutto quello che Napijiri ha preso agli Azifi», rispose Emeris Kaelegon indicando Vlaed’Hamon. «Così ti ha scritto.»

Edone annuì. Mentre i Gatti riprendevano le loro strade, nascondendosi agli occhi degli esseri umani, inconsapevoli e ingrati, il mercenario prese ad accarezzare con pena e affetto il capo riccioluto del ragazzino. Guardava il volto in pace del barbaro morto e, con un sorriso infelice, lo salutò:

«Riconosco in te un eroe, Napijiri: l’onore e l’orgoglio d’averti combattuto a fianco sarà sempre nel mio animo. Farò in modo che le tribù sappiano e tramandino quello che hai fatto e chi eri».

 

 

 

Che il sangue abbia valore è indubbio: esso è simbolo, veleno e balsamo, minaccia e speranza. Poche gocce che ne scorrano possono portare morte ad intere nazioni, e a volte mescolandosi garantisce pace per secoli.”

 

Da “Preludio alla Guerra Più Grande”,

appunti del Maestro di Studi Emith-Frael dell’anno 770.

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