
Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare per la prima volta Enrico Francese, autore emergente che ci propone “Il cacciatore di mostri”, racconto di fantasy di circa 20.000 battute.
Il cacciatore di mostri
di Enrico Francese
La grande carcassa del drago giaceva inerte lungo il bordo del bosco. La bestia era più verde del bosco, scuro per la cenere della battaglia, marcio delle cicatrici lasciate dal mostro: tronchi trasformati in tizzoni e fronde soffocate dal fuoco. La nebbia pestifera lasciava lentamente il teatro della caccia per scivolare oltre le morbide pareti di un vallone, verso il lontano villaggio, dove le famiglie impaurite e le pavide guardie si erano rinchiuse dietro le scuri, serrando le porte con assi di legno.
Il mostro glorioso era morto. Un magma di viscere e sangue colava dallo squarcio aperto sulla sua pancia, una lava acida e verdastra, più violenta del fiato che aveva arso il bosco durante l’agone.
L’unica traccia di vita era il pallido fuoco improvvisato fra due pietre. Sembrava il centro di un cerchio intorno al quale la lucertola era posta a mezz’arco, quasi con eleganza: la mezzaluna del drago e il falò lì nel mezzo.
Fissava il fuoco l’uomo che lo aveva acceso. Era seduto con la schiena appoggiata alla grande zampa del drago. Era immobile quasi quanto la bestia. Solo il petto si alzava lentamente, inseguendo respiri affannati. Gli occhi erano vuoti, sospesi. Assorto nel suo riposo, non aveva più forze.
Eppure il suo aspetto pareva l’emblema della possanza. Le spalle muscolose sopra l’ampio torace, il mento duro coperto dalla barba grigia, accarezzata da lunghi capelli che brillavano di un biancore maligno. Gli occhi erano sottili e spaventosi, specchio di un furore incandescente, scarlatti dalla pupilla alle palpebre. Il suo corpo era cosparso da chiazze di sangue verde, la linfa putrescente dell’animale ucciso. Il sangue dell’uomo era seccato sulla camicia strappata, ma era poca cosa rispetto al premio che aveva conquistato.
Il suo nome era Vrakul, ed era un nome noto ai più. Pochi lo avevano incontrato, ancora meno avrebbero saputo descriverne l’aspetto. Ma molti conoscevano l’ordine maledetto di cui era parte: la congrega dei Shaitanal, stregoni guerrieri votati alla distruzione del male, in tutte le sue forme. Si dice che fossero creature malvagie essi stessi. Erano cacciatori solitari, eremiti temuti durante il tempo di pace, ospiti indesiderati in tempo di guerra, allorché comparivano, convocati da nessuno, quando i mostri sorgevano a minacciare una terra pacifica. Quei giorni era toccato a Ponatek, il villaggio dormiente ai piedi della rocca di Ponalordur. Il drago, dormiente da secoli, era comparso annunciato da profezie inascoltate. Prima che la sua ira si scatenasse sulle case, Vrakul era comparso nel bosco, e la lotta era iniziata.
Durò una settimana. Dal villaggio si scorgevano solamente le folate di fuoco che scuotevano gli alberi, e i lampi di furia che esplodevano in tuoni potenti sul profilo della foresta. Nessuno poteva sapere se quelle grida inumane erano del drago o del suo cacciatore. Nessuno avrebbe saputo decifrare il significato di quei versi spaventosi, sapere se fossero maledizioni dell’antico idioma draghesco o formule magiche del guerriero stregone. Quello che è certo è che nessuno avrebbe mai più avuto una notte di riposo, e che quegli urli avrebbero echeggiato nelle menti di ognuno fino alla fine dei loro giorni. Nessuno poteva assistere a un duello con un drago e restare sano.
Tantomeno Vrakul. Alzò il braccio ferito, che già mostrava le prime scaglie verdastre. Prese dal suo fianco la fiaschetta che con penosa lentezza si portò alla bocca. Quel sorso di vino fu il solo sollievo che riuscì a regalarsi.
Pensava. Squassato in ogni fibra del corpo e della mente, fissava il fuoco meditando sull’impresa appena compiuta. La spada insanguinata al suo fianco, il medaglione del suo ordine che ormai aveva smesso di vibrare, posato sul petto. La sua mente era inondata dai pensieri di quello e delle centinaia di draghi massacrati prima di lui, e delle strigoi, e dei grifoni, e delle mutazioni, idre, drowner, lapalachian, essericts e altre migliaia di mostruosità che la terra aveva partorito affinché lui potesse porvi fine, crudelmente. La sua vita spesa interamente a quell’opera. Un mestiere privo di acclamazioni e di premi, piuttosto del timore e della diffidenza dei comuni mortali. Una vita di solitudine e rabbia, placata soltanto dalla pace sfibrante che lo rapiva alla fine di ogni combattimento.
Andava bene così: lui non cercava né gloria né onori. Il solo sapere che la terra era libera ancora per un giorno dalla progenie dell’inferno era bastante.
Ma quello che non sapevano, i comuni mortali che vivevano nell’ingratitudine, era la bile che restava a corrodere l’anima dopo ogni uccisione. Il fuoco spirituale della bestia che fluiva nel braccio del suo uccisore, gesto dopo gesto, giorno dopo giorno. I Shaitanal avevano un nome per questo: lo chiamavano Trapasso. L’eco delle urla di tutte le bestie uccise che pulsava nelle tempie, giorno e notte. Il cuore che scalpitava come se volesse liberarsi da quel carico, il corpo tramutato in prigione per le anime degli esseri uccisi. L’anima umana non poteva contenere tutta quella energia, e i cacciatori dovevano fare posto ai premi che mietevano. Il trofeo richiedeva spazio, e’unico modo era concedere un po’ della propria anima: la morte del mostro pretendeva la lenta nascita di uno nuovo.
Cacciare i mostri non garantiva una carriera longeva, ma le droghe e i rituali con cui i Shaitanal si addestravano rendevano le loro vite più lunghe del normale, la loro vecchiaia più lenta, i loro corpi più resistenti. Ma quello che medicine e incantesimi non potevano contrastare era il Trapasso, che presto sarebbe arrivato per tutti.
Un rumore di passi delicati lo sottrasse dalla sua meditazione. Vrakul istintivamente ricoprì con la camicia il polso che aveva retto la spada, nascondendo le scaglie che si erano andate a formarsi. Chiuse il polsino con un legaccio, e alzò il capo per incontrare con gli occhi la sconosciuta che era comparsa. Era insolito che qualcuno osasse accostarsi a un cacciatore al termine dell’impresa. Chiunque ella fosse, doveva essere pazza o estremamente coraggiosa per avvicinarsi.
Era una donna non giovanissima, ma bella di uno splendore regale e orgoglioso. Camminava su quella terra bruciata calzando sandali leggeri, con la veste purpurea che frusciava sull’erba riarsa. Portava un diadema di rubino, che insieme ai bracciali dello stesso colore dava una chiara indicazione del suo rango. Vrakul iniziò a pregustare la dolcezza di un premio. Guardò intorno fiutando con tutti i suoi sensi. Non sapeva se alzarsi per tributare omaggio a quella autorità, o se mettersi in guardia.
“Non muoverti, Cacciatore” anticipò lei. “L’autore di tale impresa non deve alzarsi né inginocchiarsi.”
Adesso era accanto a lui, e fu lei ad accovacciarsi per portare gli occhi alla sua altezza. Erano occhi grandi e colorati del blu più profondo che Vrakul avesse mai visto.
“Siamo noi a inchinarci di fronte a un eroe.”
Chinandosi, prese la mano di Vrakul e vi posò un bacio. Lui restò impassibile. Infine lei si sedette, quasi precipitando con grazia fra le sue soffici gonne, come un petalo che plana per terra in un giorno di vento.
“Queste erano tutte le formalità, Shaitanal. Formule che non amo, ma che in qualche modo ci si aspetta da noi.” Fece una pausa fissando distrattamente l’eroe. Poi:
“Io sono Mireya di Ultreyalan, principessa di Ponalordur, signora di questa valle.”
Lui inarcò un sopracciglio.
“Sono colei che hai appena liberato dalla minaccia di questa bestia, e ti ringrazio. La nostra valle non vedeva un drago da secoli. Troll e Ributtanti, sì, siamo abituati alla loro presenza. Le mie guardie sono esperte nella loro caccia, e i miei sudditi sanno come difendersi. Ma i draghi….” Si morse le labbra. “I draghi sono faccenda dei libri. Ne parlano i miei stregoni come di un problema intellettuale, un passatempo di erudizione. Ma no…” concluse facendosi di nuovo seria. “Se non fossi intervenuto tu, la nostra terra sarebbe brace, come questa foresta.”
Vrakul non disse nulla, e i due restarono per un secondo nel silenzio. Dietro di loro gli alberi crepitavano delle scintille e delle ceneri causate dalla battaglia. Sembrava un commento teatrale al discorso della nobildonna.
“Hai coraggio a presentarti qui, Mireya.” disse Vrakul.
“Sciocchezze” disse lei, ed emise un riso puerile. “Il nostro eroe merita un tributo, un ringraziamento. Un sollievo dopo l’impresa”.
Le sue dita danzarono lungo il seno. Vrakul osservò quella celia animandosi di desiderio.
“Nessuna persona normale osa accostarsi a un cacciatore e alla sua preda.” disse.
Lei si impettì, poi addolcì gli occhi. Vrakul distinse bagliori color cremisi ondeggiare in quel blu. La sua spossatezza stava già trasformandosi in appetito. Fissò i suoi occhi in quelli di lei.
“Ma io non sono una persona normale” disse lei. “Io sono la signora di queste terre, e niente di ciò che vi è sopra può spaventarmi.”
Si avvicinò ancora, e le sue curve quasi lo accarezzavano.
“E tutto ciò che vi è sopra mi appartiene…” sussurrò al suo orecchio. Lui avvicinò le labbra dure a quelle della donna, abbandonandosi al gioco.
“Nondimeno, avvicinarsi alla bestia non è mai saggio.”
“Parli della bestia uccisa”, disse Mireya sfiorandogli il braccio. “O di quello che l’ha sconfitta?”
Vrakul serrò le mani sul terreno. Era pronto a issarsi in piedi, pronto a saltare addosso a quella donna e a prenderla, a possederla di fronte al frutto della sua lotta e rilasciare in lei tutta la stanchezza, il terrore, la disperazione che la caccia ogni volta gli dava, abbandonare ogni pensiero per prendere finalmente il premio e il sollievo che meritava, lei che così impavida si presentava a lui, che così candida gli offriva gratitudine e amicizia, lei che avrebbe urlato di gratitudine e gioia mentre lui avrebbe trasformato in gioia la sua rabbia, bestia non meno bestia di quella uccisa, vorace di una nuova lotta con una nuova bestia così bella e pulita e nobile, e farla finita, squassati e nudi e vuoti sul campo di battaglia a guardare il cielo rifarsi celeste, a respirare la guarigione dei corpi finalmente sazi, finalmente in pace.
Sapeva che dovette trattenersi. Il medaglione al suo petto gli diede una scossa per ricordarglielo. Si portò la mano sul polso destro, ad accertarsi che il nodo fosse stretto. Respirò l’aria grave. Strinse gli occhi come ad ascoltare.
“Non ti fa paura nemmeno il sangue del drago” disse. “Tutti ne fuggono l’odore come una peste, contorcendosi lo stomaco fra le mani. Io sono immune a questa nefandezza. Ma tu, Mireya, sei troppo bella per stare così vicino.”
“Vieni con me al castello, allora”, gli disse lei, scorrendo le dita sottili sui suoi muscoli stanchi. “E liberiamoci insieme di questa sozzura.”
Lui la fissò. La mano di lei giocherellò con i lembi della sua camicia. Il medaglione sul petto sussultava, e non fu chiaro se a tremare era l’oggetto inquieto della magia di cui era imbevuto, o se era il petto dell’eroe, vulnerabile alla dolcezza della donna.
Si arrese. Posò la mano su quella di lei. Si unirono nell’aria con delicatezza, e per un attimo nel bosco ci fu solo silenzio. Poi lui si alzò, tirandola a sé. Gli occhi di lei brillavano, ricchi di desiderio. Sporse il suo petto gentile contro quello di lui. Socchiuse le labbra, forse per un ultimo invito.
Ma la mano di lui si irrigidì, le piegò il polso, e il corpo di lei si trasformò in un rigido fascio di nervi.
“Vattene” disse Vrakul.
Lei scattò indietro. I suoi occhi si piegarono in una maschera di cattiveria.
“Sudicio soldato senza cervello, stolida massa di muscoli… osi rifiutarmi?”
“Non essere sciocca, principessa.” replicò lui.
“Mi credi inerme come una contadina che si butta sulla schiena al tuo passaggio? Mi credi miserabile come una comune mortale?”
“Non lo sei, forse?”
Lei sbiancò. Alzò un dito accusatorio, carica di oltraggio. “Tu! Disgustoso mostro contro natura, eunuco deturpato dai riti del tuo ordine, non credere di sfidare la mia volontà! Tutto quello che si muove su questa terra è mio, tutto ciò che desidero mi appartiene!”
“E che cosa desideri, esattamente?” I suoi occhi erano tornati vigili, e solo adesso lei si accorse che lui aveva capito, fin dall’inizio, le sue intenzioni.
Fece per replicare, ma scelse invece di riassumere il portamento regale con cui era arrivata.
“Smettiamola di perdere tempo. Tu hai capito chi sono.”
Lui soffocò un riso.
“Chi sei? Non avere così tanta considerazione di te stessa. Non di fronte a un uccisore di draghi. Io ho capito chi vorresti essere. Apprendista dei riti oscuri, giovane iniziata al culto di Blaptemoth. Credi di essere la prima a tentare di irretire uno di noi Shaitanal? Streghe e incantatori più grandi di te hanno impiegato secoli a darci la caccia, e hanno accumulato solo fallimenti. Non è un caso che le loro storie non si conoscono.”
“Ma qui ti sbagli, cacciatore. Io non sono come loro!” fece lei con uno sguardo malvagio.
“Solo perché sei la concubina di Blaptemoth?”
Lei si paralizzò. Aveva giocato al gatto col topo e si era divertita, ma adesso nei suoi occhi comparve realmente la paura.
“Come…”
“Ho dato la caccia agli orrori della carne per più di dieci vite, Mireya. So riconoscere il fetore di una creatura senz’anima. Hai ceduto il tuo corpo al signore del caos, sapendo che gli eterni si sollazzano dei piaceri carnali. Non ti è importato lasciare che ti bevesse l’anima, in cambio dei poteri che ti offriva. Ma io non posso essere ingannato.”
“Quando te ne sei accorto?”
“Appena ti sei avvicinata. La tua mente è una carie, scavata dal dio, e il suo puzzo è inconfondibile. Ma a convincermi è bastato qualcosa di più semplice. Un errore di presunzione. Te l’ho persino fatto notare io stesso.”
“Sentiamo.”
“Il sangue del drago. Nessuno che non sia un Shaitanal può avvicinarsi senza sentirsi le viscere rivoltarsi e svenire per i conati.”
Lei si morse il labbro.
“Pensavo fosse più facile.”
“Pensavi bastasse il tuo corpo voluttuoso?” rise lui. “Sei bellissima, ma sei vuota come l’abisso. Un abisso che conosco troppo bene, poiché mi ci specchio tutti i giorni.”
“Un abisso che mi spetta!” urlò lei all’improvviso. La voce le si era fatta più grave, roca: adesso pareva emergere dal suo corpo corrotto.
“Le viscere dell’eternità, il potere della notte, la gabbia di tutte le anime sofferenti…. Quel potere deve essere mio! Blaptemoth me l’ha promesso!”
I due ora presero a camminare lentamente in cerchio, come due animali che si annusano.
“Il mio signore mi ha guidato e mi ha istruito, nelle sudicie veglie seguite al suo sollazzo osceno, mi ha insegnato a maneggiare l’oscurità, a padroneggiare quella maglia di tenebra intessuta di sofferenza. Ma mi mancava solo una cosa, per potermene servire senza esserne schiacciata.”
“Il sangue di un Shaitanal?”
“Il balsamo corrotto che vi mantiene in vita. Ti avrei spremuto come un frutto, Vrakul, ti avrei annientato con uno schiocco delle dita. Ma avevo sottovalutato la tua triste coorte di monaci virtuosi.”
“Di nuovo, donna, ti stai sopravvalutando…”
“Lo dici come se tutto fosse finito” replicò lei con un ghigno. “Ma non è così!”
Lui si accorse allora di avere abbassato troppo la guardia. Il suo medaglione tremava. Il cielo intorno vibrava di una luce nera. Una presenza oltre la collina.
“Nobile cavaliere” tornò a celiare lei con la voce principesca di prima. “Potevo averti dandoti piacere. Invece ti possiederò con dolore.”
Schioccò le dita, e una falange di guerrieri neri apparve oltre la cresta del vallone.
Vrakul si maledisse. Quanto doveva essere esausto per non avvertire una presenza così ingente? Era davvero così indebolito da soccombere all’avvenenza di Mireya? Si guardò il braccio. No, qualcosa di più profondo lo stava sconfiggendo da dentro. Profondo come il tempo che finalmente era giunto.
Si rimise in guardia.
“Un esercito di umani non basterà ad abbattermi, Mireya.”
Lei si illuminò, e finalmente il trionfo comparve nei suoi occhi.
“Umani, cacciatore? Ma allora non mi hai ascoltato!”
La schiera avanzò di pochi metri. La loro marcia era una cacofonia di tamburi. Vrakul sentì un brivido.
Adesso i soldati erano visibili. Alti, statuari nella mostruosità delle loro fattezze. Sorreggevano lance e scudi con le loro braccia artigliate, posavano su code acuminate, avevano corne contorte che spuntavano dagli elmi appuntiti. Sorrisi impazziti bruciavano sulle loro fauci di brace.
“Demoni?”
“Le guardie del regno sono rintanate nelle case a piangere dietro i loro scudi e pisciare nelle proprie vesti. Pensavi forse che sarei andata in contro a un mostro come te priva di una scorta adeguata?”
Vrakul si sentiva perduto. Perduto, e stanco. Aveva passato la vita a combattere il male, e adesso capiva che c’era un male ben peggiore. Il suo ordine giurava di proteggere gli uomini, e adesso vedeva con quanta volontà gli uomini si schieravano dalla parte del male. E lui, circondato e afflitto dalla battaglia, poteva fare ben poco.
Ben poco, a parte tutto quanto.
Era già successo, in parte, quando era entrato nei Shaitanal. L’investitura lo aveva privato di una parte della sua umanità, rendendolo già diverso dai mortali, più simile a un mostro egli stesso.
E adesso vedeva una sola salvezza.
I guerrieri di Mireya si avvicinarono.
Lui si scoprì la benda.
Udì Mireya risucchiare l’aria, sopprimendo un conato di orrore. Il veleno era stato rapido. L’avambraccio era già ricoperto di scaglie. Sentiva un pulsare freddo sotto quella pelle morta. Guardò la carcassa del drago.
Raccolse la spada.
“Non ti consiglio di provarci, guerriero” intimò lei, mettendosi in guardia. I suoi sgherri accelerarono.
Lui non le diede retta. Squarciò il ventre della bestia, con furore e precisione. Schizzi di veleno verde sprizzarono intorno. Lei urlava qualcosa alle sue spalle, ma lui non udì. L’ombra nera della schiera nemica stava quasi lambendo il corpo del drago.
Poi il volto di Mireya si deformò dall’orrore. Vrakul entrò con tutto il corpo nel ventre della bestia. Un rigurgito di liquidi lo assorbì, un tumulto di pus e veleno ribollì schiumando intorno alla carcassa. Un vapore pestilenziale emanò dalla bestia, lasciando solo fumo nero, tutto intorno. Vrakul non c’era più.
Mireya era paralizzata. Così i suoi soldati. Che razza di morte aveva scelto quell’uomo? Che sacrificio grottesco pur di non cedere alle sue tentazioni crudeli? Ma poi il significato di quel gesto la investì.
Un lampo violaceo esplose dal drago, investendo la strega e i suoi guerrieri. Un lamento mostruoso, antico, sofferente si alzò da quel luogo per tutta la valle. Il rumore di ossa che si spezzavano e tessuti che si squarciavano.
Poi, con estremo dolore, il drago riaprì gli occhi, e si alzò sulle zampe.
I soldati della strega indietreggiarono. Anche nei loro istinti ci fu qualcosa che li allarmò. Poi il drago sbattè le zampe a terra, un tonfo, due, spalancò le ali, un altro tonfo simile a un tuono. Infine emise un ululato terribile. La foresta si scosse di nuovo. Tutti gli abitanti di Ponalordur avrebbero avuto incubi per mesi. Mireya ammirava stupefatta il risultato del suo errore.
L’essere che era Vrakul scosse le ali con un gesto impetuoso, e prese il volo.
Mireya strillò un vano ordine ai suoi sgherri.
“Abbattete questo demonio! Uccidetelo, o ucciderò voi!!!”
Le guardie scagliarono contro il drago tutte le armi che avevano, ma nulla servì.
Il drago volteggiò su di loro, e con un unico soffio arse quei mostri, esperimenti incauti di una stupida strega. La donna lanciò un incantesimo di protezione, ma non fu abbastanza veloce. Il fiato caldo la carbonizzò, e in pochi istanti quella radura già piagata dalla battaglia fu nuovamente annerita dalle braci di quegli esseri, dal residuo nero della malvagità che sembrava non si potesse mai staccare dalla terra.
Assorbita l’anima del suo cacciatore, Vrakul volò verso le montagne, lasciandosi alle spalle quel luogo di morte irreparabile. Dietro di lui una scia di guaiti ustionò l’aria, mentre il nuovo male andava in cerca di una nuova tana.