
Dettagli
Titolo: Vilupera
Autori: Luca Mazza e Jack Sensolini
Editore: Lethal Books
Genere: grimdark fantasy
Data di pubblicazione: settembre 2019
Sinossi
Penumbria, Regno di Taglia: una terra senza santi né eroi, in balia di mercenari e fuorilegge, stretta fra le lame di una crociata eterna e la fame di una fauna mostruosa. Mentre Lutti e Malavita si contendono il feudo di un eretico e un diabolico cardinale cospira per instaurare un ordine nuovo e duraturo, due stranieri senza passato spargono sangue e leggenda nelle contrade tra gli Appenninferni e il Maladriatico. Sono una cacciatrice di taglie e un mattatore di bestie e si fanno chiamare la Lebbrosa e il Barbiere.
Niente di epico, niente di etico.
Tra un matrimonio e molti funerali, solo ombre e acciaio.
Letale come le zanne di una vilupera.
Autori
Luca Mazza è nato a Bologna il 1980, diplomato al classico e laureato in Scienze Motorie.
Appassionato di sword&sorcery, giochi di ruolo, rievocazioni storiche e cultura fisica.
Autore nell’antologia Zappa&Spada edita da Acheron Books, due racconti all’attivo nelle ultime edizioni 2017 di Letteratura Horror, membro della ciurma letteraria di Crypt Marauders Chronicles ideata da Alessandro Forlani e Lorenzo Davia.
Collaboratore di HFI e Caponata Meccanica.
Co-creatore del movimento Ignoranza Eroica e organizzatore del Primo Torneo Schiaffantasi di Menare (www.ignoranzaeroica.it).
Jack Sensolini (Cattolica, 1988) si è laureato in filosofia a Urbino con una tesi sull’evoluzionismo in psicologia. Vive a Riccione e lavora come designer freelance. Gli artisti che lo hanno influenzato maggiormente sono J.L. Borges, Alan Moore e Joe Abercrombie. Il ballo degli Infami è il suo romanzo d’esordio.
VILUPERA
di Luca Mazza e Jack Sensolini
PROLOGO
Una contea di verdi, una contesa di marroni.
Con due o una erre, cambiava poco.
Cinno sudava e sbuffava tra i calanchi afosi, le barbe di selve e le polveri del meriggio. Salite e discese. Discese e salite. Così era la Penumbria, e le sue giornate, da che lui avesse memoria. Scomodò l’accetta dall’astuccio per mutilare una zampa di rami protesa sulla pista, più per l’ebbrezza di sentirne il peso in corno e metallo che per necessità. Come usanza di Bubbogna, il Grande Vez gliel’aveva regalata per il suo quindicesimo, vale a dire che per Cinno era ora di sgobbare duro. Che già da un pezzo accompagnasse i fratelli so e zò per boschi e ceppaie era giusto un inciso. Imprese precoci che oggi lo infilavano in abiti fuori taglia, maniche corte alle spalle e brache risvoltate agli stinchi. C’hai le ossa toste, e va bene: ma stazza rupestre e miseria ladra non sono proprio la chiave per quella robina che ogni adulto con un’ascia a filo e due maroni pieni – qui la conta delle erre cambia – ambisce.
Il sentiero in battuta si allargò, e il folto della foresta respirò una boccata di cielo olimpico. Acque frusciavano oltre le cime dei faggi, le fauci scure degli Appenninferi si erano mangiate Bubbogna.
Per un drammatico istante Cinno fu combattuto se vedere o no la fine del sentiero oppure tornarsene in baita. Dal rèst mica stava andando a pioppini, o a spiare i deretani delle maraglie.
L’accetta rientrò nella guaina, e l’istante si perse nel richiamo di un aquistrige. Così Cinno si calcò la berretta sulla zucca, attento a non spennare l’unica piuma – presa in prestito dalla carcassa di un corvoragno – e affrettò le caviglie tra i massi biancheggianti di una vecchia frana.
L’estrema speranza era che Gaso non si facesse vivo all’appuntamento.
Invece, appena ebbe svoltato l’ultima costa di vegetazione, Cinno vide il socio che lo attendeva all’imbocco del Ponte dei Sulfuri, in cotenna e ossa, un frutto in mano e il serramanico nell’altra.
I flussi gelati del Buiò e quelli bollenti dell’Ardo confluivano sotto gli archi granitici della struttura del ponte, antico quanto la Penumbria, generando il corso plumbeo del grande fiume Tenebro e i geyser verdastri che annebbiavano la sezione centrale.
Il rumore delle acque che copulavano in conflitto si intensificò come il tumultuare dei dubbi di Cinno. Ma non lo diede a mostrare, specie a quel cacariso grosso la metà di lui, e allungò il passo grondando una sicurezza da bullo.
Gaso aguzzò il volto e un saluto sotto l’ortica dei capelli fulvi. Lineamenti bombardati dalle zanzare e nutriti dalla fame lo facevano maggiore dei suoi anni, gli stessi del boscaiolo. D’altronde anche ai Pantani – una scacchiera di canali, selve e casoni tra Bubbogna e Feretro, dove a vincere erano solo anguisughe, garatti e pantecani – c’avevano i loro bravi cazzi da cagare, o Gaso mica avrebbe risposto al suo invito.
Appena fu a tiro, Cinno vide che il socio non era dietro a sbucciare una mela bensì a intagliare un tozzo di corteccia.
«’Azzo fai» lo interpellò, lisciandosi la peluria che spacciava per barba.
«Mi dò alla scultura» rispose Gaso, senza scollare il culo secco dal parapetto. Il temperino incideva una ruga frenetica nel cuore del materiale.
«Che merda. E cosa sarebbe?»
Gaso ruotò il capolavoro, due abbozzi di sfera e una crepa in mezzo. «La tua fàza.»
Cinno ci mise un po’ a capire che era un culo, poi gli strappò il legno dalle dita e lo scagliò oltre la campata. «Te un giorno o l’altro ne pigli tante che ti avanzano.»
«Com’è ‘sto ritardo?» smise di ridere Gaso, richiudendo il coltello. «Stavi pensando di darcela su, dì mò di no.»
«Ho dovuto pulire il bosco» grugnì Cinno, sentendo un tirotto alla coda di paglia. «Mica come te, che non combini mai un accidente.»
«Schivare la processione di Sant’Obitoria ti sembra poco?» Il tono di Gaso divenne cospiratorio. «Oh, fatti che bazza.» La manolesta andò in tasca e riportò la forma corta e arrugginita di una pistola.
«È carica?» sbalordì Cinno.
«Colpo in canna, plucamaroni.»
«Ma dove l’hai contrabbandata?»
«Un prestito di mio cugino. Potrebbe servirci.»
Il cugino di Gaso – che cugino manco lo era davvero – era il Poiana, uno dei più ignobili mattatori dei Pantani, e non avrebbe prestato una bestemmia a un condannato. Bel colpo però, pensò Cinno, impressionato.
La scoperta fu spezzata da uno schioccare di stivali.
«Imboscala» sibilò Cinno, e gli orizzonti di entrambi si ridussero alla strada che veniva da occidente. Visto il periodo, chiunque fosse sbucato di lì a breve era senz’altro più furbo aspettarlo tra i canneti che riceverlo allo scoperto. L’entroterra del feudo era una compostiera di fuorilegge e mezzespade, immischiati a reduci senza futuro e vandali occasionali. La sbirraglia ducale metteva il naso fuori mura solo in tempo di gabelle, o a sorteggiare i volontari per la via Cappia.
Cinno e Gaso erano entrambi a rischio di leva, e non percepirono la presenza in nero che sfumò dai vortici di vapore alle loro spalle finché non fu a una zaffata di passi.
Zomparono come grilli.
Un altro pellegrino.
Nient’altro che un cappuccio, un bastone e un tabarro. Borse di cuoio logoro incrociate sulla gobba.
Gli stivali merdi di morchia sembravano eludere le leggi del suono. L’odore, al contrario, colpì i sensi di Cinno e Gaso come una palla da mezzo pollice. Distanze, metalli, suppurazione. L’urlo di carne e spari, di andate senza un ritorno.
La presenza in nero rallentò le falcate. Il volto in seno al cappuccio era una dominante di occhi, neri come fosse e più freddi di un inverno in Pianura Pagana. Naso e mento coperti da bende.
Un impestato? In Penumbria i morbosi hanno l’obbligo di identificarsi con campanacci e corda gialla, pena la fornace, ma vaccelo mò a spiegare a lui qui.
L’orrendo sospetto alzò il panico di Cinno di una tacca, e gli abbassò la destra al manico dell’ascia.
«Manca ancora molto a Orbino?» gracchiò l’impestato con toni metallici.
I due soci deglutirono una bella dose di scaga tra i canneti e vomitarono un acuto: «No, ci sei quasi. Ma ti conviene fare tappa a Malconvento.»
Le feritoie nel cappuccio giocarono un apostrofo di scherno. Passò avanti in una landra di lazzaretto e sospiri di sollievo.
L’ovest intanto rivelò l’altro viandante, il padrone dei passi, un mezzo sigaro con dietro una faccia da pugnale. Inclinò il cappellaccio unto in un saluto di circostanza all’impestato che gli camminava d’incontro, indifferente alla cortesia.
Cinno e Gaso videro il morboso smarrirsi nell’ansa del bosco, in attesa del prossimo malanno.
Il cappellaccio, intanto, puntò i tacchi sui graniti secolari, covando un sorrisetto infido. «Vado bene per Crimini?» Accento bastardo come la varietà di fogge che ne drappeggiava la persona. Cappa maraglia, camicia lavorata, cintola irta di else. Muscolatura: dinoccolata. Molle d’acciaio pronte a fiondarsi.
«Supera il ponte e conserva la strada. Non sbagli» parlò Gaso, sul chi vive per non diventare chi muore. «Ti conviene passare per Feretro.»
Il mezzo sigaro soppesò di rimando la coppia di pezzenti. A esser franchi, manco loro la contavano liscia. «Non è che appena giro la schiena voialtri mi fate il culo?» si informò il caio. A sud del cappellaccio, acido per occhi e capelli dritti e lucidi come spaghetti.
«No» lo rassicurò Cinno. «Se prima non ci paghi. Il culo a gratis non lo raschio a nessuno.»
Il muso da forca profuse una risata rapace, che contagiò i compari. «Divertiamoci, finché siamo vivi» prese congedo l’estraneo, e avviò l’andatura elastica nelle vampe di nebbia. Dritto verso Crimini.
Cinno e Gaso, di nuovo soli sul ponte, si trovarono a specchiarsi in due muste da cretini.
«Che cazzo ridi?»
«Boh.»
«‘Scolta, cagariso, me mi son bella rotto i maroni: o si va, o sbrisga.»
«Han visto la pula che batteva i Pantani: rastrellano carne da mandare ai cannoni di Apocalemme. Verranno anche a Bubbogna, non si scappa.»
«Dunque?»
«Se ci spicciamo, non ci spacciano.»
«O le lame o la fame!»
«A tal dèg!»
Gli sguardi di Cinno e Gaso entrarono nell’isola di foglie che lambiva le rapide del Tenebro, contorsioni di ombre nel sipario spettrale dei vapori.
Benvenuti nel buco del culo del regno di Taglia.
Ultima valle. Selva Gualtieri, nazione penumbra.
La foresta dei dannati.
Poi, ci entrarono loro.
«Ma quant’è che non ci passa nessuno?» scancherò Cinno.
Il filo dell’accetta vibrava tra liane e sterpi.
«Son trascorsi dieci mezzautunni, stando ai vez.»
Gaso, campione di orientamento nei Pantani, faticava a orizzontarsi nel rigoglio della regione. «Boh. A me pare minimo cento.»
L’afa nel sottobosco era greve come il volo dei tafani. Muschi e ruscelli si mangiavano i sentieri. Piovre di radici falciavano il cammino, disastrando l’antico pavé che avviava al castello dei Gualtieri, i defunti signori di Penumbria. I laghetti da pesca, un tempo curati, erano gole insalubri brulicanti di gorgheggi sinistri.
«Guérda…» Cinno indicò un meandro di felci biancastre. Non erano fiori. Bozzoli: «Il nido di un corvoragno!»
«Baciamo le lame!» recitò Gaso, poi scatarrò per disprezzo. «I Malavita, giù a Crimini, non potevano adoperare araldica peggiore.»
«Quelli reali sono più piccoli, e parlano!»
Ma gli scavafaggi e i roditopi mummificati nei giri di tela lasciavano presagire un esemplare scarso alla favella, ma di robusto appetito e dimensioni.
Gaso impugnò l’artiglieria e si guardò intorno.
Corvoragno non attacca passante, specie se ha il carniere pieno. Ma in quello spicchio di Penumbria mai fidarsi dei detti. «Siamo in bolla. Se seguiamo i nidi, sbuchiamo sull’ultima valle prima della Maraglia.»
«E dopo la selva, iniziano le mura.»
Ripresero l’andazzo.
Il labirinto di rovi si complicò, l’ascia del boscaiolo amputava con più lena. Nelle pause di sereno tra le fronde basse, il sole di mezzestate mutava già le ombre.
«Dici che li hanno visti per davvero?» chiese Cinno, tirando il fiato.
«Che cosa?»
«Gli spiriti, il demone-bambino, la vilupera… Sveglia!»
Gaso aveva capito, ma non gli andava di rimestare troppo l’argomento. «Il cugino del Poiana, càl grand, intanava i suoi bottini in una grotta sull’Ardo, prima che la diga crollasse. Da lì, Castel Notturno era a due briscole di marcia.» Gaso umettò la voce, la selva proiettò oscurità più profonde. «Una sera si fa coraggio e va dentro a esplorare, più che altro per fare il grosso. Quando la notte torna ai casoni è più pallido del bianco degli occhi. Non mangiò né chiavò per un mese. Non disse mai cosa aveva visto, ma addosso c’aveva una strizza che si era scordato dietro il bottino. E giurò che se anche fosse stato il cappio d’oro dell’Appeso, lo avrebbe lasciato in clà grota a muffire inseculinculorum.»
«Cagati pure addosso.» Cinno indurì i bicipiti temprati, trasferendo sul compare le ubbie inespresse. «Me dèg che non ci sono né spiriti, né demoni-bambini, né vilupere, né fuochifatti, né gninta ad gninta. Anzi, no: spero che qualcosa si trova, per dire che ci siamo stati.»
«Quando un alveare del diavolo va a fuoco, la puzza di zolfo non si lava più» filosofò Gaso, e non era manco mestier suo. «’Scolta, plucamaroni: ho promesso di non dirlo, ma ai Pantani gli zingari cercano mozzi per le filibuste! Senti a me, lo buttiamo in culo alla pula e ci spariamo la stagione in Romagma, che magari tiriam su anche delle maraglie!»
«Socmel, socio, ma cos’hai nella testa? Uno di Bubbogna non pirata il Maladriatico.» Cinno svitò la fiaschetta che stivava nel tascone. «Se devo crepare voglio farlo sotto i miei alberi, non sotto quelli di una bagnarola criminese. Se proprio devo scegliere, poi, meglio i Lutti di Orbino che i Malavita di Crimini.»
«Vuoi andare a libro paga nella Colonna di Carnace?»
«Banda per banda, tanto vale arruolarsi coi dragoni di Manorba.»
Gaso soffiò, sdegnato. «Dragoni! Che arrandellano i puvràz, stuprano le vedove e rubano le galline ai Lutti: bella roba.»
«Per questo siamo qua.» Cinno cacciò un sorso, e gli passò il bevitoio. Il Vecchia Romagma puzzava di mosto rimesso. Gradazione penumbra. «I Fratelli hanno fatto tappa al villaggio, ieri l’altro. Ci hanno portato più coperte e salsicce del solito, tutta roba ciuffata tra Orbino e Crimini.»
«Fratelli di Taglia» sbuffò Gaso, arraffando l’acquavite.
«Si stanno organizzando, serio, e lo Straccione non le manda più a dire, né ai Lutti né ai Malavita. Che a giocare alla guerra santa ad Apocalemme ci vadano i figli dei signoroni, non noi dsgrazié, e i principi di Penumbria la piantino di spolparci per poi voltarsi in là quando la feccia scende a vuotarci i granai e riempirci le mogli.»
«Preciso, proprio» lo sbeffeggio Gaso.
«Montagna abbatteva le querce con noi, due inverni fa, e oggi fa da braccio destro allo Straccione!» Cinno si infervorò, un aquistrige protestò nel petto del bosco. «Mi ha detto che lo Straccione è un patriota, non un ladrone, e che ha bisogno di gioventù coi maroni per arbaltare le cose. Se gli diamo le prove che siamo entrati a Castel Notturno, fidati che Montagna ci mette una buona parola. È la volta buona che si diventa eroi. Fratelli di Taglia, vez, altro che mozzi e maraglie! Allora sì che si rimedia robina seria.»
Gaso manifestava scetticismo. Altro sorso di torcibudella, e guardò il sole declinare tra i rami. Se l’azzurro verniciava ancora lo zenit, nel cielo d’oriente il tramonto spingeva come un’ernia.
«Io indietro non ci torno brisa» lo ammonì Cinno. «Te la fai da solo, stavolta.»
Il socio occhiò il tunnel di foglie e di ombre sempre più oblunghe, e ripensò all’inquilino delle ragnatele che stava rincasando e a tutte le voci sugli spiriti dell’ultima valle o, peggio ancora, ai silenzi.
Dopo una terza botta di liquore il progetto del boscaiolo cominciò pian pianino a sorridergli. Alla fine della fiera il cugino del Poiana era un cacapalle, e con un po’ di culo due caccole renitenti alla leva come loro potevano farcela eccome, a uscirne in gloria da Selva Gualtieri.
Una famiglia di tartarunghie tagliò loro la strada, disturbata da tutto quel ciarlare, e trascinò carapaci e antenne nel foro di una pellicagna sventrata.
Non un buon segno, rimuginò Gaso, le pellicagne morte partorivano sfighe nere.
«Allora? Vuoi nasconderti anche te per sempre?» Cinno carpì l’attimo e anche la sua fiasca. «O diventare un eroe?»
«Ma smettila, plucamaroni: e sbrighiamoci a finire ‘sto bosco di merda.»
La selva alla fine si aprì davvero.
Castell Notturno, tomba della famiglia Gualtieri, ultima valle di Penumbria.
Dal poggio della radura, coronata di erbaspina, Cinno e Gaso trasferirono gli sguardi sulla demolizione.
Gli Appenninferi erano riverberi viola sul fianco di ponente.
Baluardo della natura contro i venti pestiferi della Pianura Pagana.
Una fuga di graniti sbrecciati tagliava l’orizzonte come le vertebre di un immane serpente.
La Grande Maraglia.
Baluardo della storia contro le orde mortifere della Pianura Pagana.
Natura e storia hanno in comune un dogma: niente dura in eterno.
Tranne la morte. E a volte nemmeno quella.
«È là che li hanno rinchiusi?» L’indice di Gaso esitò verso una struttura in proiezione dalla Grande Maraglia.
Verticale di pietre concentriche, alta venti uomini, merlature penumbre. Sopraffatta da evi di caos e intemperie.
«Sì» rispose Cinno in un mormorio. «Il Duca Conte Gualtieri e la sua famiglia. Gli inquisitori mandati dal Colle provarono che i corpi dei Gualtieri prendevano fuoco con una scintilla. Autocombustione naturale. Segno che avevano già l’inferno dentro. Allora, invece di metterli al rogo, li murarono nel torrione di guardia del castello, a crepare di fame.»
Sul fondale brullo della Pagana l’ultimo sole del giorno derideva il profilo della torre, sfaccettandone i contorni con luce dorata. Ma non era l’oro zecchino della gloria o dei re, piuttosto quel brillare falso che ravviva il sorriso di un cadavere.
«Tutto il resto però l’han bruciato» osservò Gaso, costernato.
Fulcri di combustione si disperdevano nel vuoto dell’ultima valle. Alla radura si opponeva una seconda selva, affascinante come un incubo. Alberi uccisi dai roghi si aggrovigliavano in un dedalo di candelabri neri, la cui uscita introduceva alle macerie incenerite del castello.
Il garbino strappò ai rami una sinfonia penosa, un ritornello di anime e metalli invisibili.
Cinno e Gaso furono costretti a scaldarsi di nuovo le budella prima di addentrarsi nel bosco morto. Infestanti artigliavano i lastrici dell’antico viale, cancellavano le tracce dei carri e della perduta nobiltà.
«’Sto suono fa salire la pelle d’oca» rabbrividì Gaso.
La pelle d’oca era roba da ridere, rispetto allo scago. Il sudore patinò di gelo la cute di Cinno. Quando trovarono il cuore di alzare la fronte, ne sottolinearono l’origine con uno strillo.
Scheletri, tra i platani bruciati.
Strozzati a tratti di catene, sbiancati dai corvoragni e dalle tempeste. Smerdati dagli aquistrige. Il vento della sera strisciava tra le gabbie di costole, flautava con le tibie penzolanti, traeva note incrinate dagli anelli di ferro.
L’inno della demolizione.
«Questi devono essere i servi.»
«Perché li avranno appesi così in alto?» si chiese Cinno, tastandosi i maroni e al contempo facendosi il segno della forca.
«Cazzo ne so» tremò la lingua di Gaso. «Forse credevano di ucciderli di più.»
Una folata acre giostrò un turbine di ceneri e di spine, e il giorno virante al lavagna rianimò i loro intenti.
Raggiunsero a passo di marcia le mura di cinta sbriciolate, pistola e ascia in pugno come vandali pronti all’assedio. Ma volontà ben più fiere delle loro avevano già tradotto quel capitolo di Penumbria in un cupo oltretomba.
Le feritoie li fissarono come orbite di teschi.
Pietre delle scolte: cremate. Sbarre avviluppate di edere cattive. Accessi svaniti. Un’asta di ruggine sorreggeva nessun vessillo.
Solo le torri del mastio si ergevano, spaccate dal fuoco e dal freddo, a estrema difesa contro il calare delle tenebre.
«Ora che ci siamo, plucamaroni» balbettò Gaso, ammirando sgomento la devastazione. «Devi dirmi cosa cazzo speravi di trovare.»
«Una prova del nostro passaggio. Del nostro coraggio.»
Gaso annuì. «Vuoi riempire la fiaschetta di cenere? O staccare un dente a uno degli incravattati?»
«Non coglionarmi, cagariso. Sarà pur avanzato qualcosa in ‘sto mortorio! Un brandello, un quarto di corazza, uno stemma di famiglia…»
«Boh, sì, ma indovv? Io vedo solo una mucchia di carbone.»
«Là dentro!» Cinno mostrò a Gaso una breccia tra le mura diroccate. Le rampicanti proliferavano ai margini come vermi su una ferita.
Oltre, colonne e ombre in agguato.
«Vuoi entrare nel castello?» Gaso guardò il crepuscolo che si rifletteva negli occhi del socio, e che rendeva tutto vano. «Tè tzi mat!»
«Riataccagna?» lo ricattò Cinno, accennando al viale di scheletri retrostante. Il garbino stormì la stessa strofa di tibie e catene.
Gaso mandò giù. Lo stomaco era ridotto a una noce.
Anche Cinno era bello pallido, e un brivido di paura gli mordeva il coccige. Sapeva che se fosse salito alla pancia si sarebbe cagato addosso. E non poteva succedere, non davanti a uno grosso la metà di lui. «Dentro, forza» disse. La risolutezza che impresse al tono suonò fasulla alle sue stesse orecchie, mentre profanavano le ombre di Castel Notturno.
Un’ombra più oscura e pesante si distaccò dalle altre, e prese a seguirli.
Mantelli di macerie.
Il tramonto di Penumbria snocciolava le prime stelle. Ali frullarono nella crociera delle colonne.
Aquistrige, ultimi guardiani di casa Gualtieri.
Gli ultimi guardiani di qualsiasi nulla.
Nessuno vedeva più una Vilupera da almeno una decade. C’era chi diceva che si erano estinte assieme ai loro padroni.
I passi di Cinno e Gaso interruppero il silenzio dei graniti defunti.
«Proviamo per di là.»
«’Spetta, và.»
Gaso sfregò sasso e acciarino, e accese il bastone di torcia che si era portato dietro. La fiamma rese la desolazione ancor più tetra. Archi bruciati si tendevano attraverso i vuoti delle strutture, erose in obliquo fino al cortile interno.
Qui Cinno soffocò un singulto. «Te lo dicevo, gnurant» bisbigliò su di giri.
L’intero perimetro era un campo concimato a strage. Un orto di ossa morte. Crani, mandibole, frantumi di pelvi costellavano le ceneri come zucche macabre, misti a tronchi di quadrupedi e al guano dei rapaci.
«San Sepolto! Una tomba non si nega nemmeno al più infame dei briganti» si segnò Gaso. Le suole produssero scricchiolii orripilanti nell’ossario.
«Le tombe sono per gli uomini…» Le pupille di Cinno rosseggiarono di esultanza. «Non per gli eretici.»
I garatti e i pantecani avevano cessato di banchettare con gli eretici di Castel Notturno già da un pezzo. Nessuna carne risparmiata. Ma avevano lasciato le reliquie.
Briciole di lame, schegge di pavesi, residui di armature riflettevano gli ultimi coriandoli di sole. Cinno si mosse nel cortile con la solerzia del raccoglitore, smanioso di collezionare i reperti più idonei.
«Vedi se raccatti un pugnale sano, o una patacca con le iniziali, qualcosa con sopra il simbolo dei…»
«Hai sentito?» scattò Gaso.
«Sì.» Cinno temperò i sensi eccitati dal saccheggio. «Cos’è stato, il vento?»
«No.»
Il suono ritornò, trascinato da un’eco priva di riferimenti. Squillante. Gutturale. Un agitarsi di sonagli nella cavità di un pozzo. Bestiale, decisamente.
«Va bene anche senza iniziali» si risolse Cinno, livido nell’alone della torcia. Rovistarono spediti tra le fuliggini.
Le ombre del castello scendevano così lunghe che senza il lume non si distingueva un filo bianco da uno nero. Il freddo serotino si faceva strada nelle ossa dei vivi, annodando i nervi di tensione.
Il verso misterioso vibrò di nuovo, più roco e vicino.
Gaso trasalì, ferendosi il palmo con l’aculeo di una calotta. «Diosboi» proclamò. Il teschio nell’elmo sembrava schernirlo. Gaso constatò il danno: dallo squarcio fluiva una riga scarlatta.
Il timbro trafelato di Cinno precedette le sue rimostranze. «Corri, fà prest.»
Gaso lo raggiunse ai piedi di un architrave mutilato, zona nord del cortile. Uno sfacelo di travi, franate dai roghi, faceva da presepio a due tumuli. L’argilla al cospetto dei tumuli appariva sgombra di detriti e di relitti umani e ferrosi, con le montagnole in rilievo di due fosse scavate e poi ricoperte.
«Non ti sembrano… Lapidi?» tartagliò Cinno, agghiacciato dalla serie di orme che partivano e venivano a quel rozzo complesso funebre.
Orme fresche.
«Boh, sì» ammise Gaso, inghiottendo la paura e il bruciore del taglio. «Ma chi può aver seppellito due eretici?»
La traiettoria dei loro sguardi catturò un punto luce nell’oscurità dilatata dai tumuli. Cinno si piegò per primo.
Una reliquia ovale, grande un occhio di girasole. Oro lavorato. Incisione di gioielleria sopraffina.
«Cos’è?»
Gaso esaminò al barlume della torcia le linee in effigie all’amuleto: una suggestione inquietante di fauci e code e artigli in un corpo metà rettile e metà canide.
«La vilupera dei Gualtieri.»
«Un soqualche simbolo araldico?»
Gaso annuì. «Roba da stemma di famiglia, roba da nobili pluccamaroni… Leggi mo’ qui.»
A fatica, Cinno decifrò il motto inciso sopra la bestia. «Mai vinti, mai estinti!»
«Come no» derise Gaso.
«Non l’avevo mai vista una vilupera, mette scaga.»
«Se riportiamo indietro ‘sto robo qui i Fratelli di Taglia ci fanno una statua.»
«Oh, si apre!» Cinno armeggiò con il reperto, e lo dissigillò come una cappasanta.
Lo spettro della fiamma illuminò una coppia di ritratti a olio, serbati nella gelosia del gioiello. Miniature di volti sbiaditi dal tempo e crepati dagli elementi, ma ancora riconoscibili. Due bambini, maschio e femmina. Tratti alteri, ciocche brune, la stessa età e una fermezza quasi adulta arcuate dal cipiglio. Due gocce d’acqua.
E di sangue.
«Sono i gemelli!» fiatò Cinno.
«Gli eredi del Duca Conte?» Gaso guardò i tumuli e la terra smossa, e un bolo acido gli ostruì la groppa insieme al ricordo del cugino di Poiana e le ossa nella selva.
«Fatti che cartole da scomunica: loro qui sono i figli di Rofocale, altro che duca!» Cinno, nel buio delle rovine, si pentì subito di aver sillabato quel nome demoniaco.
«Ma Gualtieri non ne aveva tre, di figli?»
«No. La moglie stava per sfornare il terzo, ma la notte della strage di mezzautunno, sotto ordine degli inquisitori, gli sgherri dei Malavita e dei Lutti li han chiusi tutti nella Torre.»
«No…» si sdegnò Gaso. «La duchessa l’han chiusa nella torre ancora pregna?»
Il fascio di luce abbandonò i ritratti dentro la reliquia d’oro.
«Ohi ben!» insistette Cinno. «Pregna del terzo genito.» Poi vide l’espressione del socio e il terrore gli arrivò ai visceri.
Ombre ringhiarono. Sibilarono.
Il suono dall’eco indefinita adesso aveva una direzione.
La catasta di travi cigolò sotto il peso di una mole sinuosa e lo sfolgorio di quattro iridi viscide. Un paio di teste zannute dondolarono in archi ipnotici, rapendo gli intrusi in una trama diabolica. Le tenebre che eludevano la torcia incubarono sprazzi di squame e setole bianche e lunghe propaggini artigliate.
I due musi spaziarono tra i tumuli gemelli, e stridettero di nuovo. Sibilanti, gutturali.
Annunci del più ancestrale timore di un individuo senziente: quello di essere mangiati.
Vivi.
«Spara, Gaso!» gracchiò Cinno. L’imperativo ebbe effetto.
La mano tagliata di Gaso corse al ferro e puntò.
Gli olfatti della bestia fiutarono il sangue. Una zampata d’ombre gli rubò la torcia, che morì nella polvere.
La pistola di contrabbando abbaiò alla cieca.
Nel lampo dello sparo Cinno scorse arti da lupo e caverne di denti da rettile. La faccia e l’urlo di Gaso scomparvero in una fauce, l’altra schioccò su di lui.
Cinno si ritrasse dal morso sbattendo il culo sui detriti. Sentì il suono di crotalo grugnire nel buio, poi un male cane gli esplose nel polpaccio.
Canini lunghi come serramanici.
La testa a guglia frinì, e rinsaldò la stretta.
Era la stessa bestia bicefala incisa nel ciondolo. Cinno si cagò addosso, ma tra male e merda fu in grado di strappare l’ascia dall’astuccio e sferrarla sul grugno di squame della vilupera. Il filo incise e lacerò, la bocca gli restituì la gamba con un latrato. Anche l’altra testa si scollò dalla preda e soffiò sullo spuntino riottoso. Tutte e due presero a ondulare nel vuoto sui colli da avvoltoio, grondando fetore dalla rosa di zanne, pronte a richiudersi.
Cinno annaspò tra le ossa e cercò Gaso, sdraiato accanto alle tombe. Fronte sbragata fino al mento in un ragù di sangue, nero nel crepuscolo. Per un turpe istante Cinno si ricordò del cioppo di noce intagliato a forma di culo, e capì di essere all’inferno.
L’occhio sbarrato di Gaso, pieno di morte e orrore, biancheggiò su di lui.
Perdonami, fratello, lacrimò nella mente. Poi Cinno si alzò d’istinto e taglio la corda.
Manco si accorse di aver perso la scure e il berretto, oltre al socio. Gli sembrava di calciare un macigno ogni passo, e dovette rallentare. Fitta lancinante. Guardò giù: i buchi dei canini della vilupera avevano gonfiato la carne del polpaccio come un cotechino.
Dalle ombre giunsero i suoni croccanti del banchetto della Bestia. Cinno rivide la faccia macinata di Gaso, e vomitò il Vecchia Romagma e gli ultimi avanzi di coraggio.
Un freddo cosmico gli salì la coscia e si abbarbicò ai maroni. Il bagnato del sangue e della sciolta, Cinno temette di svenire.
Un intervallo nero, poi il suo scheletro sarebbe stato briciole sotto il tacco dei prossimi predatori di Castel Notturno.
Predatori, o prede.
Il sibilo immondo della Bestia riscosse Cinno.
Al margine del cortile vide la strettoia da cui erano entrati, una salute mentale fa. Cinno strascicò la gamba avvelenata verso la breccia.
Movimento nero.
Le pietre produssero un’ombra umana.
Non era un fantasma, c’era davvero qualcuno.
Fratelli di Taglia!
Il cuore impazzito di Cinno pompò speranza e veleno. L’ombra si fece maiuscola, torreggiò nella demolizione.
Cinno collassò ai piedi dell’ombra. «A’uto… ‘a ‘upera… Be’tia… ‘i u’cide…» La lingua gli si era gonfiata come il polpaccio. Sollevò il mento, tra gli spasmi, e vide: la bestia non era alle sue spalle.
Ce l’aveva di fronte.
Anatomia brutale. Nuda. Imponente. Calli e muscoli ovunque, nodosi come gomene, ma nessuno nella forma voluta dal disegno divino. Le sole parti sottodimensionate di quel corpo ipertrofico erano il cazzo e il volto.
Ambedue di neonato.
Il demone bambino.
Il volto da infante in penombra caricò un sorriso demente. Labbra a cuore, da putto. Denti gettati a caso su gengive color verme.
«A’uto» articolò Cinno. Chissà come, aveva perso tutto ma impugnava ancora la reliquia dei tumuli.
Fuochi nel volto in penombra, uno ciclopico e uno strabico, pulsarono sul bagliore dell’oro.
Cinno malintese e traballò la mano, in offerta.
I fuochi, vuoti di umanità, si accesero di furia. Il bruto avanzò su braccia scimmiesche che toccavano terra, lo afferrò per il torace, lo alzò da terra e gli staccò il naso con un boccone. Cinno spugnò un gorgoglio di dolore e mollò il monile. Un pugno fatto di unghie e nocche gli uccellò il bulbo, e sospinse la fronte di Cinno contro un residuo di fontana. Il duro del marmo gli tagliò la pelle, fracassò il teschio e scoreggiò il contenuto a destra e manca.
Intervallo di nero.
Il pugno deforme continuò a sbatacchiare fin quando non restò niente a cui aggrapparsi. Il corpo acefalo scivolò tra i rifiuti silenziosi del cortile.
Ossa per i futuri predatori di Castel Notturno.
O prede.
La furia defluì dalle orbite del bruto. Inghiottì le cartilagini maciullate e si acciambellò in adorazione sulla reliquia dei Gualtieri, come un fanciullo sul balocco più caro.
Unghie intrise di ciocche e cervella lo schiusero con amorevolezza: i ritratti stinti rivissero nell’ultimo raggio di mezzestate, e un sorriso deforme popolò la faccia da neonato.
Una testa irta di canini sibilò.
Artigli rasparono tra i grumi di strage.
Uno dei colli tortuosi della vilupera schierò una falce di zanne, rosse di carne. Poi si infilò tra le gambe nude e abnormi del bruto, accucciate sull’ossario, e produsse lunghe fusa vibranti.
Il pugno di nocche del troglodita ne percorse i segmenti squamati e grattò la linea ispida delle orecchie canine. Il muso ferito della vilupera uggiolò un mugolio flebile, in cerca di affetto. Il volto da bambino lo cercò con un bacio bavoso, l’altra mano posò la reliquia e si stiracchiò il cazzetto.
Lingue guizzarono, bestiali. Gli avanzi di Cinno e Gaso si salutarono per l’ultima volta nei loro palati.
Un aquistrige gridò, tra le rovine dell’ultima valle. Un corvoragno lasciò il nido per predare qualche nuova carcassa.
I mostri di castel Notturno si aggomitolarono in un raschiare di spire e gemiti, mentre la notte di Penumbria uniformava le ombre dei vivi e dei morti.