
Presentazione
Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo nuovamente il piacere di ospitare Francesco Lacava, giovane scrittore che non si ferma nemmeno durante la calura estiva e che ci propone “Hellequin”, racconto di fantasy storico, di circa 14.000 battute spazi inclusi, ambientato a Roma e avente come protagonista Arlecchino.
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Autore
Francesco Lacava nasce a Taranto il 6 Gennaio 1981. Laureato in Scienze Politiche e Antropologia, è un appassionato lettore e narratore, scrive fin da giovanissimo.
Partecipa a diversi concorsi letterari ottenendo risultati in ognuno di essi, spaziando dall’horror, alla fantascienza e la narrativa.
Collabora con la rivista online Callmeishmael.net e con Nocturno in qualità di Freelancer.
Hellequin
di Francesco Lacava
Era ubriaco, non c’era altra spiegazione.
La città di Roma era un tripudio di suoni, colori, umori e odori. Le strade pullulavano di gente che danzava e urlava: fiumi di vino scorrevano come sangue copioso durante il Sacco di qualche anno prima.
Lo stesso che aveva distrutto una realtà facendone sorgere una completamente nuova, lasciando di quella vecchia, una memoria lontana ma terribile da ricordare.
I carri sfilavano addobbati con ghirlande di fiori e festoni colorati e su di essi decine di persone con indosso abiti differenti e disparati: là c’era Cosetta, che aveva scelto di interpretare il ruolo di una badessa, proprio lei, la più licenziosa delle locandiere di via della Scimmia, adesso se ne stava in piedi sul carrozzone con un aspetto morigerato, salvo poi di tanto in tanto scoprirsi i generosi seni verso la folla di sotto.
Poco più in là c’era Rico, il curato della chiesa di San Bartolomeo che vestito da boia, bestemmiava e indicava a caso promettendo morte a coloro i quali incrociavano il suo sguardo.
E poi altri ancora, che giocavano al mondo alla rovescia: Semel in anno licet insanire.
Berto di Cosimo, apprendista macellaio, guardava tutto questo con occhi la cui vista era amplificata dal troppo vino, bevuto dal pomeriggio fino a qualche minuto prima. La testa leggera e priva di pensieri, il cuore irrorato di baldanza e l’equilibrio precario, lo rendevano un candidato perfetto per quei festeggiamenti.
Godeva appieno di tutta la musica che i suonatori, sparsi qua e là, eseguivano senza sosta, in una cacofonica e allegra melodia dionisiaca.
Mosse un piede, poi ne mosse un altro; batté le mani e lasciò che il ritmo lo avvolgesse come una guaina o una cappa, penetrando fin dentro il corpo e l’anima.
A quel punto le ultime remore della ragione avevano già ceduto, come le difese della città di Roma sotto gli assedi e si lanciò nella folla senza pensare a nulla se non a vivere l’ebrezza del momento.
Era la prima festa di Carnevale a cui assisteva; lui, che veniva da un piccolo villaggio nascosto tra i calanchi del viterbese. Fuggito per la fame e la disperazione, adesso si trovava all’interno di una sarabanda irresistibile, da cui non poteva sottrarsi, un inno e un invito alla vita in tutta la sua pienezza.
Senza rendersene conto, Berto scivolò accanto ad una ragazza che aveva ghirlande di fiori tra i capelli, questa afferrò la sua mano e lo trascinò con sé nella danza, oltre il carro appena sfilato davanti ai loro occhi.
“Questa è vita!” pensò con soddisfazione sempre maggiore, mentre muoveva i passi di un Saltarello improvvisato dagli strumenti a pochi passi da loro.
La giovane donna gli cinse il collo con le sue braccia e sorridendo lo baciò sulle labbra.
Fu allora che Berto non capì più nulla, danzò ancora più veloce, come in balìa di una frenesia inspiegabile.
Gli sembrava di vedere la musica scorrere dagli strumenti; sentiva gli umori suoi mischiarsi a quelli della ragazza come ingredienti di un elisir mistico all’interno di un calderone alchemico.
Non era questo il Carnevale?
Una colorata e magica farsa in cui ognuno poteva per una notte essere altro; l’ultimo giorno prima dell’inizio della Quaresima, dove tutto era concesso, persino che una bella e profumata ragazza si mettesse a ballare con un garzone e lo baciasse e che, come stava accadendo in quel momento, lo portasse lontano dalle luci dalla festa, verso i Fori Imperiali.
La ragazza rideva, i fiori tra i suoi capelli scuri scintillavano come piccole fiammelle; si appoggiò ad una colonna spezzata attirando Berto a sé.
Lui non se lo fece ripetere.
Le loro bocche si avvicinarono, le loro mani dapprima intrecciate, scivolarono lievi sui corpi, carezzando; esplorando.
In cielo splendeva una luna generosa che mandava aloni argentati sulle rovine e sulle loro carni nude e avvinghiate; nonostante l’aria fredda di Febbraio, nessuno dei due sembrava avvertire il gelo della notte invernale che li circondava.
Lei con gli occhi semichiusi in estasi gemente, gli graffiava le spalle stringendolo forte e mordendo il collo; lui appoggiato, alla colonna con entrambe le mani, sentiva il cuore accelerare e quasi esplodere fuori dal petto: mai aveva provato una sensazione intensa come in quel momento. Odorava la sua pelle; i capelli; le spalle e i seni, come le più belle e preziose delle fragranze d’oriente.
Quando arrivò l’apice, tra gemiti e grugniti, ognuno sembrò perdersi nel proprio mondo personale, fatto di pensieri ed emozioni amplificate.
Berto scivolò quasi in un sonno lieve, avvertì la ragazza rialzarsi rimettendo le vesti e andando via senza dire una parola.
Avrebbe voluto fermarla, chiederle il nome, ma era troppo spossato per reagire, così lasciò che svanisse nella semioscurità, concentrandosi sulla sensazione di benessere e di pace che provava in quel momento.
C’era tranquillità intorno a lui, da lontano giungevano ovattati i suoni del carnevale, come attraverso una bolla d’acqua; non sentiva freddo, ma i suoi sensi erano amplificati e riuscivano a percepire quasi il suono del vento tra gli steli d’erba, o il rumore degli insetti nella terra.
Poco dopo si rivestì e tornò verso la festa, dove nulla sembrava cambiato: tutti bevevano, ballavano e si divertivano.
Seguendo la scia di persone, si ritrovò in una piccola piazza, dove tante torce dardeggiavano vivacemente. Qualcuno gli passò un fiasco di vino, lui bevve copiosamente, asciugandosi le labbra col dorso della mano; scrutò alla ricerca della ragazza dalle ghirlande tra i capelli, ma non la vide; notò invece un uomo, vestito di cenci colorati e lisi, con una maschera nera che gli copriva metà del volto, osservarlo silenzioso, noncurante della baldoria che lo circondava.
Non ballava; non beveva né si muoveva, era fermo e continuava a fissarlo con insistenza; Berto sentiva che tra tutti cercava proprio lui e questo lo metteva a disagio.
Cercò di non pensarci e continuò a muoversi a ritmo della musica, ma per quanto ci provasse, sentiva sempre gli occhi dello sconosciuto addosso. A malincuore lasciò quella zona della città, spostandosi oltre, non c’era luogo quella notte a Roma dove non ci fosse festa, doveva decidere solo quale direzione prendere e tuffarsi nell’orgia di suoni e colori.
Imboccò un vicolo laterale, dove uomini e donne avvinghiati si erano appartati lontani dalla folla, sbucando in una via molto più grande di quella dove era inizialmente e per poco non restò secco trovandosi un volto enorme di un leone che ruggiva furioso verso tutti i presenti.
Ma era soltanto una maschera che continuò nel suo cammino, come se nemmeno lo avesse visto. Fece due passi mischiandosi nella folla che scorreva come un torrente in piena, deciso a dimenticare quella spiacevole sensazione che aveva provato nell’essere osservato da quella maschera; ma ecco che la rivide ancora: era a bordo strada, alla sua destra, fermo a guardarlo sfilare dietro il carro che lo precedeva.
Sempre la solita espressione, sempre la stessa apatia nei confronti della festa chiassosa attorno a lui.
Berto strinse i pugni, avrebbe voluto corrergli incontro e sferrargli due colpi su quel volto liscio e privo di peli.
Come era possibile, si disse che un cencioso gli rovinasse la più bella serata della sua vita?
Ma proprio in virtù di ciò, quello che aveva provato in quelle ore folli ore, gli diede la forza necessaria per ignorarlo e continuare a festeggiare ancora, sempre più forte, ma per quanto si sforzasse, avvertiva con insistenza lo sguardo della maschera.
Alla fine, non resse più.
Si staccò dalla folla e arrivò proprio davanti a lui, agitando la mano minacciosamente: «Ahò, ma che te guardi?».
La maschera, di cuoio scuro bollito, era piena di rughe sul volto, lasciava scoperta la parte inferiore della faccia, dove un paio di labbra sottili e dipinte di un rosso scuro brillante, accentuavano le forme.
Sul lato destro della fronte spuntava un piccolo corno, mentre gli occhi erano due neri pozzi scintillanti, che sembravano assorbire tutta la luce attorno.
Vestiva un aderente abito a losanghe colorate, sporco e vecchio come quello di un volgarissimo giullare di strada.
Teneva un lungo bastone nodoso tra le mani, appoggiato per terra.
Poi le labbra si distesero in un sorriso affilato e Berto d’istinto portò la mano al coltello che teneva nascosto nella giubba.
«Berto, mio caro ragazzo, ben arrivato!» lo salutò lui, con un vistoso inchino.
«Orsù, andiamo adesso, che la schiera ci attende e la notte è ancora lunga», parlava con voce affettata, usando un tono canzonatorio.
«Ma chi sei? Che vuoi?» Berto cercava di mantenere un’aria minacciosa, qualcosa in quella figura gli suggeriva che non c’era da stare tranquilli affatto.
«Per favore, non scaldarti, non è necessario. È un onore quello che ti viene concesso: essere scelto per far parte della allegra famiglia di Arlecchino, che sarei io», la maschera appariva sinceramente eccitata e ripeté di nuovo l’inchino.
«È uno scherzo, no?» chiese Berto interdetto.
«Ma certo. Tutto è uno scherzo! La vita; la morte; l’amore e il dolore. Tutto! Non prendere nulla sul serio, perché non ne vale la pena. Adesso vogliamo andare?»
«Dove?» la mente del ragazzo era sempre più confusa.
«A camminare, fino alla fine del mondo e oltre».
Per un attimo un pensiero balenò nella mente semplice del giovane: «Sono morto?»
Arlecchino allargò le braccia e il sorriso: «Così pare, ma non devi essere triste, perché accade, sempre»
«Ma come è possibile?» continuava a non capire.
«Tutti muoiono prima o poi. È la legge»
«No, come sono morto?»
«Nel migliore dei modi: dopo aver giaciuto con una giovane e fresca donna. Chi non vorrebbe andarsene, così?»
«Tu sei un demone?»
Arlecchino scrollò le spalle: «Una specie».
«Questo non è possibile!» protestò Berto. «Io sono andato a messa quasi tutte le domeniche e delle feste comandate. Non ho fatto nulla di male!»
«Questi cavilli legali sinceramente non mi interessano e non spettano a me. Se però ti può consolare, non finirai all’infermo, né in paradiso. Sarai in un posto di mezzo, dove non esiste tempo e spazio».
Tutto quello che il demone diceva, per Berto non aveva alcun senso; poi alla mente ritornò un consiglio che gli aveva dato anni fa sua nonna, su come allontanare gli spiriti maligni e affini; alzò indice e mignolo della mano sinistra formando il segno dello scongiuro per eccellenza: le corna.
Rivolse le punte verso il basso e sputò in direzione della maschera, che però non si scompose affatto.
«Hai finito? Non so, vorresti fare altro? Preghiere; suppliche?»
«Io…io…» balbettò Berto.
«Tu…tu…Ascolta ragazzo: sei morto, fattene una ragione! Se la fanno tutti. Consolati che prenderai il mio posto e non dovrai essere tu a venire colpito da questa», gli mostrò il bastone bitorzoluto che aveva tra le mani e che a guardarlo da vicino, sembrava essere molto pesante.
Accanto la festa continuava, nessuno faceva caso a loro, o forse nemmeno li vedevano.
«Il tuo posto?»
«Cosa credi, che mi scomodassi per un garzone di macelleria se non dovesse essere il mi sostituto?»
«Ma io non sono un demone, sono un essere umano!» ribatté Berto.
«E quindi? Credi che tutti nascano demoni? Hai avuto la fortuna di morire in questa notte di festa. Guarda caso io e la mia schiera passavamo di qui. Ne ho approfittato perché sono stanco. Faccio questo lavoro da secoli ormai e ho bisogno di prendermi un po’ di riposo. Andare a vedere com’era Ninive a quest’ora mille anni fa, ad esempio. Oppure scoprire come è andata la storia con il Maresciallo de Rais…»
«Cosa?»
Arlecchino guardò Berto: «Comincio a sospettare di non aver fatto la scelta giusta. Ascolta, ragazzo: comincia con l’afferrare questa», gli porse la clava che non era poi così pensate come aveva pensato, tanto da riuscire a tenerla con una mano sola.
Poi iniziò il resto.
Dapprima un prurito che partiva dal petto, sempre più intenso; sempre più fastidioso e che si irradiava in tutto il corpo. Berto lasciò l’arma e cominciò a grattarsi furiosamente. Si tolse gli abiti che indossava, restando completamente nudo.
Gli sembrava di impazzire, il formicolio era adesso dappertutto e andava ad aumentare; laddove le unghie passavano, grattandosi ferocemente, lasciavano solchi nella pelle. Ben presto l’epidermide si aprì come lembi di un tessuto e lui la strappò via, scuoiandosi completamente, lasciando scoperta non la viva carne, ma un abito a losanghe colorate che aderiva perfettamente alle forme del suo corpo, macchiato del suo stesso sangue e siero.
Lo stesso fece sul volto, strappandosi via la faccia e il cuoio capelluto, rivelando sotto il suo nuovo aspetto: una maschera scura dalle fattezze rugose e con un piccolo corno sulla fronte.
«Va meglio, no?»
Allibito, Berto si guardò addosso, avrebbe voluto urlare ma sembrava che la voce fosse morta in gola. Quando si riprese, la trasformazione era ormai completata, era diventato Arlecchino, il Signore della Caccia Selvaggia.
«Addio caro mio e cerca di non essere parco nelle bastonate. È gente pigra che va stimolata. Stammi bene!» e così dicendo il vecchio Arlecchino si mescolò nella folla.
Fu allora che li vide, una parata di anime schierate attorno a lui in attesa di riprendere la cavalcata notturna e il loro maestro di danza che li dirigesse a suon di clava.
C’erano vescovi ed eretici; suore e prostitute; assassini e santi; vagabondi e re; ricchi signori e poveri fanciulli.
Ognuno di essi, traslucido nelle luci della festa, recava i segni della propria morte; chi aveva il segno di un nodo scorsoio attorno alla gola e chi si reggeva le budella fumanti da uno squarcio nel ventre.
Chi aveva il volto livido per annegamento, mangiato dai pesci e gonfio e chi la pelle mangiata dalle fiamme, distrutta e carbonizzata da un antico rogo.
Erano in tanti e tutti aspettavano frementi, spaventati ma allo stesso tempo eccitati da un sadico mistico piacere di ricominciare la danza.
Il nuovo Signore della Caccia guardò il vecchio, ormai solo un contorno confuso tra i viventi, poi sollevò la clava facendola roteare sopra la sua testa e colpì il primo che si trovava a tiro, un vescovo che cadde bocconi gemendo tra il dolore e l’estasi erotica.
Allora l’intera massa eterogenea si mosse, fendendo la gente che palpitante festeggiava il carnevale.
La Caccia Notturna era cominciata ancora una volta.