Vagabondi del Mediterraneo: Teatro Andromeda

L’auto borbotta fra le curve dei Monti Sicani, la strada è agevole sebbene ogni tanto sia costretto a brusche frenate per attraversare i fossi sterrati. Sono in provincia di Agrigento, nell’entroterra montano della mia Sicilia, sulla strada che raccorda il comune di S. Stefano di Quisquina. Stiamo facendo una scappata con degli amici, la nostra meta è il Teatro Andromeda, un luogo che ha una storia incredibile.

È tardo pomeriggio e il panorama che mi accompagna è da togliere il fiato. Il pendio coperti dai boschi, la vallata oltre il guardrail; e ancora monti e monti fin dove riesco a spingere lo sguardo. Di tanto in tanto incrociamo qualche macchina, eccettuata quella e lo stereo spinto ad alto volume, attorno a noi regna il silenzio. Un silenzio che fa da anticamera al posto in cui ci stiamo dirigendo.

Avevo sentito la storia del Teatro Andromeda anni fa ma non avevo mai avuto l’occasione di visitarlo in prima persona. Mi avevano raccontato di un uomo, un pastore, che aveva creato un teatro fra i monti, una costruzione suggestiva fra natura e arte, richiamando da vicino certi siti archeologici. Così eccomi qui, sulla strada, con gli occhi pieni di montagne e la testa al mito di Andromeda. Non vedo l’ora di arrivare, è uno stato d’animo pieno d’attesa.

Raggiungiamo un’area adibita al parcheggio dell’auto, le scarpe scricchiolano sul sentiero di brecciolino. Azzardo un’occhiata oltre la staccionata ma vedo poco più di filari ordinati di campi coltivati. L’ingresso del botteghino è stretto, passiamo uno per volta, evitando un cane che ci sonnecchia fra i piedi. Un ragazzo con una maglietta arancio con la scritta ‘staff’ ci dà un opuscolo:

Sei il benvenuto. Riconosco il tuo volto astrale e ti saluto come mio padre mi ha educato a fare: “assabbenedica”. Chiamami Lorenzo , qui, chiamiamo per nome e diamo del tu anche a Dio.

Inizia così la didascalia scritta dal Sig. Lorenzo Reina, pastore di professione e artefice del teatro. È un saluto cordiale, un invito al dialogo, all’apertura. Riconosco il tuo volto, ovvero la tua identità, la tua diversità. Alla nostra destra c’è una capanna, una piccola casupola circolare con il tetto di rami intrecciati. Ci stipiamo tutti dentro ed è come immergersi nelle atmosfere rurali di Andrzej Sapkowski. Dentro è quasi buio, il tetto è basso e una pentola di rame poggia sulle pietre di un focolaio spento. Non resisto alla tentazione di sollevarne il coperchio. È vuota. Getto dentro una moneta di cinque centesimi, affinché la prossima mano curiosa non resti delusa.

Un grande casolare è la prima struttura che accoglie i visitatori. All’interno scorrono le immagini di un video. È un’intervista al Sig. Reina. Apprendo che negli anni Settanta il nostro pastore portava le greggi qui al pascolo e rimaneva fino a tarda sera quando il cielo ‘si ricamava di stelle’. Sentiva qualcosa di speciale in quel luogo, un’energia positiva. E in un lampo, come una visione, vide ‘le pecore mutarsi in pietre su cui sedevano persone’. La posa delle prime pietre del Teatro risale agli anni Ottanta: 108 posti formati da piccoli blocchi squadrati, disposti in perfetta simmetria con le stelle della costellazione di Andromeda.

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Visione d’insieme del Teatro Andromeda con scena allestita per uno spettacolo

Sulle pareti del casolare ammiro la sequenza di foto che ripercorre le tappe della costruzione. Il teatro di Andromeda non può dirsi concluso, il suo volto cambia, viene modellato con lentezza e si arricchisce di piccoli dettagli. Gli amici del circondario mi raccontano che le prime visite erano organizzate direttamente dal Sig. Reina, adesso invece si avvale di un gruppo di staff. L’opera del pastore visionario ha preso slancio, nugoli di turisti si assiepano davanti al video, fanno apprezzamenti ad alta voce, vanno a caccia del selfie perfetto.

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Usciamo di nuovo nell’aria frizzante del tardo pomeriggio, lungo il percorso ci imbattiamo in una serie di sculture: una gigantesca testa dai colori metallici che richiama l’arte delle civiltà mesoamericane; un volto stilizzato simile alla maschera di una tragedia greca accompagnata sul terreno da un volto femminile dai tratti classici; il corpo di Icaro morente che giace sul tappeto delle proprie ali, opera dell’artista Giuseppe Agnello. Mi chiedo quale sia il comune denominatore fra le opere, il simbolismo nascosto che sembra emergere dalle crepe della pietra stessa. Ho la mia idea, riconduco tutto al Sole: brilla sui lineamenti geometrici del volto gigante, si allinea alle fessure della maschera, brucia le ali di Icaro.

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Dalla distanza, la prima cosa che vedo del teatro è il muro di cinta, un ovale di pietra a secco che ricorda le fortezze micenee. L’ingresso è alla fine di un breve corridoio, una sorta di Porta dei Leoni senza alcuna magnificenza; al contrario, l’entrata è minuscola e sono costretto a piegare la testa. Varcare la soglia diventa un rito di passaggio, la rinascita all’interno dello spazio circuìto dalla pietra.

 

La prima impressione è che le dimensioni del teatro siano più piccole di quanto avessi immaginato. Ciò non intacca il fascino della struttura che, nella fisionomia, è pensata come un luogo di intimità. Un diffusore trasmette le note di John Williams, la colonna sonora del film Schinder’s List ma la presenza un po’ invadente dei turisti in coda per la posa negli angoli più suggestivi mi impedisce quasi di realizzare la comunione fra cielo e terra voluta da Reina. Vago fra i blocchi che fanno da posti a sedere, ne tasto la superficie liscia. Ogni blocco una stella. Una stella della costellazione di Andromeda. Sono davvero 108? Sono sorpreso perché penso sia un numero ragguardevole ma non mi prendo la briga di contare le pietre. Scendo nella scena del teatro, è circolare con un disco nero proprio al centro.

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La mia attenzione è tutta attratta dalla porta sovrastata da un cerchio che si apre verso i monti. È una porta. Una porta verso l’infinito. La vastità del tutto racchiuso da una cornice di pietra. Come deve essere magico il teatro di notte, col chiarore della luna a illuminarne il contorno o d’inverno, con la neve fresca calpestata dai visitatori.

Il tempo passa velocemente, quasi non me ne accorgo nemmeno. Il sole sta tramontando, infuoca il cielo e l’aria sottile mi dà i brividi. Finalmente parte dei turisti è andata via. Ora posso godermi maggiormente il luogo. Rimaniamo per un po’ seduti a scambiarci pareri. Il Teatro Andromeda seduce e porta a galla reminiscenze lovecraftiane: il Sig. Reina è un uomo coraggioso ad aver creato un portale che strane creature cosmiche potrebbero utilizzare per reclamare il nostro pianeta, dico a me stesso con ironia. Mi faccio più serio. Rifletto che avrebbe potuto creare un santuario, un monumento. Invece l’opera di Reina ha preso la forma di un teatro. Perché, mi chiedo? Perché proprio un teatro? Non ho una risposta definitiva ma percepisco un chiaro intento comunicativo. Il teatro è fatto di persone, attori e spettatori, si porta in scena qualcosa. Qualcosa che alla fine lascia lo spettatore appena più ricco di quando è entrato. Attorno a me vedo un forte simbolismo astronomico, un richiamo alla cultura classica, una spiritualità che rivanga quella dei primordi della chiesa cattolica, avulsa dal ritualismo odierno.

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Alla fine della giornata lascio il Teatro intirizzito dal freddo (e dire che anche io vengo da una zona pedemontana!). Sono soddisfatto del piccolo gioiellino incastonato fra i Monti Sicani. Da cultore della narrativa dell’immaginario non posso che consigliare una capatina nei dintorni di S. Stefano di Quisquina, magari con la vostra copia di Lovecraft sottobraccio. Non rimarrete delusi. Dal canto mio, io sto già pianificando la prossima sortita, da buon Vagabondo del Mediterraneo.

Ogni consiglio sulla destinazione è ben accetto.

 

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