I racconti di Satrampa Zeiros – “La Pergamena Bizantina” di Francesco Lacava

Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare nuovamente Francesco Lacava, che ci propone “La Pergamena Bizantina”, racconto di sword and sorcery mediterraneo, di circa 19.000 battute.

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Autore

Francesco Lacava nasce a Taranto il 6 Gennaio 1981. Laureato in Scienze Politiche e Antropologia, è un appassionato lettore e narratore, scrive fin da giovanissimo.

Partecipa a diversi concorsi letterari ottenendo risultati in ognuno di essi, spaziando dall’horror, alla fantascienza e la narrativa.

Collabora con la rivista online Callmeishmael.net e con Nocturno in qualità di Freelancer.


La Pergamena Bizantina

di Francesco Lacava

 

I

«Dammi la pergamena!» ordinò l’uomo con la mano tesa.

Indossava un caftano grigio dalle maniche ampie e strette ai polsi. Era completamente calvo, dai lineamenti spigolosi e due occhi neri, scintillanti come onici.

«Dov’è il Monaco? Aspettavo lui: tu chi sei?» la voce di Diegensis era nervosa, si fiutavano ansia e paura.

Non stava andando esattamente come si aspettava: l’uomo che aveva davanti, non era lo stesso con cui aveva preso accordi giorni prima.

«Lascia perdere il Monaco, ragazzo. Consegnami la pergamena e va’ via» insisté il calvo.

Parlava in greco, ma con un forte accento straniero. La pelle olivastra faceva pensare ad un uomo del sud, stessa cosa per gli abiti che aveva indosso. Ma Bisanzio era immensa, le razze innumerevoli e mischiate tra loro e una faccia come quella non aveva nulla di singolare; capire da dove veniva era pressoché improbabile.

«Avevamo un patto io e il Monaco. La pergamena in cambio di dieci solidi e un passaggio per Roma e io non me ne andrò senza» rispose il ragazzo.

Diegensis sembrò deciso questa volta, non aveva messo a repentaglio la sua vita e la sua reputazione alla Biblioteca per niente.

Il calvo socchiuse gli occhi e scosse la testa, inaspettatamente spiccò un salto in direzione del ragazzo che riuscì a scansarsi in tempo, ma andando a sbattere sul muro del vicolo. Avvertì un bruciore al braccio sinistro: c’era del sangue che gocciolava da una ferita: tre lunghi e profondi graffi che avevano stracciato la veste da scolaro.

L’uomo calvo era accanto a lui e lo sovrastava e il suo volto adesso era mutato.

Gli occhi erano diventati quelli di un predatore, e anche la conformazione del volto, sembrava assomigliare a quello di un felino: occhi gialli e obliqui, naso piccolo e rientrato e una bocca larga piena di zanne. Le mani avevano lunghi artigli pronti a ghermire.

La sinistra scattò in avanti e afferrò Diegensis al collo sollevandolo mettendolo con le spalle alla parete.

Ci fu un sibilo che fendette l’aria, seguito dal guaito di dolore del calvo, colpito da qualcosa al petto.

Un’ombra scura calò davanti a Diegensis, frapponendosi fra lui e la bestia che giaceva immobile qualche metro più avanti.

La figura sguainò una daga e parlò senza voltarsi, tenendo d’occhio il calvo: «Ce la fai a muoverti?» chiese.

Ma Diegensis non sembrava averlo ascoltato, tanto era terrorizzato. L’uomo allora lo sollevò di peso facendosi guardare negli occhi: «Guarda me, ragazzo! Mi riconosci?» la voce perentoria dell’uomo parve sciogliere la mente del giovane, riportandola alla ragione.

 «Il Monaco!» balbettò il giovane.

 

II

 

Diegensis beveva del Malvasia del Peloponneso per riprendersi dall’esperienza. Tremava seduto su una panca di legno, lo sguardo fisso nel vuoto. Il Monaco in piedi accanto a lui, con le braccia conserte aspettava. Era un uomo di venticinque anni, robusto e alto; aveva uno naso camuso e una barba scura.

Poco dopo da una porta a lato entrò un secondo monaco, con un saio di un ordine minore, portando tra le mani il cilindro contenente la pergamena.

Aveva uno sguardo perplesso: «E’ un testo persiano, molto singolare. Non conosco molto bene la lingua, ma le incisioni ricordano i processi di mummificazione egiziani» consegnò il cilindro al Monaco.

«Questo lo avevo notato anche io, Dimitrios. Ma è Lei

Dimitrios sospirò: «E’ probabile. Il contenuto sembra essere quello. Un procedimento alchemico, apparentemente volto alla mummificazione. Ma la lingua in cui è scritto sembra essere quasi una traduzione di un idioma diverso. Ci sono termini e concetti che io stesso non riesco a decifrare» si guardò intorno e sussurrò: «E’ Negromanzia, fratello Vittorio. Chi vi ha chiesto di trovare questo testo dovrebbe essere tenuto d’occhio. Io non voglio conoscere oltre. Sono uno studioso di medicina, ma prima di tutto sono un Servo di Dio!»

Dimitrios aveva paura, non poteva essere biasimato.

Vittorio annuì: «Hai ragione, Dimitrios. Hai fatto abbastanza. Tornerò a Galata questa notte stessa e poi ripartirò per l’Italia il prima possibile. Riceverai quanto pattuito. Addio!»

«E lui?» chiese Dimitrios, indicando Diegensis.

«Lascialo riposare e domattina sarà in grado di andarsene con le sue gambe» tagliò corto Vittorio.

 

III

Frate Vittorio Cantolmi era un cacciatore di reliquie per conto dei Michaeliti. Un ordine antico composto da mistici e guerrieri, che sotto l’egida del Capitano, combatteva in silenzio una personale battaglia contro le Forze del Male.

La faccenda della pergamena era cominciata quasi due mesi prima, quando a Roma era stato ritrovato il corpo di un libraio un ebreo, uno dei contatti dell’ordine, di ritorno da Bisanzio.

Era stato lui a parlare della pergamena bizantina, come di un testo alchemico antico, contenente una ricetta di elisir di lunga vita. Aveva riferito anche dove l’aveva letta: un Monastero nella città di Bisanzio, sede di una Scuola di Medicina: la Chiesa del Cristo Pancreatore.

Vittorio era in città da un mese, e aveva avuto il tempo di studiare e conoscere il luogo e la gente.

La cacofonia dell’Impero Bizantino, con le sue contraddizioni e i suoi splendori, però non erano al pari di Roma e Vittorio non vedeva l’ora di tornare a casa.

Il monastero di Cristo Pancreatore era un edificio enorme e antico, entrare dentro era facile, ma muoversi era tutt’altra cosa. Le zone riservate ai fedeli erano solo quelle della chiesa e del Mausoleo, mentre le aree dei monaci, con annesse biblioteche erano interdette.

Diegensis era stato un dono del cielo.

Il giovane apprendista bibliotecario, smanioso di fuggire da una realtà opprimente, si era lasciato carezzare dall’interesse e dalle domande di Vittorio, restando alla fine incantato dalle sue promesse.

C’era stato però un piccolo contrattempo, il gruppo di mutaforma che lui non aveva previsto.

Anche loro erano a caccia della pergamena, ed erano tenaci. Vittorio non sapeva chi fossero, vestivano tutti alla stessa maniera, erano calvi e potevano mutare il loro corpo; questo bastava a renderli pericolosi e quindi soggetti da eliminare.

Adesso però che aveva la pergamena, le cose erano cambiate.

Poteva tornare a Roma con la prima galera disponibile.

Era calata la sera, umida e fumosa e Vittorio aveva raggiunto la metà del ponte che collega Bisanzio a Galata, quando i suoi pensieri vennero disturbati da un movimento alle sue spalle.

Slacciò la spada e la estrasse immediatamente, pronto allo scontro.

A pochi metri dietro di lui, c’era un ennesimo calvo che lo guardava immobile circondato dal vapore dell’acqua sottostante.

«Mi avete stancato sudici abomini!» sibilò Vittorio.

Fece un passo in avanti, ma venne colpito alle spalle cadendo carponi e perdendo la presa sulla spada.

Un secondo calvo era spuntato alle sue spalle, dal bordo del ponte e lui non lo aveva sentito.

Silenzioso come un felino e altrettanto letale, l’uomo era riuscito a prenderlo di sorpresa, ora era pronto ad attaccare con artigli che spuntavano dalle dita delle mani.

Vittorio si rese conto che raggiungere la spada era impossibile, gli restava pur sempre la daga che era nel fodero.

Lanciò un’occhiata veloce al calvo all’imbocco del ponte che camminava verso di lui, a breve gli sarebbe stato addosso.

Decise così di concentrarsi sul più vicino. Restando accucciato fintò di lato, ben conscio che qualunque movimento avrebbe significato essere attaccato: ma lui aspettava esattamente quello.

Il calvo allungò il braccio destro cercando di graffiarlo dal basso verso l’alto, ma senza riuscirci. Il secondo attacco invece, caricato di lato, lo portò a distanza ravvicinata, gli artigli affondarono nel fianco di Vittorio, lacerando la veste.

Cantolmi attese di essere a contatto per piantargli la daga nella gola. La lama scintillante entrò dal mento spuntando dalla parte opposta. Il Calvo si irrigidì all’istante gorgogliando, con gli occhi incrociati che guardavano su, un rivolo di sangue che colava dalla narice, poi cadde per terra.

L’altro invece accelerò il passo, la sua mano destra si allungò fino a diventare una lama affilata che calò su Vittorio, con una forza tale che il Michaelita riuscì a stento a sostenere.

Dal gomito in giù il braccio del calvo era una lama di acciaio vero e lucente

Vittorio cercò di bilanciare la forza del colpo, ma si accorse che anche la seconda mano del calvo iniziava a mutare. Assestò una brutale ginocchiata all’inguine del calvo che accusò allentando la presa.

«Ehi voi!» urlò una voce in direzione del quartiere di Galata.

Due guardie armate si avvicinavano reggendo torce accese, il loro fracasso metallico riecheggiava nel Corno d’Oro come campane a festa.

Vittorio guardò il calvo con un sorriso beffardo in volto puntandogli la daga: «Arrendetevi!».

In tutta risposta il calvo si lanciò verso il bordo del ponte lanciandosi nel buio sotto il ponte.

Il Michaelita rimase silenzioso e atterrito, con il fiato ancora corto.

Le guardie giunsero poco dopo, una delle due puntò la lancia verso Vittorio: «Duellare di notte sul ponte è tra le cose punibili col carcere, sapete? Gettate l’arma!»

«Mi chiamo frate Vittorio Cantolmi, sono ospite di Antonio Zorzi a Galata e sono stato aggredito», rispose lui, rinfoderando la daga in tutta tranquillità.

 

IV

 

Nella camera circolare vi era una scrivania colma di carte e pergamene in un lato, poco più in là un grosso letto a baldacchino.

Al centro tra queste due alee, assiso su un sedile dorato, sedeva Papa Gregorio XXII.

Era un uomo forte e tenace, nonostante avesse superato i cinquant’anni. Una folta barba ben curata di colore bianco gli correva lungo il volto affilato e due baffi dello stesso colore gli nascondevano le labbra. Indossava la casula rossa e il palio bianco, simboli di rango e di potere e accanto il suo segretario personale.

Sedeva altero nel suo scranno dentro lo studio del Palazzo dei Papi a Viterbo, fatto ampliare da lui come sede di corte e di svago.

Vittorio mise un ginocchio per terra e chinò il capo dinanzi al Papa.

«Alzatevi fratello Cantolmi» lo incitò l’uomo.

Aveva un accento ispanico duro, difficile da perdere.

«Ci rende felici vedervi in buona salute. Tuttavia, ci rammarica della disavventura occorsa a Bisanzio. Zorzi ci ha messi al corrente immediatamente di quanto accaduto»

«È andata meglio di quanto sperassi, vostra Santità. Vi ringrazio per la premura, Iddio ha vegliato sui miei passi»

«Avete portato con voi la pergamena?»

Vittorio annuì.

Quasi richiamato silenziosamente, un uomo entrò dalla porta alle spalle del papa, che nascosta da un pesante drappo, era impossibile da vedere.

Era un giovane uomo vestito con la tonaca da Archiatra, il medico personale di Sua Santità. Radi capelli biondi, occhi scuri e un lieve sorriso.

A Vittorio quel volto ricordava qualcuno nella sua semplicità.

«Consegnatemi la pergamena, fratello Cantolmi.» allungò la mano verso di lui.

La voce riportò immediatamente alla mente di Vittorio il mutaforma, il pelato.

Tutto attorno parve perdere senso. Frate Cantolmi avvertì quasi i pezzi della realtà andare in frantumi, schegge di sospetti; dubbi e certezze si sparsero nella sua mente, come stelle in un vuoto cosmico. L’istinto da guerriero però fu abbastanza forte da riportarlo momentaneamente al momento in cui si trovava, la realtà dell’attimo.

Si guardò attorno per studiare l’ambiente circostante.

Portare armi al cospetto del papa era proibito, ma quella stanza era piena di ipotetiche armi e cosa più importante erano in uno spazio chiuso, un ambiente a lui favorevole.

Era ancora con un ginocchio per terra, provò a muoversi verso il letto alla loro destra, ma l’Archiatra fu più veloce, la mano già protesa in avanti, scattò come una serpe sulla spalla di Cantolmi.

Una presa micidiale, che stringeva una parte del corpo causando dolore e immobilizzandolo.

«Sua Santità immaginava che sareste stato restio. Egli vuole dirvi qualche parola, prima. Ascoltatelo!» sibilò l’uomo con un tono minaccioso.

«Fratello Vittorio, immagino vi starete chiedendo il perché di tutto questo», cominciò il Santo Padre con una tranquillità calcolata.

«Noi sappiamo a chi appartenete» proseguì il papa.

«Appartengo a Dio. Soltanto a Lui.» rispose a denti stretti Vittorio. La presa sulla spalla restava forte e salda, il dolore si era sparso lungo tutto il braccio e più provava a muoversi e più sembrava peggiorare la situazione.

«Priscus, lascia andare fratello Vittorio. Sono sicuro che non avrà intenzione di fare alcunché. Almeno per il momento»

Obbediente l’uomo lasciò la presa e Vittorio si mise in piedi, massaggiandosi la spalla.

«Adesso ascoltatemi bene, Cantolmi. Qui dentro avete poche possibilità di uscire vivo. Posso far arrivare guardie armate mentre Priscus vi tiene immobilizzato. Non vi conviene reagire. Dovreste scegliere più coscienziosamente la parte che servite»

«Tuttavia la pergamena è stata trovata!» aggiunse Vittorio.

Il papa sorrise: «Esattamente. Voi siete riuscito laddove i miei agenti hanno fallito. Nonostante loro sapessero cosa cercare. Voi siete stato per noi una Rivelazione, Cantolmi. Ma stiamo divagando. Vorremmo parlarvi dell’Uomo Mellificato.  Ne avete mai sentito parlare?»

Vittorio scosse la testa.

 Il papa sorrise con compassione: «No, certo. E perché dovreste? Si tratta di una antica tecnica di imbalsamazione che si fa risalire ai Faraoni e alle genti del Catai. È un procedimento alchemico atto alla creazione di una Panacea Universale»

«È negromanzia! Voi avete giurato di servire Dio, non Mammone!» sibilò Cantolmi a denti stretti.

Papa Gregorio allargò le braccia sorridendo: «Sono un sapiente anzitutto. I miei studi sono ricercati e apprezzati, ma non basta. Per raggiungere la fama di Galeno e Ippocrate, serve qualcosa di strabiliante e potente. Qualcosa che mi faccia ricordare aeternum. Immaginate un mondo privo di malattie e pestilenze, dominato da una speranza e da una immortalità calcolata e centellinata attraverso la Parola di Dio!»

«Perché avete usato me? Non bastavano questi abomini con la loro blasfema abilità?» Vittorio fece cenno con la testa verso l’Archiatra.

«Priscus è un homunculus. Creato da Noi attraverso complicati procedimenti alchemici. Esegue ordini, ma non è in grado di pensare autonomamente. Voi invece, fratello Cantolmi, siete quello di cui avevamo bisogno. Un astuto e versatile uomo che mischia ragione e azione».

Vittorio fremette.

«La prima parte del rituale per la creazione dell’Uomo Mellificato, è la selezione del soggetto. Voi non siete stato scelto per essere il primo. Abbiamo schiere di volontari pronti ad offrirsi. Sarà però un rituale lungo, forse io stesso non ne vedrò la fine. Le stelle hanno vaticinato che non arriverò alla fine del 1278, ma la mia Grande Opera continuerà anche senza di me e sarà quella la mia vittoria sulla Morte», negli occhi dell’uomo c’era il fuoco della passione e della mistica convinzione di agire per un bene superiore.

«Con tutto il rispetto, Santità: voi siete pazzo!» esclamò Vittorio, poi fece uno scatto indietro e Priscus si mosse a intercettare i suoi movimenti.

Cantolmi non attese altro: quando l’Homunculus cercò di afferrarlo con le grosse mani, lui si chinò in avanti colpendo con la gamba tesa, quella del suo assalitore, che trovandosi in bilico cadde per terra.

Vittorio afferrò il grosso leggio che aveva accanto e lo calò con entrambe le mani sulla testa del calvo una; due tre volte, fino a che il suono di ossa frantumate, non sancì la fine. Una sostanza rosa e viscosa zampillò dal cranio fracassato, colpendo Cantolmi in faccia; dopo essere scosso da spasimi, il corpo giacque immobile.

Il Papa non sembrò sconvolto da quella scena, restò fermo sullo scranno a fissare davanti impassibile, poi disse: «Adesso che vi siete sfogato, possiamo continuare. Voi mi servite, Cantolmi, siete un abile cacciatore. Il rituale dell’Uomo Mellificato richiede ingredienti e oggetti specifici e voi sarete in grado di trovarmeli tutti!»

Vittorio si asciugò la sostanza col dorso della mano, rantolava per il combattimento e in quella stanza faceva molto caldo.

Nel frattempo, la porta si aprì ed entrarono altri due homunculus, esattamente identici a Priscus. Si misero ai lati del papa guardando Vittorio con una espressione vacua.

«Siete provato, fratello Cantolmi. Avete visto e sentito cose strabilianti. Vi chiedo di pregare e di meditare sulle mie parole. Siete dispensato per adesso. Vi attenderò domani mattina per una risposta».

Vittorio inarcò un sopracciglio stupito, come era possibile che lo lasciasse andare, dopo tutto quello che sapeva?

Come a capire il suo pensiero papa Gregorio aggiunse nello stesso tono: «Ovviamente abbiamo vostra sorella Lucrezia nostra ospite e la terremo fino a domattina, incolume e protetta»

Vittorio sbarrò gli occhi. Strinse i pugni sull’asta del leggio che ancora teneva saldo tra le mani: avrebbe potuto scagliarsi sul vecchio e colpirlo in faccia, ma i due homunculus gli sarebbero stati addosso.

Avevano preso sua sorella Lucrezia come ostaggio, questo bastava per lui a desiderare la morte di ognuno di loro.

Lasciò cadere l’arma improvvisata e abbassò remissivo la testa.

Il papa sorrise: «Molto bene, Cantolmi. Siete un uomo ragionevole» gli disse porgendogli la mano con l’anello da baciare: «A domani».

 

V

Il fracasso fu tale che l’intera piazza venne svegliata.

Mentre la campana suonava nella notte e torce accese correvano frenetiche da una strada all’altra, una folla di curiosi era assiepata ad osservare tutto quello che accadeva: «È il papa», mormoravano. «Il tetto dello studio gli è crollato addosso mentre dormiva».

«Dicono sia morto!» aggiungevano altri, segnandosi subito dopo.

Un’ombra ammantata si staccò dalla folla silenziosamente, dirigendosi verso la parte opposta della tragedia, attraverso una serie di strade piccole e buie odorose di urina e rifiuti accumulati. Sbucò poi in un piccolo spiazzo circondato da alte mura delle abitazioni; oltre c’era una carrozza scura ad attenderlo.

Quando fu vicino, la portiera venne aperta e l’ombra salì a bordo.

Una volta dentro, l’ombra abbassò il cappuccio.

«Ben trovato, fratello Cantolmi» salutò un uomo seduto davanti.

Indossava il saio bianco dei Michaeliti.

«Ecco la pergamena» rispose grave lui. «Sua Santità è rimasto sotto le macerie, dicono sia morto, io vi posso confermare che è ancora vivo»

Il monaco prese il cilindro nascondendolo tra le maniche del suo abito e sorrise compiaciuto: «Deo gratias! È tempo di tornare a Roma e preparare il nuovo concistoro. Non credo che Sua Santità sopravviverà a lungo».

«Mia sorella?» chiese ansioso Vittorio.

«È stata liberata ed è già in viaggio. Era tenuta presso il Convento delle Figlie della Misericordia, non è stato difficile portarla via. Avete svolto un ottimo lavoro, fratello Cantolmi. Come sempre».

L’uomo bussò alla parete della carrozza che subito dopo partì con uno scossone, allontanandosi da Viterbo, mentre le campane mandavano ancora il loro allarme.

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