Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare Domenico Mortellaro, autore emergente che ci propone “Le zanne dell’Itria”, racconto di fantasia eroica mediterranea, ambientato in Puglia, di circa 19.000 battute.
Buona lettura.
Autore
Domenico Mortellaro, classe 1979, è un criminologo e sociologo del crimine e della devianza. Nella vita scrive, scrive, scrive. All’attivo, pubblicazioni accademiche sui temi dell’omicidio seriale e su quelle dei sistemi criminali. Collabora con settimanali e quotidiani, nazionali e locali. Gestisce ed anima un blog di approfondimento sui temi della Camorra barese. In corso di edizione, per i tipi della Radici Future, il volume storico “Bari Cal.9 – Storia della Camorra barese”. Accanto alla passione per la criminologia, quella per la letteratura e le culture dell’inquietudine. Ha un thriller in corso di edizione per una CE di cui – per scaramanzia – in pubblico non farebbe nome nemmeno sotto tortura. Ha pubblicato numerosi racconti, alcuni ospitati in antologie nazionali con lo pseudonimo di Aleks Kuntz e alcuni e-book autoprodotti col suo nome. Ha partecipato con tre racconti all’antologia “Thanatolia”. Innamorato della sua terra, lavora da tempo a racconti che sposino i dogmi del fantasy ai grandi misteri attorno alle popolazioni pugliesi di epoca preromana – Peuceti su tutti. Stregato come tutti i sociologi dalla lettura del presente e dalla scommessa sui futuri possibili, si occupa anche di fantascienza sociale e di distopie – non solo dal punto di vista squisitamente romanzesco.
Sinossi
Enchileo, eroe delle genti di Taranto, viene chiamato dal re ad investigare sul massacro che qualcuno, nella notte, ha compiuto al tempio di Demetra, scempiando le greggi sacre da offrire in sacrificio alla dea. Subito, l’eroe dirige i propri sospetti verso qualcuno nascosto nelle comunità messapiche e peucete che i greci chiamano Barbari o Mandriani. Investigando a tentoni in questa vicenda, però, Enchileo capisce che il massacro delle pecore è probabilmente solo un pretesto che qualcuno sta adoperando perché sia proprio l’Eroe a uscire allo scoperto. Perché si confronti, finalmente, con i lati oscuri del suo passato.
Le zanne dell’Itria
di Domenico Mortellaro
È lì, di fronte. Ringhia. Schiena curva, spalla incassata. La groppa svetta, il posteriore è una corda d’arco tesa. La coda fende l’aria. Occhi come stelle del malaugurio: verdi, brillano nel buio e mi tengono sotto tiro. Non un passo. Rizza ancora più il pelo.
Mi detesto: per la paura che gela il sangue, il dubbio che ruba il primo assalto.
Serro la stretta sull’elsa dello zifo. Il palmo suda sul cuoio. Cambio piede d’appoggio per resistere alla carica. Rinsaldo la presa: se perdo l’arma non ho scampo. La bestia provoca, non attacca. Come ogni volta, dietro di lei, una voce di corvo gracchia bestemmie. Sputa sciagure. Mi cuce un vestito che non conosco, un futuro che non comprendo. M’incorona di sangue e mi chiama Re. Tuona.
“Spezza le catene! Riprendi il tuo nome!”
Crollo in ginocchio. L’essere che gracchia viene fuori dall’ombra. Ha il crine grigio di luna. Butta fuori una mano rinsecchita dai cenci . Sibila un ordine e il mastino scatta al comando.
Crollo. Sbatto al suolo, risucchiato da un vortice che mi precipita in pancia alla terra. L’affanno mi scuote, il sudore mi ghiaccia. Di nuovo: un incubo che non cessa. C’è qualcosa che suona diverso, oggi. Un dettaglio, ogni respiro più insopportabile. Il bronzo squillante di una campana. Mi metto dritto. Scosto il pellame che scherma la finestra: come una ferita, infondo all’uliveto, l’alba sanguina il sole di un nuovo giorno. I rintocchi della campana si fanno più ansiosi.
Sguscio dal varco e cerco gli appigli sulla parete. Mi isso alla cima, sul tetto. Scruto oltre le chiome immobili: Taras dorme e le fiamme sui muraglioni non annunciano pericolo. Oltre, verso le colline, è il tempio di Demetra che invoca aiuto. Ed alla campana s’aggiunge una fiamma furiosa. Spinte dal vento grida e pianti . Mi piego al muro, mi spingo in un salto e sono giù, accanto al recinto delle capre. Le voci si fanno rabbiose. Le bestie scalciano impaurite.
Non sarà una giornata facile.
*
Prima ancora degli zoccoli sulla mulattiera è la puzza di stalla ad annunciarli. Indovino tre cavalcature, senza girarmi. Di fianco, Arèm pesta gli zoccoli e scuote i barbazzali impaurita. Avanzano lenti; mi avvicino piano lo zifo, strusciandolo sotto la suola. La sica, dietro la schiena, fa già bella mostra. Chi si annuncia così, comunque, non può avere cattive intenzioni. Mi concedo ancora un sorso di zidera. Poggio il boccale e il rintocco, alle mie spalle, cessa. Il fiato caldo di un cavallo mi solletica la testa rasata.
“Eroe!” Voce argentina: un sidéuno, di sicuro.
“Il Basileo non ha trovato niente di meglio di un ragazzino per mandarmi a chiamare?” Mi scappa un sorriso. Dietro, la provocazione non viene raccolta. Ci scommetto: avrà gli occhi piantati in terra e la faccia avvampata.
Mi alzo, raccolgo lo zifo e lo inforco al fianco. Voltandomi a loro, riannodo le braghe. Basta passarli veloce in rassegna, i tre soldatini, per vedere la soggezione che li schiaccia.
“Allora? Cercavate l’Eroe, giusto?”
Il più grande si fa coraggio: “Tachione il Basileo richiede i tuoi servigi, Enchileo.” Si piega sul ginocchio.
Enchileo: non mi ci abituo ancora a quel nome. Bulda, che m’ha fatto da madre, se l’è portata la peste che ancora non camminavo. Me l’aveva messo un nome, credo. A Gurio dev’essersi dimenticata di dirlo, mentre crepava. Perché quello, che in qualche modo è stato mio padre, in giro m’ha sempre chiamato Ragazzo. Bastardo, se eravamo soli. Un capo-guerra che non aveva tempo per certe sottigliezze. Enchileo l’ha scelto Tachione, il Basileo di Taras.
“I miei servigi?”
“Imploro l’Eroe: non abbiamo molto tempo!” Il tono non copre la voce che si spezza d’imbarazzo. Apprezzo il tentativo.
“Prendo le scorze. C’è ancora della zidera, se v’è concessa…” Una pacca manda Arèm a pascolare lontana, mentre entro a recuperare cuoio e ferro; i tre soldatini restano impalati accanto ai cavalli.
Spingiamo al trotto. Comando gli altri a fare strada e m’affianco al più grande. Voglio i dettagli.
“Le pecore, Eroe…”
Resto perplesso: c’è bisogno davvero del difensore degli dei e della città per un gregge?
“Fino a stanotte erano state solo le bestie negli stabulari o le capre dei barbari…” continua.
Barbari: come dire stranieri. Curioso che sia uno spartano a chiamare così chi questa terra l’abita da secoli. Io, che non ho sangue dorico nelle vene, li chiamo alla maniera delle altre genti: Mandriani. Continuo: “Che vuol dire fino ad oggi?”
“Stanotte qualcuno ha fatto strage nello stabulare del tempio di Demetra.”
Le greggi sacre: ecco perché Tachione mi reclama. “La grande porta era sprangata; non basterà mandare noi sidéuni a caccia dei mastini che gli zotici hanno seminato nella valle… ”
Vero: non basterà.
Oltre la porta trovo sguardi torvi. Tachione non avrebbe trovato un oplita nemmeno a pagarlo: li ha sparsi per le strade, in piccoli drappelli. La rabbia monta sulle facce che incrocio. Dietro i colonnati danzano lingue di calunnia. A Tachione, oggi, serve l’Eroe. Al suo regno fragile servono muscoli e ferro. Serve la testa di una bestia da esporre e quella di chi l’ha ispirata. Perché le bestie non aprono le porte.
Sulla scalinata del palazzo, tre file di guardiani si aprono. Tachione è nella sala grande: misura a passi ansiosi il pavimento.
“È sul trono che dovrei trovare il Basileo!” e gli sorrido.
Non si calma: “È una brace, oggi, quello scranno…”
Mi si avvicina rapido a mani tese. Privilegio interessante, essere Eroe: dispensa dall’etichetta. Vado al dunque: “Sicuro che le porte del tempio fossero sprangate?”
“Lo ierofante non giura altro. Del gregge per i Misteri è rimasto solo un cumulo di pelli straziate.”
Lo prendo dal gomito e lo porto al trono: “Tutto questo trambusto per qualche pecora?”
“Lo sai come va. Le nuove famiglie hanno riempito le tasche di qualche capo-guerra. Aspettano solo un incidente come questo per scatenarsi…”
Resto dritto di fronte: “Sicuro non centrino i mandriani?”
“Non sai quanto mi piacerebbe… – scuote la testa con lo sguardo basso – Anche i loro recinti sono stati violati. E dopo stanotte, tenere lontane le chiacchiere sulla lamia della valle…”
Gli stringo il polso: “Non andare oltre!” Mi congedo.
Supero i tre sidéuni rimasti in ginocchio: “Non voglio ragazzetti che mi rallentino!”
*
Il puzzo di fumo e pelli bruciate appesta l’aria. Tra il colonnato e il muro a secco che delimita il tempio, tre novizie si affannano a ravvivare una brace. Mondano quel che resta dello scempio. Mi annuncio varcando la soglia e fuggono il mio sguardo mettendosi di spalle. Una corre al portone chiamando lo ierofante. La porta resta chiusa. Mi da le spalle, trema. Mi piacerebbe studiarla meglio. Ha le forme acerbe che adoro. Il sangue di un Eroe non dovrebbe conoscere queste empietà. Si vede che i miei natali non vanno cercati tra i greci. Come se non bastasse questa faccia, la barba affilata, il mento appuntito per nulla lucano. O il naso piccolo, nient’affatto greco.
Da dietro il portale, il sacerdote s’affaccia. E la diffidenza lo avvampa ancora più forte, quando riconosce i miei lineamenti tra i battenti.
“Cos’è che cerchi, qui?”
“Due parole. I tuoi sospetti e le tue visioni.”
Scuote la testa poco convinto. Fa due passi indietro e schiude appena un altro po’ la porta.
“Ho poco da dire e nulla che non abbia già detto…”
Gli rubo l’attimo mettendo un piede dentro, a schiena dritta, gli occhi duri. Carezzo la porta: nessuno sfregio che denunci uno scasso.
“Tu… – abbaio alla novizia – Le carcasse sono state tutte mondate? Non ne è rimasta nessuna?”
Ha l’affanno, mi fa sì col capo. Sempre con il viso nascosto.
“Peccato!” E non so se il rammarico sia non avere pellacce da inquisire o musetti di vergine da studiare.
Lo ierofante si fa indietro. Puzza di piscio e sudore, puzza di paura. Gli trema la voce.
“Le lamie di quegli zotici tramano. Avvelenano i raccolti. E su quelle terre ci spargono pascoli buoni solo per le capre. La demonia selvatica: la sento, l’avverto…”
Annuisco, ma la storia mi annoia: è sempre la stessa. Da tre anni, da quando Tachione m’ha eletto Eroe. Che oggi ci sia sotto un sortilegio, lo grida il legno intatto del portale. Che dietro ci siano le lamie o Bendì dei boschi, non ho mai potuto dirlo con certezza. Nemmeno oggi.
Mi rivolgo alla verginella: “Terminate il rito e serratevi dietro i colonnati…”
Quella fa appena un sì con la testa. Provo a rassicurarla, con voce più calma: “Tornerò presto con la testa di chi…”
La solita formula. Una risposta che non basta al vecchio: “Non basterà la testa di un lupo, stavolta. I lupi…”
“I lupi non aprono le porte!” Taglio corto, indovinando le sue parole. Volto le spalle, m’incammino. Scruto le due rimaste attorno alla brace. Magre come giunchi, sinuose come il demone che m’agitano sotto la cintura. Passo ad un tiro di fiato e si scansano; sotto l’odore della fuliggine, il profumo dell’imbarazzo. Monto a cavallo, premo i calcagni dritto alle valli dell’Itria oltre gli uliveti.
*
Salgo il fianco della collina di Badisia, a qualche ora di cammino dal tempio. Metto il muso del cavallo al declivio; il fianco che scendiamo non ha cespugli, ma pini e ginepri. Zartas avanza incerto. Dove ricordavo un sentiero, ora, solo pietre e sassi che rubano l’appoggio. I mandriani dell’Itria non conoscono mura e città: piccoli clan, pugni di capanne e casupole. Scompaginano la terra e mischiano i cammini, per proteggersi. Ed hanno vecchi raminghi, signori-di-quel-che-non-tocchi, a tenerli assieme, leggere il futuro, comandare i sacrifici. Alzano pietre nei boschi e li chiamano templi. Benedicono i pascoli ed infossano i morti a due passi da casa. Selvaggi!
Hanno di nuovo cambiato i sentieri. E, di certo, dalla gobba del colle, m’hanno visto arrivare. Scendo ancora, tirando le corregge perché a Zartas non manchi il coraggio, sul fondo malfermo. Lo sprono al limitare del bosco, perché sotto i suoni del ciottoli e dietro i suoi sbuffi, sento un bisbiglio stregato. Ed un’altra coppia di respiri. Punto alla luce, ma dal lato opposto frugo la penombra. Da qualche parte, qualcosa mi segue nel buio. Siamo fuori, quando un sibilo mi fruscia accanto e si perde in un tonfo dietro le spalle. Una frombola! Troppo impegnato a guardarmi il fianco per accorgermene. “Smonta a mani libere e vieni piano!” Voce roca, parole semplici. Nella lingua dei mandriani, c’è qualcosa che mi suona dentro. Nel profondo. Mi chiama e la odio. Scendo, allargo le braccia ed apro i palmi. Da dietro la roccia, due fusti di muscoli e nervi, una frombola e una lama sformata.
“Cos’è che cerchi, greco?”
“Solo una parola col vostro vecchio…”
Il giovane con la roncola abbassa l’arma e fa un cenno d’invito con la mano.
Il signore-di-quel-che-non-tocchi sembra aspettarmi. Siede poco fuori il cerchio di pietre, al lato delle loro sepolture.
“Il Senzanome!” Non m’ha nemmeno visto. Solo quando gli sono vicino alza la testa: “Sapevo che saresti venuto a cercarmi…”
Siedo. Prima che io possa parlare, solleva la mano: “Fammi compagnia, ho sete!”
M’impone con una cortesia selvatica un coccio di zidera. Radici ed erbe di fosso lasciate a bollire. L’unica usanza buona da rubargli. Strizza nel palmo un pugno di bacche e le lascia cadere nella sua. È così che leggono i segni: stordendosi con quei frutti. Prima che faccia lo stesso con la mia, tiro via il boccale: “Non sono qui per i tuoi giochetti.”
Sbuffa divertito: “Quando la smetterai di far torto agli Dei?”
Faccio un sorso: l’amaro mi ristora. “C’è qualcosa che ispira sciagure in questa valle, vecchio. Apre le porte dei templi a lupi e molossi. E fa strage di greggi sacre…”
“Cerchi nel posto sbagliato. E dici parole sbagliate…”
Lo fisso, aspetto che dica altro, ma lascia il discorso sospeso.
“Parole sbagliate sono accuse e bestemmie, Senzanome. Sei tu che semini sciagure, così…”
I giri di parole non mi sono mai piaciuti: “In questo pezzo di terra, solo greci e mandriani, vecchio. Ed è alla vostra dea che sacrificate i nostri raccolti. Per farci tornare arbusti e pascoli!”
Scuote la zazzera di stoppie grigie come serpi in un no. Poi mi caccia gli occhi in viso: “Noi abbiamo quel che basta a Bendì. Non sono i pascoli a mancare a chi ha sussurrato nell’orecchio di una lupa, stanotte…”
“Chi?”
Si alza e mi volta le spalle. “La lamia che vuoi cerca altro. Non è Bendì a soffiarle sulla brace, ma Enji e Thana…”
“Che vuol dire?”
Continua a non guardarmi: “Guerra e Notte, Senzanome. La lamia che cerchi li serve. L’ho sentita bisbigliare la lingua di là del mare, giù nell’Orrido. Ma non l’ho mai potuta vedere.”
Incalzo: “Cos’è che vuole? Perché?”
Si volta, finalmente. Ha occhi severi: “Non sono io quella Lamia. Qui non troverai altre risposte.”
No, non ne troverò altre. Torna a parlarmi, mentre mi allontano.
“Ti chiedo io, ora: qual’è il tuo nome, Senzanome?”
“Mi chiamano Enchileo…”
“Non t’ho chiesto come ti chiamano, Senzanome!”
E senza lasciarmi diritto di replica, sparisce dietro le sepolture.
*
L’Orrido s’incunea tra crepacci e gole. Le zampe di Zartas non reggerebbero. Giro le briglie attorno ad un ginepro e gli liscio il muso. Sguaino lo zifo. La terra sfugge sotto i calzari. Con la sinistra m’afferro ai rami più bassi. Scruto più in fondo, ma i pini e le ginestre confondono l’occhio. Le grotte sono più giù. È lì che devo frugare, se una Lamia ha scelto l’Orrido. I terrazzamenti s’alternano ai declivi. Alzo il passo: manca poco al tramonto.
Quando sono a metà, un sussurro mi mette in allarme. Mi blocco, schiena alla parete, e tengo il fiato. Le correnti tra le rocce fischiano tra la macchia. Sotto, dietro fruscii e sibili, c’è qualcosa. Una nenia: preghiere in una lingua che non conosco. M’abbasso, perlustro le file di alberi. La litania non cessa. Ha voce di femmina, antica e roca. Mentre fisso gli spazi di fronte, una risata. Questa volta l’ugola è acerba.
Alcuni boschi hanno animi beffardi, lo so. Ma sento che non sono Ninfe o Gindi a scherzare, ora. Perché la voce muta. Da anziana a suadente. E seppur sconosciute, le parole mi s’infilano dalle orecchie lungo la schiena e nel sangue. Mi concentro sul suono del mio affanno. Scaccio quella voce, ma come ronzio di zanzara ritorna. Poi scappa. Stringo lo zifo e serro la correggia attorno al polso, per non perderlo. Mi scollo dalla parete e seguo i suoni, più che fuggirli. Getto lo sguardo giù: un balzo facile per risparmiare passi. Atterro, cerco l’appoggio con i palmi. La voce cessa, sparisce. Non torna. A farle eco, un rombo.
Un ringhio che sembra urlarmi da un cespuglio di tornare sui miei passi. Resto fermo. Stringo l’arma e striscio verso le rocce alle mie spalle. La siepe trema. Dal buio, due occhi d’un verde ipnotico mi fissano. Sento il cuore rullare: li conosco. M’appestano il sonno da mesi. La bestia muove viene fuori. Ha la testa squadrata e le spalle forti dei molossi d’oltremare. Digrigna. Sbava e sbuffa fiato bollente. Poi ferma il respiro.
Scatterà: è questione di attimi. Fanno sempre così, prima di una carica. Non ho tempo di sollevarmi. Prego che la presa sull’elsa sia salda. Attimi. Poi un sibilo, come schiocco di frusta. Un cenno di fiato e la bestia spicca il balzo. A fauci aperte: punta la gola. Ho solo il tempo di far scudo col sinistro e sento i denti serrarsi. Le zanne bucano le pelle, il dolore rivolta lo stomaco. Provo a far forza sulla spalla per tenerlo lontano, ma quella stretta brutale toglie il fiato. Inspiro forte, prima di vibrare una stoccata di zifo al ventre molle. Mi piove addosso sangue bollente. Quello serra più forte. Spezzerà il braccio, lo staccherà di netto. Faccio uno sforzo, prego la sorte e ruoto il polso torcendogli il metallo nella carne. Lo sento cedere, vomitare sangue. È un attimo: me lo ritrovo addosso esanime.
La morte gli ha serrato le mascelle. Mollo l’arma e spingo con la destra. Il sangue m’invischia le mani. La bava di morte m’incendia la ferita e la groppa pesa sulle ginocchia. Uno sforzo ancora. E un calpestio sul letto di muschio, un ringhio più sordo. Non ho tempo per guardare. Premo e riesco a ribaltare quel corpo sul mio fianco. Il sinistro si storce, ancora stretto tra le fauci. Quel digrignare furioso è più vicino. Cerco lo zifo, ma il manico mi sfugge. Volto lo sguardo e di fronte ho il cono nero d’un muso di lupo. Ha il naso riccio, sollevato tra gli occhi verdi di demonio. Denti che brillano, lingua che soffia. Se non libero il braccio, ci muoio qui sotto! Mi giro, serro con la destra sotto la mascella e spingo. Cede, alla fine. Ma dietro, sulla spalla, cala il morso dell’altra bestia. È la fine: morderà di nuovo, al collo scoperto e indifeso.
Invece no. Pizzica, poi si fa indietro. Morsi feroci. Una minaccia e nient’altro. Ed il sussurro di giovane strega che prima rideva, ora bisbiglia da quei denti.
“Va via, Senzanome! Noi non beviamo il nostro sangue…”
Parole che non conosco, eppure comprendo. L’antica lingua dei Mandriani, la voce che ogni notte mi guasta il sonno. Lingua che dipinge immagini a me che non la parlo. Sortilegio! Rotolo sul fianco per fuggire le zanne. Alzo il viso. La fiera è sulla lama, non ho speranze. Soppeso la bestia con lo sguardo: non avessi il sinistro martoriato, potrei farcela a mani nude. Ho solo una speranza. Striscio la gamba dietro, mi sollevo in ginocchio. Alzo il braccio ferito a farmi da scudo: meglio monco che morto! Fisso quegli occhi di diavolo, arriccio il naso, sollevo le spalle: sono io che provoco, ora.
“Avanti, bestia degli Inferi! Ne ho addestrate decine migliori di te. Attacca!”
Pungolo ancora l’orgoglio del demone: “Forza!”
Finto uno scatto, spingendo davanti il braccio ferito. L’istinto della bestia ha la meglio sul sortilegio. La fiera attacca: impatta al braccio, ma ha fauci più piccole del molosso. Non serra, straccia la carne dal polso. Resta sollevata cercando un altro morso, mentre alzo il bersaglio. Con la destra corro dietro la schiena, sfilo la sica dalla cintura. E con un movimento fluido, prima baleno il filo della lama lungo la sua gola, poi, di ritorno, con la punta ricurva arpiono la carotide e affondo. Spruzzi di sangue mi schizzano il viso. Spingo più forte, col sinistro, per sbatterla a terra. Crollo in ginocchio
I suoi ultimi fiati sfocano sotto il mio affanno. Alzo gli occhi. Di fronte, l’orrore.
Non è il corpo del lupo, a terra, ma le forme seducenti di una donna. I capelli, grigi come la luna, zuppi di vermiglio alle punte. Sputa sangue, rantola. Ha occhi di fuoco, spalancati a cercare qualcosa. Non so dove trovi ancora calore per parlarmi.
“Il volere della Guerra e della Notte s’è compiuto, Senzanome… Posso tornare in pace…”
Le gattono incontro, sopra. Tossisce, ma non è il petto a scuotersi; è nel ventre che qualcosa sobbolle.
“Che vuoi dire figlia degli Inferi?”
“Quel Mastino d’oltremare m’ha piantato in corpo il suo seme! Ha mischiato il suo sangue, m’è germogliato dentro…”
“Che dici, strega? Il seme di un cane non vive nei lupi.”
La strega sgrana gli occhi: “Eppure…” Gorgoglia più forte e il ventre si scuote. “Prendilo, prima che sia stato vano. L’ho nutrito del sangue delle greggi dei greci. Come te, ha banchettato e s’è nutrito di loro. È tuo, lo vogliono gli dei!”
Gorgoglia l’ultimo conato. Poco sopra al pube, qualcosa si cerca una strada. Non voglio quell’abominio. Volto le spalle, muovo due passi e raccolgo lo zifo. Una voce, dentro, pretende che aspetti. Volto lo sguardo. Tra quelle cosce pulsa un bozzo di placenta bruna. Lo afferro, ripetendomi che lo strizzerò tra le dita. Lo prendo e premo la sica sul sacco, per squarciarlo. Sbuccio quel frutto marcio per divorarlo. Quando quel fagotto mi si svuota sulla lama, nel palmo mi si muove una vita che vagisce. La fisso. Nel tramonto che sanguina, un lampo squarcia il cielo. Assicuro quella vita che si dibatte sotto la cintura. Ci penserò più tardi. La testa della Lamia: a Tachione basterà a dire che la strega ora non è più un rischio. La pancia mi ripete che non c’è bisogno che nessuno sappia altro.
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