
Presentazione
Edizione straordinaria de “I racconti di Satampra Zeiros”.
Alessandro Forlani, uno dei migliori scrittori italiani di narrativa dell’immaginario, oggi decide di farci un meraviglioso regalo donando gratuitamente a tutti gli appassionati di sword and sorcery “Uno Studente di Târgoviste”, racconto di fantasia eroica tratto dall’antologia di Vlad Tepes, pubblicata due anni or sono da Ailus edizioni e curata da Alessandro Iascy di Heroic Fantasy Italia.
Vi consiglio di non perdere l’occasione di leggere questa fantastica storia.
In ogni modo, su Hyperborea potete leggere gratuitamente anche altri racconti di Alessandro Forlani, che trovate di seguito:
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Forlani, Alessandro – Chi di spada ferisce
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Forlani, Alessandro – Dodici padroni
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Forlani, Alessandro – La Lezione delle Tenebre
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Forlani, Alessandro – Non tutte le avventure
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Forlani, Alessandro – Un messaggio a una ragazza
Autore
Alessandro Forlani insegna sceneggiatura all’Accademia di Belle Arti di Macerata e Scuola Comics Pescara. Premio Urania 2011 con il romanzo “I senza tempo”, vincitore e finalista di altri premi di narrativa di genere (Circo Massimo 2011, Kipple 2012, Robot e Stella Doppia 2013) pubblica racconti e romanzi fantasy, dell’orrore e di fantascienza (“Tristano”; “Qui si va a vapore o si muore”; “All’Inferno, Savoia!”) e partecipa a diverse antologie (“Orco Nero”; “Cerchio Capovolto”; “Ucronie Impure”; “Deinos”; “Kataris”; “Idropunk”; “L’Ennesimo Libro di Fantascienza”; “50 Sfumature di Sci-fi”). Vincitore del Premio Stella Doppia Urania/Fantascienza.com 2013.
Uno Studente di Târgoviste
di Alessandro Forlani
Le campane di Curtea Domnească rintoccarono l’orthros, l’alba livida di ottobre si insinuò dalle finestre, si insanguinò degli smalti rossi delle vetriate della biserica e splendette sui candelabri, le patene e i crocefissi e la seta dei veli candidi sugli altari di granito.
Un knyaz e i cavalieri sgomberarono i mendicanti, i pellegrini, i vagabondi e le prostitute rifugiati sotto il portico a sopravvivere alla notte ingrata:
«Fate largo ai principi!», batterono sugli scudi.
Figli alteri dei voivodi di Transilvania si inchinarono rispettosi nella casa del Signore.
Vlad trascinò per mano Radu recalcitrante: il Metropolita li attendeva sotto lo sguardo del pantocrator nell’immenso mosaico che indorava la volta. I sacerdoti accigliati e neri li accolsero con un inchino, accennarono a che sedessero sulle panche in prima fila: si voltarono all’altare e inginocchiarono alla mensa. Lui e suo fratello, sprofondati nei seggi d’ebano, si assopirono all’odore intenso di sudore e incenso e pece: il prete anziano li rimbrottò, intonarono l’introitus, e cantarono il kyrie eleison e ricevettero l’eucarestia.
Il freddo mordeva loro le carni pallide e delicate, la messa era un supplizio dello spirito e del corpo: lui guardava torvo, rancoroso e però colpevole Nostro Signore torturato e nudo nella vergogna di quei tristi ceppi; e un sacrilego perché gli pungeva la coscienza. Dalle trifore romaniche che ferivano le pareti li investì una luce gelida, spietata, polverosa: i grani sacri ed i ceri d’api lo soffocavano, lo nauseavano. Radu, intirizzito, sporcò il sedile di calda orina.
Sopportarono il gelo e i brividi, si congedarono nella pace. I sacerdoti li accompagnarono fin la soglia della chiesa, li riaffidarono alla druzhina con l’araldica del drago:
«Il principe Radu può tornarsene a dormire: guardatelo, come trema! Non vorremmo che si ammalasse. Quanto a voi, principe Vlad, devo condurvi dal precettore.»
«Andrò da solo: sono un bambino, ma non temo un erudito.»
I cavalieri di suo padre voivoda risero forte e lo lasciarono. Lui imboccò le scale che da un ampio peristilio si arrampicavano alle terrazze di una vasta cittadella; il giorno nuovo brillò stregato sui vetri strani e l’ottone e il bronzo di strumenti incomprensibili e gli affusti dei cannoni. Passò attraverso l’ampio scriptorium che tossiva di amanuensi e che friniva di penne d’oca che grattavano sui codici; vide un novizio che si affannava ad una Chronica Slavii Reges a miniare le quattro cifre 1 4 4 3.
Erotocrito non si accorse, non si curò della sua presenza: il suo didascalos era intristito dalla fatica, la pena, un’amarezza di età canuta, a un balcone appartato che si affacciava a sud-est. Il suo sguardo sorvolava l’arsa steppa e la Muntenia, le guglie, le croci e i bastioni di Budapest; scavalcava i monti Rodopi, i Balcani taglienti e bruni e scendeva fino in Tracia a illuminarsi nel mar di Marmara: una visione di seicento veste fino alla splendida Costantinopoli.
«… forse che in Egitto non c’erano sepolcri, che ci hai portati fin qui, lontano, a morire nel deserto?…»
«… e perché è meglio per noi servire qui in Egitto?», il vecchio greco gli fece eco.
«Me la immagino meravigliosa.»
«Sei un cucciolo transilvano: che vuoi saperne di civiltà?»; Erotocrito guardò la miserabile Târgoviste, e i Carpazi crudeli e neri che laceravano l’orizzonte, con una smorfia di dolorosa, schifata, quasi aborrita costernazione; «ma la vita mi ha spiaggiato in questa tetra solitudine: così ha voluto dio.»
E gli sorrise, gli arruffò i capelli e si avvolse nel mantello: il blu e la porpora dell’Oriente scoloriti di tristezza. Attraversarono le gallerie che si affacciavano ai cupi boschi: il didascalos, con il bordone, batteva trochili ed architravi; gli indicava una macchia d’alberi, il bestiame che pascolava e i mercanti, gli artigiani, gli zingari e i contadini che affollavano un mondo esterno di strepiti e di eccessi:
«Quercus, columni, bovis et pastoribus.»
«Boves, columnae: sbagli sempre con i plurali. E confondi i nominativi coi genitivi e con gli ablativi.»
«A cosa serve che io conosca il greco ed il latino?»
«Il latino è per regnare quale principe di Valacchia, e il greco è necessario per apprendere l’ebraico.»
«Perché dovrei parlare la lingua dei giudei?»
«Le cose del creato obbediscono ai loro nomi: quali Adamo assegnò loro e quali Cristo li pronunciò.»
«Ma il Vangelo è tradotto.»
«Lo sono anche le oscenità di Plauto e di Aristofane.»
«… è un segreto che devi apprendere, se vuoi essere il padrone…»
Madalin, l’astrologo, si inchinò al loro passaggio. Vlad volle fermarsi a ricambiare quell’omaggio, ma il vecchio greco lo tenne stretto alle spalle lo costrinse a tirare avanti e ad ignorare quel laido mago. Lui non resistette a sbirciare dall’uscio aperto sul segreto vaporoso del gabinetto di scienze occulte.
«Se devo apprendere le matematiche, le lettere, la religione e la guerra dovrei anche approfondire le arti nere e la magia.»
«Fingerò di non aver udito, Principe», Erotocrito si irrigidì.
«Homo sum, humani nihil a me alienum sputo.»
«Puto, casomai: e Terenzio non è un alibi, fu un autore pagano. Se un uomo si rivolge ai negromanti e gli indovini, il Levitico ci insegna, dovrà essere messo a morte.»
«È una legge degli ebrei. Mastro Madalin è un uomo colto: quando anch’io sarò voivoda…»
«Devi ancora diventarlo, hai due fratelli maggiori»: si fermarono a un arazzo con la mappa di Valacchia, troppo gremita di stemmi e insegne che riducevano la sua patria a una coltre di coriandoli ghermita dagli ambiziosi. Vlad II era solo un’aquila che si azzuffava con bestie araldiche di granduchi e di vassalli che affollavano la carta, dalla dubbia fedeltà alla Santa Chiesa e la Mezzaluna: al confine meridionale, un uniforme tappeto verde, si estendeva la maestà di Murad degli Ottomani; «Il cristianissimo Giovanni Hunyadi, il designato dall’imperatore, ha usurpato alla tua stirpe terre e titoli che le spettavano; il sultano degli infedeli le garantisce di prosperare. Tuo padre va ad Adrianopoli in prigionia dei maomettani o alla testa dei loro eserciti… resta cristiano, combatte Cristo. La sua anima è macchiata dalla vergogna e dal compromesso; il suo palazzo, a Timişoara, è una cattedra di doppiezze. Le arti occulte che ti serviranno sono forse il tradimento, la menzogna, l’adulazione e l’intrigo a corte: a cosa serve la negromanzia?»
Vlad avvampò umiliato:
«E suppongo che tali infamie le apprenderò dagli autori antichi.»
Restarono lunghi istanti in un astioso silenzio. Uno strepito di armati li stornò da quella lite.
«Principe!», chiamò Michail, «dovete scendere ad addestrarvi!»
Si affacciarono sulla piazza d’armi fra le mura della rocca, Vlad salutò un omone intabarrato di ferro e cuoio che malmenava e insultava reclute che si alternavano agli esercizi. Un bastone gli bastava a disarmare e buttare a terra quei ragazzoni con alabarde, sciabole e mostruose grandi scuri; bestemmiava ai balestrieri che mancavano i bersagli.
«Dovrai usare l’intelligenza, la spada, l’onore e avere fede», Erotoclito lo congedò, «non percorrere vie tenebrose.»
Lui corse in cortile già smanioso di combattere, speranzoso che fosse il giorno – l’istruttore rinviava sempre – che invece d’armi di legno e canapa gli consegnassero una spada vera. Ma Michail gli mise in mano quel suo manico di scopa, lo invitò dentro un quadrato e ordinò che stesse in guardia.
Il knyaz e i cavalieri, stravaccati a fumare e bere su selle sciolte, sacchi, barili, giare ed otri, ammiccarono all’omone con crudele impertinenza:
«… non fargli troppo male…»
Vlad buttò il bastone, incrociò le braccia, si immusonì.
«Raccogli subito. Sta al tuo posto.»
Ma lui non obbedì. Michail, irritato, prese l’attrezzo e tornò ad imporglielo; Vlad lo sbatté distante, l’altro avvampò di rabbia: levò il pugno per colpirlo trattenuto dalla druzhina, lo placcarono tre uomini; lo costrinsero in un angolo con le sciabole alla gola.
«Non vorrai fare sul serio?! È l’erede del signore!»
«Gli sarei grato se lo facesse!», Vlad li apostrofò, «Lui e voi, al contrario, mi spernacchiate ogni giorno! Quale volete che guerra impari da un avversario per finta che si impegna e si preoccupa di non torcermi un capello?! Riservate tali cure al nostro piccolo fratello! Siete come il vecchio greco: tutte chiacchiere, solo chiacchiere!»
Erotocrito, al balcone, gli scoccò trasecolato. Lui lo ricambiò con una smorfia di insofferenza, tornò a accusare rabbioso e livido i soldati attorno a sé.
«… è un moccioso viziato», continuarono a schernirlo.
«Il ragazzo ha ragione», Michail li azzittì. Puntò a caso il suo bastone sulle teste dei cavalieri, il sergente e le reclute che assistevano sbigottite all’improvviso inaudito alterco. Sembrò scegliere le parole con sincera difficoltà:
«Non è più tempo di scherzare. Vedo i giovani partire con appena una spada in mano: siamo costretti a imparare presto; tuo figlio Ciprian è nell’esercito che non aveva diciassette anni; Lazar conobbe i turchi che ne aveva poco meno. Sono giorni disgraziati. E nella notte, da qualche tempo, si combattono strane guerre… Questo principe è abbastanza grande», lo guardò fisso negli occhi, «può conoscere la morte.»
Fece un cenno a un servitore con una chiave alla cintola: l’uomo impallidì. Esitò, inebetito, a obbedire ad un comando: Michail lo spintonò – e lo prese a calci in culo – fino a una ripida ed angusta scala che sprofondava in un sotterraneo.
Da una grata, nel cortile, echeggiarono lamenti; trascinare di catene e il cigolio di lucchetti.
Il carceriere trascinò all’aperto un prigioniero smagrito e sudicio, nero, crespo di capelli ma pallido e affilato. Era vestito dei cenci sporchi, tuttavia variopinti, di quella che sembrava una giubba degli spahi.
Vlad si sentì bruciare di un atroce presentimento, la paura gli sbiancò i labbri.
«È il battesimo del sangue», l’istruttore sfoderò: gli strinse in pugno una lama vera; «diventa un assassino, principe; commetti un omicidio.»
Tolse la sciabola dal fodero di un cavaliere e lo stese con un cazzotto ché non potesse reagire; porse l’arma al prigioniero:
«Sarai libero, se ti difendi.»
«Tu sei impazzito!», ruggì il knyaz: la druzhina snudò le sciabole in un coro di acciaio ed odio.
«… per il mio nome, per il mio rango», Vlad inghiottì il terrore, «lasciateci combattere.»
L’albanese strinse l’elsa con le mani che tremavano, con le dita ischeletrite dalla fame e le privazioni. Gli diede addosso con il vigore e la ferocia del disperato. Lui parò un calante, schivò un fendente, scartò di lato, gli girò attorno, colpì alle reni: lo spahi barcollò ferito. Levò la spada ed espose il ventre. Vlad spinse la sciabola nelle viscere del nemico, e crollò all’orrido peso del cadavere sventrato.
Gli umori. Le convulsioni. Il respiro interrotto. Il sangue nero e schiumoso e caldo: gli sembrò che lo annegasse.
Udì le grida di Erotocrito disperato e una corsa di babbucce sui gradini di pietra scura. Lo assordarono gli «urrah!» e i latrati dei soldati. Lo sbarazzarono del corpo caldo e eviscerato e gli sfregarono la faccia con qualcosa di rozzo e ruvido: sentì l’olezzo di vino e cibo e il calore di una femmina.
Ma le chiamano puttane, quelle che stanno nei reggimenti.
Un cavaliere lo ripulì. Il knyaz e l’istruttore lo portarono in trionfo, lo rapirono alle attenzioni e le premure del didascalos.
«Hai ucciso, principe: hai commesso peccato!», Michail lo abbracciò.
Vlad si sentì svuotato:
«… e allora perché», guardò a Erotocrito, «non provo niente?…»
Le finestre scricchiolarono sotto il tocco della notte, e la luna proiettava sull’intonaco annerito l’ombre storpiate dei folti pini e dei larici gelati. Dalla brace addormentata dentro il ventre del camino esalava un fumo pigro, denso ed odoroso che irritava la gola e gli occhi e pizzicava le narici. Radu russava forte sotto le coltri di pelliccia e lana: i bacili d’acqua bollente con le misture di ortica e menta gli fumavano tutt’attorno nell’azzurra oscurità.
Il campanile batté tetro il mesoniktikon, Vlad, troppo irrequieto, non riusciva a prender sonno. Lo stomaco gli ribolliva dell’ira sorda, l’affronto e la vergogna del bisticcio con il maestro sulla morale del suo casato; gli tremavano le ginocchia – e tuttavia gli bruciava il sangue – dei truci istanti di combattimento e della morte dell’albanese, gli dolevano ancora i muscoli per lo sforzo con la spada. Lo tormentava l’ebbro anatema dei soldati e Michail: hai ucciso, hai peccato; ma lo avevano salutato ed accolto come un uomo. Quelle emozioni si stemperarono in una pace tenebrosa: l’oscurità gli schiarì la mente, gli placò il respiro e il cuore. Il plenilunio stornò maligno dalla icona di San Nicola che vegliava da una parete sul suo riposo e di suo fratello.
Tacque il vento freddo, le travi si assestarono: lui, però, non riusciva ad addormentarsi.
Echi remoti dalle altre stanze si ingigantirono nella notte: passi di ronda di sentinelle, lo sferragliare di cotte d’armi, i crepitii di bracieri e fiaccole e il borbottare dei samovar.
Un raspare, un ululato e un salmodiare da una ridotta; il tinnio di un tamburello.
Rabbrividì, si rannicchiò, sperò le coltri lo nascondessero: il tam tam e la cantilena gli dolerono alle tempie, i guaiti di un animale lo trafissero di pena.
«… ma che cos’è che mi fa paura?…»
Inghiottì, saltò dal letto e cercò a tentoni la scimitarra. I raggi azzurri scintillarono sull’elsa tortile e la lama cruda: forse da voivoda ne avrebbe avute di più ricche e splendide, ma quel ferro ancora bruno degli umori dello spahi rappresentava la reliquia della propria iniziazione.
Uscì in punta di piedi per non svegliare e turbare Radu; per non averlo fra le scatole: gli si sarebbe aggrappato subito… sopportò la puntura ruvida del pavimento di quercia e pino, e la chiocciola di granito che saliva a quel torricino: una guardiola appartata e buia nel labirinto della Curtea.
No: non era buia. Una luce fioca, tremula, riverberava da una finestra; i lamenti e il tambureggiare, un canto nero ed incomprensibile, crebbero di intensità e si insinuarono nei corridoi, rimbalzarono nei chiostri. Vlad ascoltò tre guardie parlottare su un camminamento mentre guardavano timorose a quel remoto torricino:
«… e qualunque cosa accada, vi sembrerà di vedere e udire, Mastro Madalin ha ordinato che nessuno si avvicini…», un sergente raccomandò.
«L’astrologo. Magia nera!», lui tremò: «devo sapere!»
Si appartò che non lo vedessero, corse in fretta le scale. Sulla soglia della guardiola si impietrì terrorizzato.
Era un lupo, una civetta, una donna, un caprone pallido ma… nessuna di queste cose, cambiava forma: un’orrenda creatura ibrida che si torceva sul pavimento. Gli sembrò fosse costretta in un triangolo di sale, e sferzata dagli incantesimi e intossicata dal santo incenso. Mastro Madalin, in un cerchio di protezione di ceri neri e di gesso, percuoteva un tamburello dai ricami primitivi: certi glifi dei selvaggi della Taiga e la Siberia. Il tinnio dei campanelli era uno schiocco di cartilagini, la membrana dello strumento era una faccia scuoiata e tesa.
«… tu non lo priverai della luce di Gesù Cristo!»
«Sarà il signore della notte e il giorno! Sarà il giudice di entrambi!», soffriva la creatura: la voce morbida di una madre e l’osceno grufolo di una scrofa; «non negargli il suo destino!»
«Torna alle tue tenebre! Torna alla tua tomba!»
Vlad strillò, crollò in ginocchio, lasciò cadere la scimitarra: Mastro Madalin, sorpreso, mancò il ritmo con il tamburo; spezzò i versi dell’esorcismo che torturavano quell’abominio. La cosa scavalcò fulminea la sua prigione triangolare, spazzò i ceri, il cerchio ed i turiboli con la coda di serpente e il pungiglione di scolopendra; volò addosso all’inerme astrologo e lo morse e affondò gli unghioni. Vlad cadde accecato da uno scroscio di sangue nero, faccia in giù nei grani e il sale che cospargevano il pavimento. Si trascinò, si rannicchiò in un angolo, si sfregò gli occhi e vacillò impazzito. La creatura gettò il cadavere di Mastro Madalin, sbranato, nel vuoto della notte che mugghiava alla finestra. Gli trottò contro sulle otto zampe e le braccia affusolate, si fermò viso a viso.
Quel bellissimo femmineo viso di Madonna e prostituta.
A Vlad mancò il respiro. Svenne. Sprofondò nell’oscurità.
Si svegliò con un urlo, madido, scamiciato, steso nel proprio letto e circondato dal Metropolita, Erotocrito, Radu, Michail, il knyaz e le domestiche del castello. Il mattino scintillava alle vetriate multicolori, le cornacchie ciacolavano fra le fronde degli abeti.
«… il demone! Era un demone!…»
«È il delirio di un incubo, hai la febbre: sta buono», il didascalos lo calmò.
«Sei posseduto», s’accigliò il prete.
«Il vino forte e la carne cruda gli gioverebbero, sicuramente», convennero i soldati. E palparono le donne ché corressero in cucina.
«Ha bisogno di riposo.»
«Lo dobbiamo esorcizzare.»
«Voi eccitate troppo la fantasia del ragazzo.»
«Ieri, bestie!, gli avete fatto ammazzare un uomo! Ha solo dodici anni!»
«Sempre meglio delle fanfaluche e il latinorum e le novene.»
«Ora hai visto», rise Radu, «non mi ammalo solo io.»
Il Metropolita gli segnò la fronte, gli offrì ai labbri il crocefisso d’oro e gli tenne le mani fiacche, fredde e bianche fra le proprie sudate e ruvide.
Lui non gradì affatto quelle cure appiccicose.
«Mastro Madalin si è sfracellato nel fossato del castello. Ti hanno trovato svenuto e lordo sulle scalette per la guardiola: devastata da un uragano, si direbbe… Confessati, figliolo: è stato Satana a spingerti al delitto.»
Raccontò della creatura e della lotta con l’astrologo; quello scambio sibillino sul destino di un’anima.
«Le scempiaggini di un bambino!», Erotocrito avvampò: aprì un’imposta a dare aria alla stanza e alzò il mento con disappunto al selvatico panorama; «che vi aspettate se cresce qui, in questa forra di lupi ed ombre, impressionato dalle vostre storie di licantropi e fantasmi? Il vostro stesso idioma è una lugubre cantilena!»
«Târgoviste è una luminosa città accademica, signore: tutti i figli dei nostri voivodi studiano in Curtea. Il ragazzo ha in cuore il diavolo.»
Michail e lo knyaz si intromisero nella disputa:
«Metropolita, didascalos: non state esagerando? Mastro Madalin praticava le arti illecite, sacrileghe: ne dovrà rendere conto al cospetto di Gesù Cristo. Ma che qualcosa con ali e zoccoli si manifesti su questa terra… beh…»
Una voce stentorea, roca, azzittì i loro sghignazzi:
«Io credo al ragazzo. Parola per parola.»
Un monaco tarchiato, con il viso deturpato da antiche fiamme, si fece largo con modi bruschi fra eruditi e cavalieri. Sopra la tonaca di lana nera rappezzata indossava un pettorale e due pistole infoderate, una mostruosa mazza ferrata gli pendeva alla cintura. Una rozza cervelliera gli irrobustiva il cappello frusto.
«Ecco!», Erotocrito lo affrontò, «un altro ottuso superstizioso!»
Il knyaz lo agguantò feroce alla collottola del mantello:
«Porta rispetto ad un vecchio drug!»
«Uscite.»
Il didascalos, Radu e il Metropolita furono trascinati da Michail e il cavaliere: salutarono, canaglieschi epperò ossequiosi, e serrarono la porta e lo lasciarono con il frate. Vlad fu alla mercé di quell’uomo spaventoso, atterrito dai suoi occhi, il suo fervore e la voce quanto dalle armi che lo vestivano di ferro e morte.
«… come osate?!…»
«Sono Grigore da Bacău, sono un milite di Cristo. Confidati, principino: cosa credi che sia accaduto?»
Non riuscì a disobbedirgli. Quell’uomo lo atterrì – e tuttavia lo persuase – con la ferrea autorità e con ardente e sincera fede. Aveva forza: non era patetico e sottomesso come i pope; e invece che essere mite, buono e bendisposto gli sembrò che fosse giusto: fosse pure una spietata e terribile giustizia.
«… forse Mastro Madalin ha evocato quella creatura per trascinarmi negli inferi: Erotocrito mi avvertì…»
Padre Grigore scosse il capo in un amaro diniego:
«Alzati, principino: ho qualcosa da mostrarti»
Il cadavere di Madalin era steso nelle stalle, ricoperto da una iuta su una tavola da bucato. Una nuvola di mosche si accaniva sul fagotto, maiali e cani – fuori la porta, nei loro trogoli e nel cortile – grufolavano, guaivano e abbaiavano d’appetito. Vlad inghiottì la nausea, il monaco scoprì il corpo: lacerò il caftano rosso, sbrindellato dell’astrologo, all’altezza della spalla destra e sul bicipite e i pettorali. Nonostante le ferite, le fratture e le ecchimosi, lui restò stupito fosse tanto vigoroso; riconobbe quei tatuaggi del Dragone e della Croce.
«Madalin», Grigore gli confermò, «come me e la tua druzhina fu un cavaliere del drago: lo stesso ordine di tuo padre. Intraprendemmo diverse strade: io mi votai a Cristo, il Drăculeşti perseguì il potere; lui era convinto che il demonio e l’eresia si potessero combattere coi loro stessi strumenti, ma non era un apostata dell’Inferno: ci legava fratellanza d’armi, e avrebbe offerto la sua stessa vita per proteggerti, principino… credo proprio che l’abbia fatto.»
Vlad ripose il telo sul cadavere straziato:
«Da che cosa mi ha salvato?»
«Il tuo racconto mi fa pensare a un’Empusa: sono araldi delle tenebre già temute dagli antichi. Quando Cristo venne fra gli uomini, resuscitò, e sceso agli inferi spartì i redenti dai maledetti, quelle creature non esitarono a schierarsi con Lucifero.»
«Vuole uccidermi? Tornerà?»
Dovette ammettere che quel volto lo aveva… innamorato; sperò che il monaco non lo intuisse.
Grigore fissò assente la nube sudicia degli insetti, tese l’orecchio ai latrati e i grufoli, e lo sbattere del vento, come assistesse ad immense schiere che cozzassero in battaglia.
«… lo sanno gli animali, i boschi, i corsi d’acqua, lo sussurrano i contadini nelle tenebre delle veglie: la Valacchia non è in pace, né di giorno né di notte. Sotto il sole si affrontano gli infedeli e i cristiani, voivodi e pascià: potentati più sinistri si combattono nel buio. Sei l’erede di in un potente principe, quell’Empusa non vuole ucciderti, sono demoni seduttrici: vuole trarti dalla sua parte per ridurti a una pedina…»
«È oltraggioso!»
«Noi non tollereremo che una strega viva. Vuole te, principe, e dovremo stanarla insieme. Sai usare una spada?»
Michail, il knyaz e i cavalieri della druzhina irruppero nella stalla con gli scudi sulle spalle, le pistole nei cinturoni e le sciabole alla cintola. Ognuno aveva in braccio la propria sella tirata a lucido, odoravano di grasso, olio e zolfo e di polvere da sparo: quell’olezzo di efficienza e di impazienza a menar le mani. L’istruttore lo abbracciò orgoglioso:
«Ha già tolto la vita a un uomo, siamo i servi di suo padre. Se vuoi metterlo nei guai… non sperare di tenerci fuori!»
Il knyaz fece girare una zucca di liquore: Vlad mandò giù un sorso, gli bruciarono le budella, lo offuscarono le vertigini e avvampò accalorato. I soldati lo festeggiarono con gran pacche sulle spalle, crollò supino sulla paglia e l’assito, i segugi scodinzolarono, gli leccarono sulla faccia e uggiolarono infoiati.
Rise idiota né riusciva a smettere!
Le campane delle chiese rintoccarono lontane, l’ombra e il soffio freddo di un improvvido imbrunire li inseguirono per i sentieri che si insinuavano fra le pietraie. Guadarono i torrenti, penetrarono nei boschi, arrampicarono le pendici degli ostili Frăgăraşului. Il tinnio delle armature, il calpestio degli zoccoli, le battute da sbruffoni e i nitriti dei destrieri si spezzarono fra le gole che echeggiavano di cateratte.
«Mastro Madalin scacciava il demone riferendosi a una tomba: se nei pressi di Târgoviste c’è una tana di nosferati… dev’essere lassù.»
Il monaco gli indicò una collina nel folto nero: quell’altura di roccia e pini, abitata dai caprimulghi, grattava il cielo con i ruderi di una torre spezzata dalle folgori ed erosa dalle intemperie. Vlad riuscì a distinguere forme antiche e raffinate che Erotocrito gli insegnò a conoscere: i capitelli corinzi; le cariatidi e i telamoni che reggevano una cupola.
«Non ha più neppure un nome», si segnarono i cavalieri.
Spronarono su un sentiero che saliva alle rovine; i cavalli – quando furono più vicini – sbuffarono recalcitranti e nitrirono imbizzarriti.
«Andremo a piedi», ordinò il knyaz, «legateli a quegli alberi. Eugen e Ionel resteranno di sentinella.»
«Ci sono i lupi, verranno gli orsi», si lamentarono i due soldati.
«Gli animali non vi toccheranno.»
Lo guardarono sbigottiti. Vlad stesso era stupito della calma, la certezza e autorità che espressero le sue parole: sembrò a tutti che le fronde gli stormissero sottomesse; e credettero di udire i gemiti, i lamenti delle belve, che si accucciassero e piagnucolassero asservite a un capobranco. Lui si sentì eccitato di selvatica onnipotenza:
… che cosa mi è successo?…
Gli stornarono gli sguardi, li sferzò una brezza fredda, l’orizzonte si scurì: scarpinarono veloci.
«Dobbiamo agire ch’è ancora giorno», Grigore raccomandò, «o saremmo vulnerabili.»
Le rovine, da vicino, gli apparirono inquietanti. Le sculture e i florilegi più delicati, squisiti ed eleganti erano stati – nel corso dei millenni – deturpati in grottesche maschere e avviluppi di dolori, spine, rettili e schifosi parassiti. Quale scultore degenerato volle ornare le cornici con i topi che rodevano e grovigli di lombrichi?
Il knyaz lasciò Kostantin e Oliviu a sorvegliare lo stretto protiro crepato, Vlad entrò protetto dagli scudi di Octav e Relu, la sciabola del sergente e la bardica di Michail.
Un sepolcro scoperchiato dominava la grande sala. Lo stanco, freddo sole dell’imbrunire insanguinava gli altorilievi di quella tomba di pietra bianca. Figure piccole, coronate e dai tratti esotici convergevano da quattro lati in un omaggio a quella donna: gli attributi dello scettro, la bilancia e della spada.
Lui sussultò che no: non poteva assomigliarle…
«La Valacchia non è mai stata governata da una regina», Michail si incuriosì.
Vlad osservò meglio le sculture più minute: disgustato che i dignitari, i sovrani, i sacerdoti raffigurati avessero tutti tratti ferini sotto le tiare e le ricche vesti.
«Guarda, principe: che cosa ti avevo detto?»
Padre Grigore mostrò la cupola: i mosaici sopravvissuti a un abbandono millenario raffiguravano orrende schiere con empie sindoni per stendardi. Quei ranghi erano fitti di fantaccini inumani con i grugni di cani e verri e le orecchie dei pipistrelli; i loro comandanti erano pallidi, regali, brindavano da calici di un sinistro vino nero. Si schieravano all’orizzonte di un immenso camposanto. La Regina del sarcofago, con le ali spalancate, sembrava imporre un’eterna tregua a quegli eserciti dell’incubo; sulla sua spada la scritta greca Η ΑΠΟΣΤΟΛΗ ΤΩΝ ΝΥΚΤΑΡΧΟΝΤΩΝ: ecco l’ambasciatrice dei signori della notte…
Lui maledì Erotocrito per avergli insegnato a leggerla.
«La tomba è aperta, vuota», lo knyaz si incupì.
La creatura calò in picchiata dalla penombra di un cornicione, sbatté a terra Michail e il monaco, sferzò il sergente, sgozzò i soldati, prese Vlad fra le braccia nivee e lo strinse al seno candido. Il knyaz e l’istruttore si impietrirono atterriti. L’abominio lo portò in volo fino ai ruderi di lanterna:
«… il loro voivoda, il nostro sire…», gli pispigliò: lui restò ammaliato.
«... se anche camminassi nella valle della morte… io ti farò male!», Grigore sfoderò: «sono pallottole benedette, puttana di Babilonia!»
Scaricò le due pistole contro un’ala dell’Empusa: precipitarono, abbracciati, nel sepolcro spalancato. Lei si ingrossò e mutò del dorso ossuto di una testuggine a proteggerlo dai colpi e attutirgli la caduta, lo depose nella tomba, lo baciò, lo accarezzò: s’erse in piedi su lunghe zampe da cavalletta, graffiò la pietra e sbuffò alla carica con i corni di montone.
Le ferite consacrate le bruciavano la schiena.
«È vulnerabile!», ruggì Michail: levò la scure e si buttò all’assalto, il vecchio frate brandì la mazza, il knyaz e i suoi uomini la impalarono alle lance. La creatura sputò icore dalle fauci di serpente: stese a terra Oliviu e Kostantin a corrodere e morire. Sventrò il sergente, sollevò il cadavere, lo scagliò contro Grigore: l’istruttore la colpì ad un fianco, levò la bardica, rise istupidito... inerme e affatturato da quel volto di bambina.
Vlad osò affacciarsi dalla tomba scoperchiata, lei si sollevò sulle schifose appendici aracnidi e si volse ad implorarlo già sconfitta e disperata:
«… io ti supplico: è il tuo retaggio…»
Padre Grigore scostò Michail, le inflisse i nomi sacri, le spaccò il cranio e la incenerì: un vento fetido involò le polveri.
«Cristo, è finita!»; l’istruttore si risvegliò.
La torre, la cupola, la tomba e le sculture si immiserirono dello squallore dei vecchi cumuli di mattoni, puzzarono di cimice e annerirono di guano. L’innaturale non guastava più quel sordo scorrere di cose, la rovina si azzittì dei secoli e l’abbandono che la affliggevano.
Ma lui non si sentì di confessare al severo monaco che si sentiva ghermito dentro dall’unghie e gli occhi di quel demonio.
«… non è una bella cosa veder tornare voi soli…», si incupirono le sentinelle.
«Presto, a Târgoviste: quel demonio non vive più.»
Michail accarezzò i cavalli, sciolse le briglie legate ai tronchi, come ansioso di tangibile, comprensibile e reale; tornò in arcione e affondò gli sproni: quell’inquietudine lo indispettì. Vlad sopportò il terrore, l’ansia, la piccolezza di quegli uomini peggio del loro olezzo di stallatico e sudore: averli attorno lo soffocava. Fu molto grato che il buio fitto, spaventoso della selva, lo confortasse di un vento nero e inebriante di segreti.
«Che cosa temi?»
«È ancora notte, principe.»
«È la mia notte: mi obbedirà.»
Questa volta Padre Grigore lo agguantò per la collottola:
«C’è una bella differenza fra un moccioso un po’ viziato e un spirito corrotto che ha perduto il timor d’Iddio.»
«Quell’Empusa mi ha… parlato!», lui si risentì: dove aveva trovato l’impertinenza e la volontà?
«Ti ha sedotto: come Michail.»
La foresta echeggiò di pifferi, uno stridere di ferri, teli laceri distesi al vento, risa isteriche e cigolii. Una olezzo di putredine e una nube rugginosa, l’alone pallido e i crepitii di torce insalubri e fuochi verdi.
L’istruttore, intimorito, insistette che se ne andassero. Vlad incitò il cavallo per precedergli sul sentiero, ma il frate lo trattenne:
«Smonta, principino.»
«Come osate?!»
«Ti porterò.»
«Ho il mio morello.»
«Disarcionatelo.»
Eugen e Ionel lo afferrarono solleciti, lui, tirato a forza, scapricciò e scalciò furioso. Tinnii metallici e sinistri sibili: stramazzarono trafitti, quadrella nere di corvo ed osso ne trapassarono le giugulari. La foresta tremò di sfida:
È il nostro voivoda. Siete morti.
«Sprona, Michail!»
Orde orrende non umane barcollarono nel bosco: legioni nere di lupi e verri, gufi, istrici e caprioli camminavano su due zampe e impugnavano alabarde, scudi, elmi ed armature trafugate dai sepolcri e logorate dai millenni. Sgranocchiavano cadaveri. Obbedivano a corni, cornamuse e tamburi fabbricati con teschi ed ossa e pelli umane rabberciate, attorniavano stendardi ch’erano lacere lenzuola funebri. Freddi algidi nosferat, su destrieri emaciati morti, si trascinavano innanzi i ranghi di quelle bande dei cimiteri:
Al bambino spetta il regno delle tenebre e la luce, gli si inchinarono, sarà il signore: gli obbediranno i defunti e i vivi.
Grigore e l’istruttore cavalcarono più veloci, tallonati dalle mute dei mostruosi fantaccini. Vlad, in groppa al monaco, vacillò terrorizzato… si inorgoglì della fedeltà che quegli spettri gli protestavano. Il vecchio monaco si fece largo fra i fitti ranghi di quegli orrori, spaccando teste e pestando i mostri sotto gli zoccoli del cavallo; Michail, saldo sulle staffe, galoppava a briglie in bocca e mulinava la sua scure.
«È il nostro principe! Appartiene a Cristo! È un unto del Signore!»
Sarà il giudice dei vivi e i morti, gli negate il suo destino. Il suo casato è l’oscurità, c’è la notte nel suo sangue.
«… frate, è una menzogna!… dì che mentono, ragazzo!…»
Lo interrogarono atterriti e muti: attorno a loro l’oscurità. I bui marosi di assalitori si arrestarono per lunghi istanti, si azzittirono le grida delle lame e i massacrati. I vampiri e i suoi compagni raggelarono al suo responso: una parola di ottusa fede, la sciocca sillaba dell’innocenza avrebbe loro restituito la speranza ed il coraggio, o avrebbe sperso in un’alba limpida quell’esercito notturno. O lo avrebbe condannato… Non poté abiurare a sé:
«… c’è… del vero in ciò che dicono», Vlad si confessò.
L’istruttore lo prese al bavero, Padre Grigore lo trattenne, si impallidì di una santa pena:
«È una scelta solo sua.»
«È un bambino!»
«Che Cristo lo benedica! Siamo gli uomini di suo padre, gli dobbiamo fedeltà. Giurammo al Drago sulla sua vita, ma riguardo alla sua anima…»
Distanziarono al galoppo l’implacabile nemico, l’orda nera li inseguì nel bosco: l’orrendo strepito, quel loro rodere, i sudari e i flauti garruli che gemevano nel buio. La processione dei nosferati in solenne sottomissione…
Si arrampicarono su un collina benedetta da una cappella: un crocefisso di vernice e quercia, di devota povertà, era imperlato di brina azzurra sotto i raggi del plenilunio. Entrarono a cavallo, le creature li seguirono: si arrestarono sulla soglia tormentate da convulsioni. Sul sagrato d’erba rorida ne bruciarono a decine, scavalcarono gli inceneriti e assalirono la chiesa.
Grigore e Michail rinserrarono la porta, la bloccarono con le panche, rovesciarono il confessionale: colpi d’ariete e mugghii di toro rimbombarono sui battenti.
«È terreno consacrato: può proteggerci… per un po’. Questi dannati combatteranno fino al sorgere del sole.»
«Non reggeremo per tanto tempo.»
«Noi gli daremo modo di comprendere e decidere. Gli daremo un esempio.»
«È un’ultima lezione», Michail inghiottì.
«Che… che cosa volete farmi?!»
Vlad si dimenò: lo legarono all’altare. Padre Grigore gli mise al collo il suo rosario di ciliegio ed osso, consacrò molliche rancide e gli impose l’eucarestia. Michail si inginocchiò a ricevere l’estrema unzione, intonarono non praevalebunt, benedissero le armi.
Spalancarono le porte contro l’orda della tenebre.
Infuriarono come arcangeli sui cancelli dell’Inferno. Li guardò battersi, li vide cedere: sbranati e azzannati e infilzati e avvelenati, dissanguati dall’appetito di quegli algidi comandanti. Era inerme sull’altare, lo stringevano le corde: la nube nera di corna e zoccoli, fauci, becchi, elmi artigli e mannaie e lance irruppe nella navata ululando incenerita, si prostrarono in ginocchio e consumarono in sacre fiamme. Impazzì dallo spavento, non riusciva liberarsi: I bianchi nosferat si azzardarono a arrancare alla predella: lo ghermirono dita fredde, bianche, ischeletrite; lo investì, lo soffocò, un’aria putrida e gelata.
Ti supplichiamo. Ti obbediremo. Devi rimetterci le nostre pene.
Perse i sensi e affondò nel buio.
Lo svegliarono le premure e il profumo di Erotocrito: gli scioglieva le corde ai polsi, le caviglie e la vita trasecolato dai crudi graffi che gli segnavano la pelle.
«… come… come diamine si può fare questo ad un bambino?!»; gli pulì la bocca e il volto, gli bagnò i labbri con acqua fresca, lo spogliò dei cenci logori e lo avvolse nel suo mantello, «i loro barbari ignoranti riti! Un esorcismo, ci giurerei! Sei fortunato che i lupi o gli orsi si son saziati di loro due!»
Riconobbe il soffitto, le colonne, le travi e la povera sacra mensa della cappella da taglialegna. Dalla porta, spalancata e spaccata, penetrava un nuovo sole e il profumo degli abeti. Alle spalle del didascalos, fra soldati spaventati, Michail e Grigore giacevano su due lettighe. Una pozza di sangue nero, di viscere e di cenere insozzava gli scalini che scendevano dal colle.
«… un animale non riuscirebbe», mugugnarono le guardie, «è un pederasta: che vuoi ne sappia?…»
Vlad, annebbiato, si lasciò prendere e tenere in braccio, Erotocrito lo portò fuori, il giorno limpido gli ferì gli occhi. Gli sembrò quel mattino lo incendiasse di percezioni:
«Ho insistito con la guarnigione, il Metropolita li ha minacciati: si ostinavano a non voler dire dove ti avessero trascinato. Sono partito ch’era già l’alba, ti ho ritrovato per puro caso: la bardatura di quei cavalli che pascolavano a fondo valle. Quando ho visto quel massacro!… Dio ti ha caro, principe, ti ha molto caro!»
Uno stalliere lo mise in sella:
«Ve la sentite di cavalcare?»
Era forte, era affamato, si sentì rinvigorito, come sanato da un torpore vile che lo affliggesse da troppo tempo. I campanili di Târgoviste rintoccarono l’ekte ora, lui udii i fruscii della pagine dei libri che dispensavano agli altri principi esperienza e intelligenza, si addestravano nelle giostre con la spada e con la lancia. La fameliche faine che sbranavano la sua Valacchia, gli impostori e usurpatori della terra e della vita.
«Voglio applicarmi con maggior zelo, didascalos: le scempiaggini di questi preti non mi devono impressionare, non potranno più umiliarmi com’è accaduto la scorsa notte, devo avere le nozioni che mi servono a governare.»
«Sono… stupito, ma ti fa onore.»
Vide l’ombra dell’Empusa che lo invitava nelle foreste, udii i richiami dei lupi e i morti, lesse le lapidi, ascoltò le voci; gli autori antichi, la religione di giorno e innominabili discipline che si tramandano nella notte.
«Sarò un ottimo apprendista», le annuì.
Magnifico e suggestivo! Il crescendo della narrazione lo rende veramente coinvolgente.