
La casa editrice “Tre Editori” si è sempre distinta per le sue pubblicazioni di qualità, portando all’attenzione del pubblico, generalista o più appassionato, testi del genere fantastico nelle più svariate sfumature. Tale linea editoriale prosegue con la recente pubblicazione di Ratman di Stephen Gilbert (1912 – 2010), romanzo dalle tinte orrorifiche e fantastiche scritto nel 1968 e che ispirò il lungometraggio Wilard e i topi del 1971. Inoltre il testo presenta due illustrazioni e il saggio critico di Andrew Doyle Il signore dei ratti.
Il romanzo nasce dopo un notevole silenzio letterario dell’autore ma in cui si evince la maturazione artistica di Gilbert e lo studio praticato negli anni per arricchire il suo scritto di sorprendenti connotazioni. La narrazione si avviluppa intorno alla figura del compilatore del diario (Ratman’s notebook, titolo originale), un uomo qualunque che convive con l’anziana madre e sepolto nell’ombra di un padre deceduto ma di successo. A Belfast, nella casa del protagonista c’è una virulenta infestazione di ratti e la madre gli ordina di correre ai ripari e di uccidere i topi. Il protagonista ovviamente si cimenta nell’impresa ma poi subentra un feeling inaspettato. L’istinto di distruzione dei topi si placa, anzi prende il sopravvento il bisogno di comprensione e di comunicazione. Il nostro uomo perciò inizia a comunicare con i topi, i quali sembrano essere eccezionalmente ricettivi agli stimoli del loro nuovo padrone. Il sodalizio uomo-topo si accresce al punto di non ritorno, l’uomo non è più un mediocre essere passivo della società moderna ma un super-uomo che riesce a controllare le orde dei ratti. Perché non usare questo inaspettato dono dell’inferno a suo piacimento?
I topi non sono più un passatempo giocoso o meri compagni per spezzare la malinconia e la solitudine ma diventano gli strumenti per compiere il male. Perciò il protagonista prende di mira il suo datore di lavoro, Mr. Jones, volgare e meschina figura che gode nell’umiliare gli altri e che non si risparmia di denigrare il nostro Ratman. Il romanzo non presenta forti colorazioni splatter o violente bensì ritrae le debolezze e le forze psicologiche del protagonista, intento a elaborare la propria vendetta con lucida determinazione e sofisticata programmazione. Come già detto l’uomo mediocre si è evoluto ( o involuto in qualcosa di più primitivo) in super-uomo in grado di tessere le trame del proprio destino e delle sue vittime, non agente irrazionale del “male” ma attore primario delle sue “ragionate malefatte”.
A metà tra horror e thriller il romanzo è un caposaldo non solo del genere fantastico ma anche della letteratura “realista”, l’alleanza uomo-ratto non si traduce in vacuo atto ludico propenso a stupire il lettore ma è una sottile allegoria della società dell’autore. L’alleanza protagonista-bestie quindi è lo specchio delle pulsioni sociali del tempo, degli emarginati che lottano con gli altri reietti contro i loro oppressori e le false autorità che plasmano in peggio il destino di Belfast.
La forza culturale di Gilbert si palesa anche in sottili citazioni sparse per il libro, tra le tante che ho apprezzato vi riporto un esempio. Il topolino preferito dal nostro anti-eroe si chiama Socrate. Il nome non viene dato senza ragione. Socrate era il filosofo greco famoso per indurre gli alti a partorire la verità, tramite l’arte della maieutica, a interrogare e a domandare senza mai rispondere. Perché la filosofia è indagine e speculazione, non campo di prova delle più bizzarre risposte. Il ratto socratico cosa fa allora? Stimola il suo padrone-amico a rilasciare la “verità”, provoca nell’uomo una serie di ragionamenti e di domande senza risposte che avvampano la sua rabbia. Quello che fa il topolino Socrate è di dimostrare che l’uomo inutile, mediocre e apparentemente innocuo del nostro tempo può inconsciamente covare un mostro. Chiamiamola maieutica dell’orrore.
Ovviamente il tutto si erge una struttura narrativa modellata su una costruzione archetipica, quella del pifferaio magico di Hamelin, personaggio appartenente al folklore germanico del XIII e rievocato fino al romanticismo tedesco. Nella fiaba di origine sassone il pifferaio salva la cittadina di Hamelin da una invasione di ratta suonando il suo flauto magico e attirando gli animali dietro di sé e facendoli affogare nel fiume. Poi il borgomastro e il popolo rifiutano di pagare l’uomo il quale si vendica sui bambini del borgo (cfr. Notturno, di Ian Delacroix, un’altra rivisitazione dark della fiaba).
Oltre agli innesti archetipici/mitologici e filosofici il romanzo racchiude un nucleo dal sapore mitteleuropeo perché si riallaccia alle atmosfere del romanzo/capolavoro di Robert Musil L’uomo senza qualità. Il romanzo di Musil è un ritratto di un’Europa decadente e arrendevole, popolata da pallidi individui anonimi e ovviamente inutili, nel romanzo il dittico-ossimoro “mediocrità e genialità” è eternamente presente. L’uomo è un essere mediocre sballottato tra le grandezze e le bassezze morali come un atomo di gas, soltanto il genio non si lascia deteriorare dalle forze del mondo. Ma anche il genio può rincorrere ad essere un burattino del tempo e della storia umana, perché colui che usa la sua genialità per non raggiungere la grandezza d’animo rimane comunque mediocre e senza qualità. Gilbert propone il medesimo modello, il protagonista è un uomo inetto e umiliato da tutti ma per qualche oscura ragione riesce a controllare la mente dei ratti, qui subentra il genio, ma la sua forza nuova (capace di tramutarlo in un genio dalla grande anima) non lo proietta verso mondi migliori, al contrario verso realtà sanguinose e violente. L’allegoria gilbertiana è spietata anche con questo esercito di topi l’uomo rimane un essere mediocre che non sa evolversi in toto. Il tutto si riflette nello scioccante finale.