I racconti di Satrampa Zeiros – “Segreti del deserto” di Andrea Guido Silvi

Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare nuovamente Andrea Guido Silvi, che ci propone “Segreti del deserto”, racconto di fantasy di circa 26.000 battute.

Qui, trovate gli altri racconti dell’Autore, pubblicati su Hyperborea:

Buona lettura.


Autore

Classe 1981, sono nato a Rieti, dove il verde non manca e si respira ancora un po’ di magia tra boschi, laghi e santuari. Ho sempre viaggiato molto, sin da ragazzo, alla ricerca dell’incanto di paesaggi diversi ed ho continuato a viaggiare per studio (ho studiato in tre continenti), per lavoro e per passione (amo il trekking e la vita all’aperto). Nelle descrizioni delle mie ambientazioni, fantasy e non, c’è infatti poco d’inventato, perché non c’è nulla da aggiungere, se non la giusta storia, alla bellezza del grande nord o delle creste vulcaniche d’isole quasi incontaminate. La magia che non ho potuto vivere direttamente l’ho cercata nella lettura, e ho chiari numi cui ispirarmi: H.P. Lovecraft, E.A. Poe, E. Salgari, C.A. Smith, J.R.R. Tolkien. A questi s’accompagnano tanti altri che, anche con un solo racconto, mi hanno fatto dono di esperienze irripetibili (come King, Chambers, Howard…).

Come scrittore ho un’unica ambizione: mettere davanti agli occhi del lettore il mio mondo, trascinarlo al suo interno e coinvolgerlo. Questo non solo per fargli dimenticare il suo mondo per qualche ora, ma per consentirgli di vivere avventure, sfide, contesti morali e punti di vista diversi con cui confrontarsi. È questo il motivo per cui, a mio avviso, si scrive ancora oggi fantasy con draghi, cavalieri e castelli nella nebbia: la promessa di un mondo onirico, diverso e distante dal giornaliero, predispone al meglio la mente del lettore a regole per lui inusuali o aliene, consentendogli esperienze uniche che si aggiungono al suo bagaglio in maniera del tutto simile a quelle del suo vissuto ordinario.

Bocconiano, nel mio vissuto ordinario lavoro a Roma, dove mi occupo con soddisfazione di marketing per una delle principali compagnie assicurative in Italia, creando prodotti d’investimento destinati alla distribuzione bancaria.


Segreti del deserto

di Andrea Guido Silvi

 

Berdor dell’Est, savana della Terra Morente e distese desertiche del Mare delle Dune di Yuk. Dal 2° al 6° giorno di Arrivo dell’anno 757 dal Mare Ritirato.

 

Le stelle già dal tramonto affollavano il cielo indicando la via ai due viandanti, mentre i loro cammelli avanzavano nella savana che sfumava i suoi colori dall’giallo all’ocra e al viola; procedevano in silenzio tra l’erba rada e secca, tra arbusti spinosi che soffrivano la sete e scheletri d’alberi già morti. I due Uomini nascondevano i loro stracci luridi sotto mantelli di seta arancio, e avevano visi sporchi, con gli occhi neri spauriti e i capelli sudati attaccati alle fronti. Stanchi dopo dieci giorni di fuga, Olwe e Alareth, fratelli di sangue, erano scappati da Huradrein, braccati prima dai gendarmi della città e poi dai soldati del Principato.

Olwe, che vantava un paio d’anni di ruberie in più, apriva la strada: lui e Alareth s’erano giurati fedeltà e amicizia più di dieci anni prima, e da allora non s’erano più divisi, nella buona e nella cattiva sorte. Come avventurieri e profittatori senza remore o rimorsi, da tempo non riconoscevano più una patria o una casa, nonostante non avessero trent’anni, né avevano parenti o amici che li avrebbero accolti con calore ed affetto. Avevano viaggiato per l’intero continente da nord a sud, da ovest fino ad est; avevano visto le città d’argento degli Albi del settentrione e le profonde caverne di Nani e Gnomi nei massicci più impervi, prima che il destino li portasse al porto di Huradrein.

Erano riusciti a fuggire dalle prigioni, dove li avevano gettati a patire fame e sete per aver truffato e derubato i mercanti che vendevano la loro paccottiglia nella grande piazza, di fronte al Tempio degli Dèi Tutti. Avevano trascorso quasi un anno nel buio caldo ed umido della loro cella, poi, sebbene denutriti e provati, il terrore di dover restare intrappolati sottoterra altri dieci anni li aveva spinti a spremersi i cervelli, più di quanto avessero mai fatto in vita loro. Ogni tentativo s’era rivelato vano, poi era stata la fortuna, facendo dubitare della sua saggezza, a fornirgli l’occasione: quando uno degli ultimi malfattori catturati aveva diffuso la peste tra i prigionieri, s’erano infilati nei sacchi destinati ai cadaveri. Erano stati trasportati fuori in fretta, dagli stessi carcerieri costretti a ripulire le celle con fuoco, acqua e calce viva.

Erano stati i gendarmi posti di guardia alle fosse comuni, lì per evitare le depravate razzie di qualche necromante, a vederli farsi strada nottetempo tra i corpi ammucchiati. Che fossero sani o appestati, semplici ladri o veri nemici del Principato, forse anche cadaveri rianimati, poco importava alla gendarmeria: nessuno fugge dalle prigioni di Huradrein, e così era iniziata la caccia.

 

Alareth e Olwe avevano prima cercato rifugio alle falde dei monti Hurran, poi, compreso che li inseguivano in forze, avevano approfittato del buon cuore e della distrazione d’alcuni anziani cammellieri per derubarli di due dei loro animali, armi e provviste per una settimana. Con audacia, avevano quindi preso la direzione che chiunque avrebbe pensato essere la meno probabile: ad ovest, verso quell’ultima e abbandonata porzione del Principato che aveva il nome di Terra Morente.

Cavalcavano da cinque giorni in quella desolazione piatta e arida, senza aver incontrato né esseri umani né animali, senza aver scorto tracce d’acqua. Oltre v’era il deserto, e attraverso esso l’antica via non tracciata che solo alcuni folli pellegrini percorrevano, diretti alla forse mai esistita Oasi di Dragk, ancora più ad ovest dei Monti Khara e della mitica valle di Klea.

 

Dopo cinque giorni di savana senza vedere anima viva, il baluginare d’un fuoco nell’affermarsi della notte ridiede forza e speranza ai due disgraziati fuggitivi. Nella Terra Morente, circondata dalla sabbia del deserto che ogni anno ne fagocitava una nuova parte, si muovevano solo nomadi, d’etnie diverse che loro non avevano avuto né il tempo né l’interesse di provare a conoscere. Del resto, le loro attività erano più lucrose nelle città e non tra i pastori.

Alareth e Olwe s’avvicinarono lentamente, volendo studiare l’accampamento e chi lo aveva eretto, ma senza nascondersi, perché avevano bisogno d’aiuto e della nota ospitalità delle tribù che vivevano in quei luoghi desolati.

Era un piccolo accampamento, dove contarono due grandi padiglioni, una decina di cammelli e una ventina capre. Avvicinandosi s’avvidero che i nomadi li osservavano, essendosi probabilmente accorti di loro già da lontano. Ne contarono sei fuori dalle tende, di cui solo due maschi giovani e in forze, sui vent’anni; v’erano poi una coppia anziana, d’un’età indefinibile, e due malati, quasi certamente lebbrosi, coperti di bende bianche dalla testa ai piedi e con bastoni ornati di campanelli. I nomadi indossavano palandrane azzurre e avevano la pelle scura dalle tonalità cineree, nasi adunchi, capelli e occhi neri, profondi e austeri.

Li accolsero senza cerimonie o sorrisi, ma subito i giovani pastori gli indicarono il fuoco odoroso di sterco bruciato e i cuscini che vi avevano disposto attorno. Proferirono poche parole che Alareth e Olwe non capirono, ma loro li ringraziarono nella lingua d’uso comune tra i mercanti, quando gli offrirono tè alla menta ed iniziarono ad abbrustolire pane e formaggio. Il silenzio della pianura era rotto solo dal crepitio delle fiamme e dal belato di qualche capra; l’unico lume era il fuoco che languiva sotto la volta celeste senza Luna.

Nessuno sedette a mangiare con loro: gli anziani sedettero in disparte ad osservarli, coi volti tanto rugosi da sembrare corteccia, e dei due solo la donna, probabilmente la capofamiglia, con smorfie e gesti dava indicazioni ai giovani che si occupavano degli ospiti. I lebbrosi, immobili oltre la luce delle fiamme, dimostravano d’essere in vita solo grazie al respiro catarroso e affannato.

Grazie ai cenni della vecchia, i gotti di Alareth e Olwe venivano costantemente riempiti di tè o latte, mentre altro formaggio veniva scaldato per le loro scodelle. I fuggitivi divorarono quanto gli veniva offerto con avidità, poi, ancora non sazi, senza vergogna additarono una delle capre, facendo comprendere coi segni che ne avrebbero gradito molto la carne. Del resto, non mangiavano carne da quando erano stati incarcerati.

I pastori che li servivano si volsero verso gli anziani, poi, ad un cenno d’assenso della matriarca, uno chiamò:

«Hamiti», aggiungendo altre parole incomprensibili.

Subito da un padiglione emerse la settima ed ultima nomade, una ragazza minuta d’una bellezza inattesa, dai tratti tanto eleganti da non poter sfigurare tra le aristocratiche dalla pelle olivastra di Huradrein, ma dalle forme provocanti, fasciate di cotone bianco quasi trasparente. Era molto giovane, ed il bianco era il colore delle vergini presso molte tribù della regione, ma per Alareth e Olwe, che non vedevano una bella donna da tempo, fu come aver visto la più seducente danzatrice che adescasse clienti in una locanda a tarda notte.

I predoni si guardarono l’un l’altro, poi non poterono fare a meno di fissare lei che, ignorando i loro sguardi, metteva nuove fascine e legna sul fuoco. La osservarono mentre a piedi nudi raggiungeva ancheggiando le capre e tornava con un capretto belante tra le braccia. Con una freddezza che entrambi trovarono sorprendente e conturbante, sgozzò il piccolo animale tenendolo per le zampe posteriori, lasciandolo a dibattersi mentre il sangue sprizzava sempre meno forte. Lo tenne così sollevato alla luce del fuoco per qualche istante, prima di adagiarlo sull’erba e tagliargli via le zampe posteriori; pose quindi i cosciotti sulla brace senza togliergli pelo e pelle, ricoprendoli di cenere, carboni e legna ardente. Mentre la carne cuoceva sotto il fuoco, la ragazza arrischiò pochi sguardi fugaci verso gli stranieri, che ormai non sapevano più quale fame sentissero più forte.

 

I due pastori che li servivano attesero che la carne fosse cotta, poi estrassero dal fuoco i cosciotti ripulendoli coi loro coltellacci prima di porgerli agli ospiti. Alareth e Olwe mangiarono di nuovo con gusto, ma non riuscivano a distogliere gli occhi dalla bella Hamiti, seduta poco oltre la luce delle fiamme, con lo sguardo rivolto al cielo stellato.

Spolpato il muscolo fino ai tendini, Alareth e Olwe si scambiarono un cenno prima di lanciare con falsa goffaggine le ossa tra le braci, sollevando così una nuvola crepitante di lapilli che attirò lo sguardo di tutti. Balzarono quindi veloci in piedi e sguainarono le spade corte, cogliendo alla sprovvista i due nomadi più in forze e costringendoli in ginocchio, con le lame puntate al collo. Non vi fu un urlo o un moto d’agitazione o protesta dagli altri attorno a loro, che sembravano essersi tramutati in statue. I giovani però, squadrandoli freddamente, non rinunciarono immediatamente all’idea di battersi, nonostante la morte fosse certa, e guardarono agli anziani, sembrando attendere un qualche ordine. Fu solo dopo che la vecchia gli ebbe parlato nella sua lingua, con volto sereno, che rinunciarono ad ogni resistenza, e Alareth e Olwe furono contenti di non dover tagliare la gola a chi li aveva serviti fino a pochi istanti prima.

«Presto anche in queste terre si spargerà la voce che non è saggio offrire aiuto agli sconosciuti», Alareth schernì i pastori che non capivano la sua lingua.

«Chi vuol appagare la propria coscienza con atti di pietà, deve essere pronto a pagarne il prezzo», sentenziò Olwe ridendo.

Fecero quindi capire alla ragazza che avrebbero comunque ucciso tutti se lei non avesse obbedito ai loro ordini. Le imposero subito di legare mani e piedi ai giovani, che ancora li guardavano senza timore, e Hamiti eseguì, intimorita sì, ma senza tradire panico.

«Fieri e ben temprati questi caprai», riconobbe Alareth.

I due furfanti non videro la necessità di farle legare anziani o i malati, che parevano a stento in grado di muoversi.

«E ora sarà meglio andar via, Alareth caro, portando con noi tutto quanto possa esserci d’aiuto e conforto per il viaggio che ci aspetta.»

Con la minaccia delle armi costrinsero la bella ragazza a radunare i cammelli e caricarne uno con equipaggiamento utile e vettovaglie, poi sistemarono a loro volta la ragazza su un altro, ben legata ed imbavagliata, anche se lei non aveva accennato un grido fino a quel momento.

Partirono al galoppo portandosi appresso gli animali restanti, per disperderli a un paio d’ore di cavalcata dall’accampamento. Era stato molto facile per i due malfattori prendersi tutto quello che volevano e, dopo la prigionia e la fuga, tornavano a sentirsi sicuri della loro abilità e d’avere la fortuna dalla loro parte.

«Alareth, con tanti doni degli Dèi possiamo affrontare qualsiasi sfida!»

Spavaldi, decisero di scappare prendendo la strada dei pellegrini, la strada attraverso il deserto per l’Oasi e la Città Santuario di Dragk, desiderosi d’avventura. Era una strada che solo pochi fanatici arrischiavano, e ad Huradrein ben sapevano che nessuno di loro era mai tornato indietro: nessuno veniva mai da quella direzione. Forse questo perché non esiste ragione per cui qualcuno abbandonerebbe l’estasi dopo averla trovata, come sostenevano i pellegrini, o forse, più semplicemente, perché lì nel deserto v’era solo morte.

 

***

 

Cavalcarono veloci per quello che restava della notte e all’alba raggiunsero il confine del deserto, dove le sabbie incombevano sulla savana come le onde pietrificate d’un oceano agitato. Non si fermarono fino a quando il Sole e le altre Luci del Giorno non furono tutte sorte, rendendo l’aria simile al soffio d’un incendio. Già addentro il Mare delle Dune di Yuk, non vedevano segni che tradissero la presenza di possibili inseguitori, anche se lì il cielo non era attraversato dal volo d’uccelli, né le dune consentivano allo sguardo di spingersi troppo lontano. Nascondendosi ai piedi d’una cresta, piazzarono veloci la loro tenda di fortuna per godere d’un po’ d’ombra.

«Questa sabbia fina ci concederà il primo giaciglio morbido dopo mesi», commentò soddisfatto Olwe.

«C’è solo da sperare che i vermi rossi delle sabbie non vengano a morderci il sedere», gli rispose Alareth divertito.

Tennero la ragazza legata e imbavagliata, ma lei, ormai vigile, non sembrava voler far nulla né per liberarsi né per ledere i suoi sequestratori. Intimorita, pareva attendere che quegli Uomini facessero di lei quanto aveva deciso il destino. Di quando in quando i suoi rapitori le puntavano addosso gli occhi: la desideravano, ma dovevano riposare ed essere pronti alla fuga, e per questo le risparmiarono per il momento la violenza, in attesa di tempi più sereni e luoghi più confortevoli.

Concedendosi il sonno solo a turno, Alareth e Olwe si sentirono piccoli in quella terra per loro ignota, identica in ogni direzione. Lì le dune erano lentamente sospinte dal vento, costante da nord-ovest, che carezzava con flebili ululati le sommità sabbiose. Le due canaglie non si lasciarono però turbare a lungo da quel fascino austero, felici della libertà ritrovata e sicuri d’avere davanti un futuro generoso d’avventure e ricchezze.

 

Ripartirono col giungere della sera. Alareth e Olwe erano pronti ad inoltrarsi tra le sabbie per una settimana, prima di tornare eventualmente sui loro passi. Erano convinti d’avere ancora un certo vantaggio sui possibili inseguitori e sicuri d’andare nella giusta direzione, perché guidati dalle stelle di notte come dal Sole e le sue sorelle minori di giorno. Speravano di poter presto scorgere i Monti Khara all’orizzonte, magari già all’alba.

«Quali tesori ci attenderanno nella mitica Oasi di Dragk?» chiese Alareth scherzando. «Pensi che troveremo lì la pace, ritirandoci dalle nostre attività?»

«Non esiste città, villaggio o posto sperduto che possa, o voglia, trattenerci troppo a lungo, amico mio», gli rispose Olwe.

«Neppure le prigioni di Huradrein sono riuscite a tenerci, e dire che lì sì, certamente avrebbero voluto!» concluse Alareth con una sonora risata sotto il cielo stellato.

 

Giunse l’alba senza che l’orizzonte ad ovest mutasse. Le ore passarono e quelle più calde s’approssimavano.

Era quasi giunto il momento d’interrompere nuovamente il viaggio, quando, affacciandosi da un’altissima cresta sabbiosa, esattamente nell’incavo tra la duna su cui si muovevano e la successiva, videro un circolo di pietre e riconobbero lo sfavillio dell’oro. Dovettero discendere metà del ripido pendio per comprendere che le sette steli disposte in cerchio erano in realtà statue, le cui maschere di metallo prezioso guardavano verso il centro dell’anello, dove non videro altro che sabbia.

Pareva che le lente correnti del deserto avessero voluto premiare i due avventurieri con quell’inatteso tesoro, così spronarono i cammelli a raggiungere presto le pietre. Giunti a pochi passi dal circolo, fecero abbassare gli animali legandogli le zampe e ripararono alla meglio, con stracci e stoffe, la loro prigioniera, affaticata e quasi sul punto d’addormentarsi. Hamiti li osservò avvicinarsi alle sculture prima di cadere in un sonno agitato.

Le statue di granito rosato, alte cinque braccia, erano consumate dal vento del deserto e un tempo, forse secoli o millenni addietro, rappresentavano degli animali, ma sarebbe stato impossibile identificare quali senza le maschere d’oro, tonde e ancora perfette, d’un braccio di diametro: erano sette colossali Gatti, dai musi ben definiti e solenni, con occhi di smalto e lapislazzuli. Stavano retti e composti a guardia di qualcosa che doveva essere scomparso da tempo. Alareth e Olwe guardavano l’antico monumento affascinati.

«Vi doveva essere un tempo una qualche civiltà che adorava queste bestie…» commentò Olwe dubbioso.

«Forse Elfi, qualche stirpe alba perduta, o magari una congrega d’antichi stregoni», ipotizzò Alareth, con una smorfia superstiziosa.

V’erano forse altre strutture sommerse da sabbia e polvere, come sembravano indicare alcuni massi affioranti ed un tratto di pavimentazione di grossi blocchi di marmo, eppure solo quell’oro, ammesso che fossero riusciti a trasportarlo, avrebbe reso i due avventurieri più ricchi del più scaltro dei mercanti.

«In ogni caso, qui c’è tanto oro da consentirci di vivere di rendita fino alla fine dei nostri giorni», concluse Olwe con rinnovata fermezza.

A quel punto entrambi si buttarono a terra in ginocchio, ringraziando gli Dèi, ridendo e piangendo di gioia e incredulità.

Subito predisposero la tenda, dove si ripararono fino alla sera, pensando ad un modo per appropriarsi delle maschere e trasportarle via. Cercarono anche di riposare, per quanto l’eccitazione glielo consentisse. Hamiti, di nuovo vigile e silenziosa in un angolo, con i polsi legati, fu un’altra volta risparmiata dai suoi aguzzini, vittime dell’estasi dell’oro.

 

Quando il cielo cominciò a mutare dal rosa al viola, Alareth e Olwe cercarono un modo per ricavare una sorta di scala da quanto avevano. Riuscirono utilizzando della corda e i pali della tenda, poi Olwe tentò la scalata della statua più vicina mentre il compagno sosteneva il supporto posticcio. L’obiettivo era quello di staccare la maschera, anche facendola cadere, perché non erano interessati al disegno e alla fattura.

Constatando che le maschere erano state fuse sul granito, provarono a turno a staccarle rovinando le punte delle spade, con sempre maggior rabbia e forza. Avrebbero dovuto usare uno scalpello che non avevano, ma provarono un’ultima volta a far forza insieme, tenendosi entrambi in equilibrio contro il fianco della statua. Fu forse per il loro peso eccessivo che, con uno schiocco sonoro, la statua cedette alla base: rovinò a terra trascinandosi appresso i predoni, che ancora una volta ringraziarono la fortuna sollevandosi illesi tra la polvere. La testa dorata dell’enorme Gatto, staccatasi dal corpo, rotolò via di diversi passi.

Comunque scossi, Alareth e Olwe impiegarono alcuni istanti ad accorgersi che, sebbene la statua giacesse ormai immobile, v’era ancora il rumore di rocce che stridevano sfregandosi, come se qualcosa si fosse messo in moto sotto la terra. Videro quindi un’apertura circolare comparire al centro del cerchio dei Gatti, inghiottendo la sabbia che la ricopriva.

«Quest’oggi le sorprese non finiscono», sbottò Alareth.

Incuriositi dalla novità inattesa, entrambi s’avvicinarono con cautela all’apertura del pozzo per osservarne l’interno. Non videro nulla nell’oscurità, ma sentirono un gocciolio provenire da qualche braccio di profondità.

 

Furono costretti a ricorrere alle torce, fidando che gli eventuali inseguitori non riuscissero ad individuarli tra le dune. Affacciandosi nuovamente sull’oscurità, illuminarono un grande ambiente sotterraneo cilindrico che ricordava una cisterna, sulle cui pareti leggermente oblique e il pavimento, fatto salvo uno spazio proprio sotto al pozzo, erano stipate grosse urne di ceramica nera. Era largo quanto il circolo dei Gatti sovrastante e profondo una decina di braccia. Non compresero da dove provenisse il rumore di gocce che cadevano, che sembrava nel frattempo essersi fatto più forte.

Risoluti, assicuratisi con nuovi legacci che Hamiti non potesse scappare, si prepararono a calarsi nel pozzo per recuperare una delle urne e scoprirne il contenuto. Fantasticavano di monete, gemme e diamanti.

Fissarono la corda alla statua caduta, poi, con l’abilità di scalatori provetti, prima Olwe e poi Alareth iniziarono a calarsi nel buio tenendo le torce nell’unica mano libera. Scesero per cinque o sei braccia, quindi finalmente individuarono l’origine del gocciolio divenuto pian piano il gorgoglio liquido d’una fonte. Erano le stesse urne che avevano preso a stillare liquido nero e oleoso, che goccia dopo goccia convogliava in piccoli canali lungo le pareti per poi raccogliersi subito sotto l’apertura del pozzo, nello spazio che capirono essere una bassa vasca circolare. Stupiti, videro il liquido accumularsi mentre le urne ne trasudavano sempre più, fino ad una sorta di scroscio. Poi la paura scosse le loro schiene, quando scorsero nell’oscurità la massa fluida raggrumarsi, iniziando a far emergere una forma lucida e ingobbita.

Riconobbero con orrore, da ricordi di frequentazioni del Tempio e antiche leggende, la massiccia ed imponente figura d’un Demone crescere dalla superficie liquida. Aveva spalle e braccia muscolose ed un’orrida testa da rospo, sproporzionatamene grossa e larga, dotata di tre paia d’ampie corna. Se fosse emerso del tutto dalla vasca, sarebbe stato alto cinque o forse sei braccia. Videro falci ossee spuntare dal dorso delle mani artigliate del mostro e intuirono la grandezza dei suoi occhi, grossi come cocomeri maturi. In pochi istanti sarebbe stato abbastanza alto da raggiungerli con un’artigliata, e ancor più terrificante era la sua bocca, che avrebbe potuto facilmente tranciare a metà uno di loro.

Imprecando e urlando, Alareth e Olwe lasciarono le torce e s’affrettarono a risalire la corda, con il mostro nero che aveva ormai sollevato il muso e ruggì alle loro spalle. Erano quasi riusciti ad emergere, aggrappati entrambi all’orlo del pozzo, quando sentirono il rumore d’un mostruoso soffio e le loro schiene furono investite da un fiotto gelido e maleodorante. Riuscirono a tirarsi su e temettero che il mostro potesse seguirli, ma l’apertura si richiuse appena loro furono in piedi.

Subito si liberarono dei vestiti, temendo di trovarsi ustionati o piagati dal liquido immondo, invece si scoprirono, con grande sollievo, solo luridi e un poco nauseati.

«Io ricordavo che sputavano fuoco!» disse Alareth disgustato ma divertito.

«Da un Demone di liquami non puoi aspettarti altro se non un rigurgito di fogna», chiosò Olwe con una smorfia prima di scoppiare a ridere, dissolvendo in un istante quel che rimaneva della loro tensione.

Fu a quel punto che videro Hamiti. La ragazza era in piedi nonostante i legacci, che era riuscita ad allentare, e aveva mosso la testa della statua caduta in modo che la maschera del Gatto tornasse a guardare verso il centro del circolo, come le altre. Compresero che era stata lei a salvarli.

Felici d’averla scampata ancora una volta, sorpresi dal gesto di Hamiti, i predoni rimisero subito la ragazza al centro delle loro attenzioni.

«Quindi ci tieni a noi?» le chiese ironico Olwe.

«Avevi paura di rimanere sola in mezzo al deserto, vero? Povera bimba», l’apostrofò Alareth.

Ingrati, come erano sempre stati in vita, le furono subito addosso.

La presero a turno senza gentilezza, sfogando l’adrenalina che gli aveva fatto vibrare le schiene, inzaccherandola con lo stesso fetido fluido che ancora li bagnava. Lei non fece resistenza, non levò neppure un grido, guardandoli con timore ma non con paura. Dopo di che, sfiniti, la trascinarono sotto la tenda, dove s’addormentarono subito, cadendo in un sonno agitato popolato d’incubi d’oscurità, denti e artigli demoniaci.

 

***

 

Il risveglio della mattina successiva trovò Alareth e Olwe scossi da brividi di freddo nonostante il caldo soffocante, madidi di sudore. Privi di forze, i due predoni non erano in grado di muoversi e a stento ricordavano dov’erano. Hamiti, totalmente libera, li guardava con la bella fronte aggrottata, con lo sguardo stanco di chi aveva vegliato, ma tradendo un incomprensibile misto di dispiacere e senso di superiorità e vittoria. Tutto intorno le dune arancio parevano divenire incandescenti.

Alareth e Olwe sudavano e tremavano senza avere la forza di parlare, né, sull’orlo del deliquio, avrebbero saputo cosa dire pur avendola. Furono sorpresi quando si resero conto che la ragazza li sollevava uno per uno, caricandoli sui cammelli, poi s’avvidero delle loro stesse membra, divenute magre e ossute come quelle di mummie, grigie come la cenere. Hamiti, bella e forte, preparò gli animali e partì, lasciandosi alle spalle il circolo di statue dei Gatti.

Buttati come sacchi sopra gli animali che li trasportavano, assicurati alle selle con pezzi di corda, i predoni si sentivano impotenti, spettatori d’un viaggio che pareva interminabile nel mezzo del paesaggio sempre uguale. Rosi da dentro da un calore incommensurabile, Alareth e Olwe non sentivano l’aria cocente e la luce bruciare le loro membra. Hamiti non si fermò neppure nelle ore più calde, spingendo i cammelli a muoversi con passo veloce, anche perché le bestie che li trasportavano soffrivano ormai meno il calore torrido del deserto di quello del loro carico, che iniziava a farsi rovente.

Con la notte raggiunsero il terreno duro della savana e il passo divenne galoppo sino all’accampamento, ove gli altri della tribù attendevano. I due giovani pastori aiutarono la bella Hamiti a scendere di sella, poi scaricarono in fretta e senza cura Alareth e Olwe, che mugolavano di dolore mentre vapore e fumo si sollevavano dalla loro carne secca. Li lasciarono a terra e abbracciarono la ragazza appena tornata, per poi accompagnarla di fronte agli anziani e ai lebbrosi, ancora seduti intorno al fuoco. I primi l’accolsero battendo le mani e i secondi scuotevano i bastoni con gran fragore di campanelli: di fonte a loro Hamiti si portò le mani al ventre, sorridendo felice, e l’anziana matriarca rispose con lo stesso sorriso amorevole, allargando le braccia per invitarla ad un abbraccio.

Alareth e Olwe avevano perso la lucidità già da qualche istante, con il cervello chiuso dentro il cranio divenuto una pignatta incandescente, per cui non videro quella scena. Ormai le loro membra si disfacevano con crepitii e scintille. Poco dopo i due pastori, aiutandosi con bastoni e vanghe, spinsero con noncuranza le braci che erano state i loro corpi, per unirle a quelle del fuoco di sterco e stoppie che languiva, sollevando nugoli di lapilli.

 

Esiste una via tra le stelle che possa salvare i mortali dal bruciare? È già decisa la strada che percorrono? Solo dopo molti anni ho compreso come il libero arbitrio sia al contempo realtà e illusione nel disegno divino.

 

Da “Risposte sul Destino”,

appunti del Maestro di Studi Vlaed’Hamon dell’anno 788.

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