I racconti di Satrampa Zeiros – “Brindisi” di Andrea Cavalli

Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare per la prima volta Andrea Cavalli, autore emergente che ci propone “Brindisi”, racconto di sword and sorcery di circa 20.000 battute.


Sinossi

In cui si assiste a complotti per impadronirsi di un trono ed atti ispirati da malvagità, avidità e disperazione. Si brinda ad un regno il cui fato è in bilico tra il legittimo sovrano ed un astuto usurpatore.


Autore

Andrea Cavalli nasce il 3 Dicembre 1977 a Genova. All’età di dodici anni gli viene regalata la Scatola Rossa di Dungeons and Dragons della Editrice giochi, e da un mondo di spada e stregoneria non uscirà più. Colleziona e legge avidamente racconti di R.E. Howard, Michael Moorcock, H.P. Lovecraft e Clark Ashton Smith, e, tra una battuta di caccia al drago ed una razzia di tesori, riesce a laurearsi in Giurisprudenza nel 2006. Prima, durante e dopo trova numerosi impieghi in svariati ambiti, specialmente a contatto dei libri che più ama.


Brindisi

di Andrea Cavalli

 

Quando un raggio di sole lo colpiva, rispondeva con un baluginio quasi lunare. Infatti non era di legno o di peltro, come i boccali dai quali beveva la povera gente, ma di vetro con con rilievi in argento raffiguranti gli animali della foresta, realizzato da un soffiatore di vetro che aveva chiuso bottega subito dopo, nella disperata consapevolezza di non poter produrre mai più niente di così bello. Era stato realizzato per Lucius, il Duca di Anfipoli, che a lungo lo aveva adoperato a pranzo ed a cena, sempre e soltanto il calice lunare, riempito dalle sue mani e svuotato dalla sua bocca, finché la sua fama di stregone non lo aveva reso inviso alla popolazione e costretto all’esilio.

Forse, se avesse temuto maggiormente l’opinione dei suoi sudditi piuttosto che il veleno nella sua coppa, avrebbe regnato più a lungo.

Trafugato dai saccheggiatori, il bicchiere ducale era in seguito stato acquistato dal conte Kraven, e per anni lo aveva colmato solo la polvere, rendendolo opaco. Poi, un bel giorno, le mani di un servitore lo avevano tratto dalla credenza, lo avevano lavato ed asciugato con cura, restituendogli l’originale lucentezza, e solo allora lo avevano consegnato al conte in persona.

Da un anno a quella parte, ogni mattina, il conte porgeva il calice di vetro intarsiato d`argento alla regina Artemisia, dopo averlo riempito di liquidi preziosi, e brindava alla sua maestà dall’alto del balcone del palazzo reale. Da lassù, contemplavano il viavai dei cittadini nelle sottostanti strade di Kyris, la città arborea, Kraven sorbendo con cinismo il profumato vino di Los, l`infelice regina quasi senza toccare la bevanda al pensiero dei soprusi che venivano consumati sui livelli inferiori dagli armigeri del conte ai danni dei suoi sudditi.

Questi, rivestiti delle loro peculiari armature scarlatte ornate di lame e spuntoni che davano loro l’aspetto di fiamme ambulanti, razziavano, angariavano e stupravano come un esercito invasore. Non passava giorno senza poter assistere, dall’alto della loro posizione, al taglieggiamento di un mercante, preso in mezzo da un manipolo di soldati, oppure al ratto di una fanciulla, trascinata in un angolo in ombra tra le case da due bravi. Eppure, nessuno degli sventurati abitanti di Kyris si azzardava a protestare. Allo stesso modo, la loro regina non osava rifiutare il brindisi di Kraven.

In fin dei conti, non erano forse i loro protettori?

Ogni mattina, vuotato il calice, il conte rinnovava ad Artemisia la sua proposta di matrimonio, ed ogni mattina Artemisia, restituendogli il bicchiere pieno per metà, la rifiutava. Da un anno questa scena si ripeteva, e da un anno Kraven si occupava in prima persona di svuotare il calice dall’intarsio argenteo, mentre l’infelice regina di Kyris si allontanava.

 

Sul far della sera di un giorno identico a qualunque altro, una figura avvolta in un mantello color mogano uscì dal palazzo reale. Non attraversò i portali che davano sulla grande piazza d”arme, percorsa dalle impettite sentinelle in divisa scarlatta, né si arrischiò a passare per l’ingresso della servitù, anch’esso strettamente sorvegliato. Si calò, invece, lungo i viticci d’edera che cingevano l’albero, millenario sostegno della reggia, in un abbraccio parassitario. Più volte i tralci minacciarono di strapparsi, condannando lo scalatore a precipitare verso la morte, ma ad ogni occasione la figura trovò un appiglio da afferrare, o una nicchia del legno in cui infilare un piede, destreggiandosi con straordinaria abilità. Raggiunse incolume il riparo di un angolo del palazzo, e, dopo essersi guardata intorno con particolare circospezione, scattò verso il più vicino ponte arboreo, silenziosa e fulminea come una pantera, senza essere notata da nessuno, o così credeva.

Non appena si fu allontanata, un frammento d’ombra più nero degli altri si separò dalla generale oscurità del crepuscolo tra le alcove dell’albero, e si avviò sulle tracce della prima figura. L’uomo vestito di nero sorrise sotto il cappuccio ed i baffi, al ricordo delle frustranti settimane di appostamenti notturni, sulle tracce di quel fantasma elusivo, intuito da lui e dal suo superiore ma mai toccato con mano. Quella notte, dopo aver smascherato le sue trame, avrebbe avuto la soddisfazione di abbeverare nel suo sangue l’assetata lama di un pugnale. Tali erano i pensieri del sicario, mentre a sua volta impegnava il ponte teso tra un ramo e l’altro degli alberi colossali.

La luce del sole al tramonto, raggi che tingevano le foglie di un bagliore incendiario, fu sostituita dalla luminosità più discreta della luna e delle stelle, ed il pedinamento proseguì lungo i camminamenti arborei e lescalinate che si avvolgevano a spirale intorno ai tronchi secolari. Presto all’uomo in nero fu evidente che la sua preda puntava verso le regioni inferiori dell’albero, sempre vigile ma rallentata dagli ostacoli posti da una città occupata. Ecco infatti, proprio mentre percorreva una stretta piattaforma tra due rampe di scale, avvicinarsi la luce di una lanterna coperta ed i passi degli stivali di tre uomini di ronda: una delle tante pattuglie notturne addette a controllare che venisse rispettato il coprifuoco. Il fuggiasco si immobilizzò solo per un mezzo respiro; poi, dal piano superiore della scalinata, l’inseguitore lo vide volteggiare agilmente oltre il bordo del pianerottolo. Il baffuto tese le orecchie per il sibilo di un corpo in caduta attraverso l’aria ed il seguente, inevitabile tonfo. Non ne udì alcuno. Si gettò di corsa lungo le scale in discesa, dritto tra le braccia delle sentinelle. Gli fu intimato l’alt.

Di fronte alle lance spianate, la sua rabbia e la sua frustrazione furono un tuono a stento trattenuto. “Idioti, mi state facendo perdere tempo prezioso.” Attraverso un risvolto del nero mantello, un fermaglio di bronzo splendeva alla luce della lanterna. Le guardie si misero all’istante sull’attenti. “L’Artiglio del conte!” Mormorò una di loro.

“Già, l’Artiglio. Non statevene lì impalati, sto inseguendo un fuggitivo.” Con queste parole, lo sgherro della polizia segreta si sporse leggermente dalla balconata. L’occhio di bue della lanterna non rielava niente al piano inferiore, né una sagoma in fuga né un corpo spezzato dalla caduta. Pochi secchi ordini più tardi, le guardie si mobilitarono come cani che seguissero l’usta di un cervo, ed il cupo Artiglio si avviò nuovamente per la  sua strada. Alcuni graffi sul legno delle assi e sul tronco degli alberi lo avevano rimesso sulla pista; da tempo non gli capitava un avversario a tal punto stimolante, ma ormai era stanco del gioco. Inoltre, un cacciatore può battere anche la più sfuggente delle prede se sa dove attenderla.

L’Artiglio un sospetto lo aveva, e lo assecondò.

 La catapecchia era costruita tra le radici di uno degli alberi più vecchi, al livello del suolo della foresta. Nemmeno la spia del conte scendeva volentieri sul terreno, anche se con quel luogo aveva sviuppato una necessaria familiarità. Persino le belve della foresta si tenevano lontane dalla radura sulla quale si affacciava la porta della casupola, porta che si aprì proprio mentre il sicario si decideva a mettere piede a terra, per lasciar uscire un’ormai ben nota figura. L’Artiglio avvertì la familiare soddisfazione di una caccia trionfante, si appiattì contro la corteccia, corse con una mano al manico del pugnale, e si immobilizzò. Pochi passi ancora, ed avrebbe avuto l’avversario alla sua mercé. Ancora due, ed avrebbe affondato la lama nella sua schiena. Il notturno viandante si guardò intorno solo per un istante, prima di affrettarsi lungo il suo tragitto in salita. Ora era arrivato a  portata di agguato dal suo inseguitore, il mantello nero nuovamente parte dell’oscurità generale. Un balzo, un affondo ed una morte… che non ci furono. Lo superò e proseguì incolume per la sua strada. Durante il suo passaggio l’Artiglio trattenne il fiato. Nell’istante in cui li aveva separati solo un  passo, aveva notato una ciocca di capelli neri sporgere da sotto il cappuccio marrone, e due profondi occhi blu oscurati dalla notte e dalla stanchezza.

Nella sua preda, l’uomo del Conte aveva riconosciuto senza ombra di dubbio la regina Artemisia.

 

La mattina seguente al pedinamento notturno il bellissimo bicchiere destinato alla regina ed il bel bicchiere del conte si trovavano su un tavolo, affiancati come due bravi fratelli di fronte a Kraven, in attesa di essere riempiti, quando si aprí una porta segreta. Ne entrò il ceffo da patibolo dell’Artiglio del conte, il quale subito rivolse al suo aristocratico padrone la parola.

 “Vostra Grazia può dormire sonni tranquilli, la fattucchièra dei livelli inferiori é morta.”

“Ha confessato i suoi crimini prima di morire?” Chiese Kraven, senza neppure voltarsi.

“L’ho colta in flagranza con i miei stessi occhi, mio signore. Da mesi vendeva a voi il filtro d’amore e l’antidoto alla regina, raccomandandole di assumerlo appena alzata. In tal modo traeva profitto da entrambi.”

“Ingannare un nobiluomo é giá un crimine imperdonabile, ma per i traditori del proprio legittimo sovrano c’è la forca. Quindi direi proprio che giustizia è fatta. “ Il conte sorrise sotto gli infidi baffi, come se avesse detto una gran facezia. “Ed adesso vai, non devo fare aspettare Sua Maestà.”

Lasciato solo dal suo scherano, Kraven procedette a riempire i calici con la prelibata bevanda. Prima di avviarsi all’incontro mattutino si fermò un istante a fissare il castone dell’anello che portava alla mano sinistra. Lo sollevò con un’unghia, trovandolo pieno della sua letale polvere bianca. Kraven era una sorta di conoscitore, per quanto riguardava i venefici; a lungo aveva sperimentato su sventurati servitori quale veleno desse la morte più rapida, quella più indolore e quale quella più discreta. Il contenuto dell’anello primeggiava in tutte e tre le categorie.

Lo versò interamente nello stupendo calice dai rilievi in argento, il calice che era appartenuto al grande Negromante. Poi si avviò all’appuntamento.

Artemisia lo stava già aspettando, come di consueto, Artemisia dai folti capelli neri e dagli occhi blu, la cui bellezza ed evidente dolore avrebbero fatto vacillare il cuore di chiunque non amasse soltanto la ricchezza ed il potere, come Kraven.

“Come sta la Vostra maestà, oggi?” Esordí il conte.

“Sono stanca, Vostra Grazia. Non ho dormito bene.”

“Bevete questo vino, vi sentirete subito corroborata.”

Levarono i calici e brindarono alla prosperità del regno, li accostarono alle labbra per bere.

“Non bere, padrone, perché il vino che contengo è avvelenato.”

A parlare era stata una voce cristallina come un trillo di campanelle fatate , troppo acuta e melodiosa per provenire da una gola umana. Così Lucius di Anfipoli, nel costante timore di essere avvelenato, aveva incantato il bicchiere dal quale era solito bere. L’incantesimo era rimasto sopito per lunghi anni, dimenticato nella polvere di una vecchia credenza, finché le condizioni per il suo avveramento non si erano verificate ed il calice aveva fatto udire la sua voce.

Kraven sbraitava, alla ricerca di chi aveva svelato il suo complotto regicida ed Artemisia, sconvolta dalla rivelazione e sorpresa dalla sua fonte, si lasció scappare il bicchiere di mano.

Il calice di vetro intarsiato d’argento precipitó oltre la balconata, spargendo lungo la sua discesa una scia di vino e veleno sopraffini. Cadde attraverso livelli di rami connessi da ponti sospesi, passando di fronte a finestre di palazzi, abitazioni e stamberghe. Nel suo viaggio in direzione del terreno superó foglie ingemmate di rugiada, attraverso la quale, non meno splendida che per il suo tramite, splendeva la luce del sole in quel radioso mattino.

Il mondo era veramente un luogo bellissimo.

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