Lovecraft, ovvero i 100 dei “Miti di Cthulhu”
di Salvatore Santangelo
100 anni fa, nel novembre del 1919, appare sulla fanzine amatoriale The Vagrant (per essere poi ripubblicato nel ’23 su Weird Tales) il racconto di HPL: Dagon. Questo scritto, la cui prima stesura risale al luglio ’17, scatenerà – nella cerchia degli appassionati – un dibattito che spingerà lo stesso Lovecraft a replicare nel suo In difesa di Dagon (nell’antologia Teoria dell’Orrore, curata da Gianfranco de Turris per Castelvecchi): un testo in cui il solitario di Providence non solo rivendica «la dignità del racconto d’orrore sovrannaturale come forma letteraria», ma indica nella creazione «di stati d’animo e immagini mentali» in grado di catturare «sogni sfuggenti» il compito principale dello scrittore di letteratura fantastica; anzi la vocazione di questo tipo di “narratore” sarebbe proprio quella di «fissare questi stati d’animo», siano essi luminosi o oscuri. Ormai è assodato che Lovecraft non fu solo un innovativo autore di racconti fantastici, ma anche un acuto teorico della letteratura dell’immaginario, le cui interpretazioni sul “Mondo Secondario” hanno anticipato quelle di Tolkien e di Borges. Ma torniamo a Dagon, il racconto in cui – per la prima volta – compare una divinità del nuovo pantheon lovecraftiano: «Vasta e ciclopica», alla guida di Quelli-degli-Abissi (Deep one) e a sua volta asservita al grande Cthulhu, l’entità conosciuta come Dagon avrebbe un aspetto vagamente umanoide con «mani e piedi palmati, labbra enormi e mollicce, occhi vitrei e sporgenti e altri tratti ancora più spiacevoli» e passerebbe gran parte del suo tempo a dormire in un crepaccio sul fondo dell’Oceano sotto strati di fango, emergendo soltanto per presenziare ai riti che in suo onore vengono officiati dai Deep one o da umani degenerati. Il culto di Dagon esisterebbe da millenni ed è anche il protagonista dell’altro racconto di HPL, La maschera di Innsmouth. Con Dagon – secondo Michel Houllebecq – sfioreremmo per la prima volta il cuore più profondo della creazione di Lovecraft, quella del corpus che prenderà definitivamente il via con il Richiamo di Cthulhu (1926) e che ci fa entrare in «una gigantesca macchina per sognare, una macchina di grandezza ed efficacia inaudite».
Proprio per questo, per gli esegeti di HPL, dalla data delle prima pubblicazione di Dagon andrebbero conteggiati i 100 anni dei Miti di Cthulhu che, assieme alla creazione del più famoso libro inesistente – il Necronomicon – hanno portato Lovecraft a rivoluzionare la narrativa dell’orrore modificandone canoni e punti di vista.
Tra l’altro, sempre nel ’19 Lovecraft scriverà La dichiarazione di Randolph Carter, in cui appare un personaggio – Randolph Carter appunto – che sarà il protagonista di un successivo, intero Ciclo di racconti e romanzi brevi (di ambientazione onirica, come la Chiave d’Argento e Alla ricerca del misterioso Kadath), e – nella cronologia parallela dell’universo lovecraftiano – è anche l’anno che darà l’avvio alle drammatiche vicende narrate nel romanzo Lo strano caso di Charles Dexter Ward.
In questa letteratura – ammonisce sempre Houllebecq – «non vi è nulla di distaccato né di discreto; l’impatto sulla coscienza del lettore è di una brutalità selvaggia e spaventosa, e si attutisce solo con infinita lentezza. Dedicarsi a una rilettura non produce alcun cambiamento significativo, a parte arrivare a chiedersi: come fa?».
Dalle pagine di HPL percepiamo subito che gli scrittori del fantastico sono “in genere” dei reazionari per il semplice fatto che sono professionalmente coscienti dell’esistenza del Male e scorrendo le sue pagine siamo colpiti da una semplice realtà: l’evoluzione del “mondo moderno” ha reso più presenti, ancor più viventi le fobie lovecraftiane. Lo smalto della civiltà si screpola; le forze del caos aspettano «con somma pazienza e somma potenza» perché sanno che torneranno a regnare sulla Terra. E, più in profondità rispetto alla riflessione sulla decadenza, c’è la paura: paura che viene da lontano e produce disgusto, che a sua volta genera indignazione e quindi odio.
Forse non è un caso che i racconti del Ciclo anticipino di poco l’inizio della Grande crisi economica del 1929 e accompagnino tutta la sua deflagrante esplosione; come ha affermato Jacques Bergier: «Forse per apprezzare Lovecraft occorre aver molto sofferto».
Oggi HPL è ovunque, si tratta di un brand potente e pervasivo che dalla cultura underground e di nicchia è pronto a contaminare il mainstream. I suoi personaggi, i suoi dèi, i suoi mostri, la sua pseudogeografia (Sarnath, Miskatonic, Arkham, la già citata Innsmouth solo per ricordare alcuni di questi luoghi “infestati”) sono entrati stabilmente nel nostro immaginario: negli scaffali delle librerie, le sue opere sono riproposte in numerose edizioni, le sue citazioni nutrono creazioni culturali che vanno dal fumetto, al videogame, al boardgame fino alla musica, passando per il gioco di ruolo; che tra l’altro è diventato una vera è propria forma di letteratura a se stante (il Richiamo di Cthulhu edito dalla Chaosium è giunto alla sua VII edizione mentre è stata appena realizzata una specifica ambientazione legata ai Grandi Miti pensata per Dungeons&Dragons – volumi entrambi pubblicati in Italia dalla Raven).
Proprio nei prossimi mesi nelle sale italiane approderà il film Il colore venuto dallo spazio – adattamento cinematografico dell’omonimo racconto (con Nicolas Cage, diretto da Richard Stanley e recentemente premiato come miglior lungometraggio nell’ambito del Lovecraft Film Festival)
Qualche anno fa, un team internazionale di ricercatori coordinati dal Museo di storia naturale dell’università di Oxford, ha persino ribattezzato un fossile di 430 milioni di anni fa – rinvenuto nell’Herefordshire (Regno Unito) – Sollasina cthulhu proprio per la sua somiglianza con l’immagine dell’inquietante mostro lovecraftiano dotato di un’analoga «testa flaccida da polpo, con tentacoli».
Ma oltre tutto e forse al di là della sua stessa opera, quello che desideriamo sapere è qualcosa di più su Lovecraft come individuo e sul suo modo di costruire il suo mondo, di sognare appunto.
In quanto esseri umani nati a cavallo tra due secoli materialisti, il suo cosmo disperato ci appartiene in ogni senso e vorremmo appunto far nostra la sua stessa visione del mondo: «Non chiedo mai a un uomo che lavoro fa, non mi interessa. Gli chiedo dei suoi pensieri e soprattutto dei suoi sogni».
Perché – come ci insegna la poesia – solo i sogni possono offrirci un’alternativa alla vita, un’opposizione permanente e un permanente rimedio alla vita stessa.