L’editore siciliano “Il Palindromo” in tempi recenti si è notevolmente distinto per le sue pubblicazioni curatissime (a livello materiale quanto contenutistico), in particolare nella collana “I Tre sedili deserti” dove gli appassionati del fantastico possono finalmente incontrare testi dei più grandi maestri del genere corredati da illustrazioni e apparati critici.
La proposta editoriale de “Il Palindromo” si arricchisce ulteriormente con questa “strenna” natalizia, ovvero la riproposizione di “Pinocchio. La storia di un burattino” di Carlo Collodi, prima versione stampata nel 1881 per i lettori del “Giornale per i bambini”. Ovviamente questo Pinocchio “embrionale” presenta notevoli differenze, sia tecnico-formali e etico-narrative, con il testo che tutti conosciamo. Come suggerisce la nota redazionale del volume (pp. 121-125) la divisione in capitoli sorge meramente per esigenze editoriali imposte dal redattore Guido Biagi, inoltre il racconto di Collodi è sprovvisto dei riassuntini introduttivi di stampo pedagogico posti a inizio capitolo (cosa che avviene nell’edizione a volume), ma soprattutto il Pinocchio “originale” è sprovvisto dei numerosi capitoli che l’edizione “classica” ha, il risultato è un racconto più breve ma in qualche modo più intenso e intrigante. Un racconto che in un’apparente versione tronca conserva invece un nucleo di tetra originalità e più coeso agli intenti del suo autore, in futuro costretto dagli editori a edulcorare il suo Pinocchio.
Il testo, al modico prezzo di 15 euro, oltre a presentare la curatela di Salvatore Ferlita è illustrato da una mano molto originale, quella di Simone Stuto. L’artista Stuto accompagna le vicende del burattino di legno con tratti oscuri e evocativi come se impugnasse una matita stregata capace di aprire le porte dell’Averno. Un oltretomba fumoso e sporco che si insinua nel tratto e nella conformazione del disegno dando uno spessore di oscura caligine e spettralità alle sue creazioni. Pinocchio, Geppetto, Mangiafoco etc sono deformati e corrotti da questa “tremante” abilità artistica. A mio avviso, Stuto, con tratti volutamente traballanti oltre a conferire una grigia dinamicità ai suoi soggetti ne evidenzia la debolezza interiore, tipica di Pinocchio o di Geppetto; l’uno incapace di obbedire e non lasciarsi guidare da vacue tentazioni l’altro inetto a imporsi alla creazione che ha modellato con le sue mani.
Come si potrà evincere dalle illustrazioni il racconto è ben meno felice e giocondo di quello che siamo abituati a conoscere, anzi è corroso da sequenze fosche e crepuscolari che proiettano il lettore in un grigio limbo narrativo. Quindi non posso che concordare con Manganelli che descrive il Pinocchio primigenio come avvolto da un’aurea di “notturnità”, ove il nero è ben più presente della bianca innocenza della fanciullezza. Ovviamente non siamo dinanzi a un testo orrorifico e decadente bensì rientriamo nel regno del “romanticismo nero”. Tant’è, forse involontariamente, l’incendiario Collodi si raccorda alla tradizione fiabesca e favolistica dei fratelli Grimm, ove i loro racconti sono popolati da meschinità, atti crudeli e finali per niente lieti. Questo è doveroso sottolinearlo, la nostra modernità (plasmata malamente dai mass-media) ha trasformato i miti e le fiabe in prodotti (orali, scritti o audiovisivi) destinati solo a un pubblico infantile, quando invece la verità è totalmente diversa. Il mito (inteso come macro-ente e ricettacolo di leggende, fiabe e favole) è una visione ancora più reale del nostro cosmo interiore, è una verità parlante e mutevole che ammaestra coloro che sono capaci di ascoltare, così come i bambini che gli adulti. Ora per inclinazione il bambino è più vicino, con la sua ingenuità e innocenza, a entrare in contatto con il mondo fatato e mitico, poiché non è stato manipolato da un imperante pragmatismo della ragione; cosa che accade all’adulto. Per queste istanze probabilmente le favole si sono involute in prodotti esclusivamente pedagogici perdendo le funzioni primordiali dei nostri avi. Stessa cosa è successa a Pinocchio, nato come fiaba oscura e mitica e plasmata in opera di ammaestramento morale. Bisogna anche portare l’esempio Disney, ove il colosso americano ha ancor di più accentuato gli aspetti comici e infantili della storia collodiana già messa a dura revisione. Tale atto trasformativo è perfettamente in linea con quello accaduto a Pamela L. Travers, l’autrice australiana (dal sangue irlandese) di Mary Poppins. La Travers litigò animosamente con Walt Disney affinché il film tratto dalla sua opera fosse il più vicino possibile ai suoi intenti, purtroppo Disney aveva una visione totalmente diversa della mitologia e della narrativa (visione ancora oggi imposta) la quale si basava esclusivamente sul “if you can dream it, you can do it”. L’operazione disneyana è volta a impoverire il substrato mitico-favolistico dei racconti originali e a metabolizzarli con un’ottica moralista e positivista. La Travers, invece, dal canto suo si impose per sottolineare i caratteri folklorici e mitici del suo racconto; ella vedeva nei miti e nelle fiabe un pathos quasi drammatico (tragico come quello ellenico), dove il dolore è un puro indizio della ricchezza della storia, perché crudeltà e morte sono gli elementi principali della nostra vita e le favole non ci devono mai allontanare da queste realtà, che seppur dolorose sono univocamente presenti.
Da questi esempi vediamo come il substrato mitico delle storie moderne sia sempre stato eroso per simulare un prodotto fanciullesco e più vicino alle speranze positiviste dei secoli moderni. Riproporre questo Pinocchio è un tributo non solo agli intenti originali di Collodi ma anche a tutte quelle favole e fiabe oltremodo amputate della loro bellezza tragica.
Il Pinocchio del 1881 finisce con la morte del burattino, impiccato alla Grande Quercia per mano di spregevoli criminali. L’ultimo grido di Pinocchio è rivolto all’unica persona che abbia tenuto a lui “Oh babbo mio! se tu fossi qui!”, tale finale si allaccia ovviamente a quello della figura di Gesù ma è ancora più caustico. Se Gesù muore per i peccati degli uomini, Pinocchio muore senza una vera ragione e soprattutto muore senza aver raggiunto la metamorfosi in “bambino vero”. Il legno torna al legno. Muore soprattutto dopo aver incontrato altri presagi scuri e infernali, come la pallida bambina nascosta nella casetta che ricorda più una tomba che un rifugio per scampare ai manigoldi sanguinari.
Comunque il parallelismo cristologico rimane valido con la “vulgata” di Pinocchio, ovvero la versione classica spurgata dagli elementi “negativi” di Collodi.
Nell’interessantissima introduzione di Giuseppe Lupo, volta ad esaminare i parallelismi tra la storia di Pinocchio e quella di Gesù nell’edizione Morcelliana 2019 veniamo a sapere di questa speculazione di matrice cardinalizia (Monsignor Giacomo Biffi:
Sono figli di falegnami e appartenenti a famiglie anomale, entrambi con un padre putativo, uno però ha la madre certa, l’altro no. L’idea funziona. Come Cristo, infatti, anche Pinocchio ha avuto la sorte del profeta Giona, rimasto tre giorni nel buio chiuso di una balena. In un certo modo, perfino la parentela esplicita con il legno è un elemento che li avvicina moltissimo, arrivando quasi a sovrapporne l’epilogo: tutti e due muoiono per rinascere a nuova vita. Se è vero che Cristo e Pinocchio condividono un destino parallelo, a questo punto nulla vieta di spingersi ancora un poco oltre il semplice accostamento e giungere a un’ipotesi altamente fantasiosa, per quanto paradossale. Pinocchio potrebbe essere stato un oggetto creativo di un Gesù in una fase non ancora epifanica del suo mandato – un Gesù non del tutto consapevole di diventare Cristo-, un adolescente che nel suo apprendistato artigiano, in un tempo precedente gli anni cruciali della predicazione, si sarebbe dedicato a elaborare un sogno fanciullesco: quello di regalare a un pezzo di legno l’imitazione del corpo umano fino ad avviarlo verso una natura di carne. Il vero artefice di Pinocchio non sarebbe Geppetto, ma Gesù.
[Collodi, Le avventure di Pinocchio, introduzione di G. Lupo, Morcelliana, 2019, p. 5]
Tale asserzione è in lotta con l’anticlericalismo di Collodi, anima incendiaria e ribelle ma non per questo lontana dalla redenzione e dalla riflessione cattolica. C’è da aggiungere che l’immaginario collodiano proietta Pinocchio in mondi fantastici abitati da inaffidabili personaggi bizzarri, e che nutrono il dubbio del lettore quanto quello del burattino; dubbio come motore della trasfigurazione e della crescita personale di Pinocchio, il quale senza una auto-indagine non rincorre a nessuna trasformazione dell’io morale. Infatti la versione “oscura” è esente da questa metamorfosi psico-fisica, rendendo la lettura così agrodolce da risultare ancora più coinvolgente della versione più famosa.