I racconti di Satrampa Zeiros – “La congiura” di Domenico Mortellaro

Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare Domenico Mortellaro, autore emergente e vincitore della IV Edizione del Concorso Thoth-Amon, che ci propone “La congiura”, racconto di fantasia eroica mediterranea ambientato nella Puglia (nel periodo precedente alla conquista romana) di circa 19.000 battute.

Buona lettura.


Autore

Domenico Mortellaro, classe 1979, è un criminologo e sociologo del crimine e della devianza. Nella vita scrive, scrive, scrive. All’attivo, pubblicazioni accademiche sui temi dell’omicidio seriale e su quelle dei sistemi criminali. Collabora con settimanali e quotidiani, nazionali e locali. Gestisce ed anima un blog di approfondimento sui temi della Camorra barese. In corso di edizione, per i tipi della Radici Future, il volume storico “Bari Cal.9 – Storia della Camorra barese”. Accanto alla passione per la criminologia, quella per la letteratura e le culture dell’inquietudine. Ha un thriller in corso di edizione per una CE di cui – per scaramanzia – in pubblico non farebbe nome nemmeno sotto tortura. Ha pubblicato numerosi racconti, alcuni ospitati in antologie nazionali con lo pseudonimo di Aleks Kuntz e alcuni e-book autoprodotti col suo nome. Ha partecipato con tre racconti all’antologia “Thanatolia”. Innamorato della sua terra, lavora da tempo a racconti che sposino i dogmi del fantasy ai grandi misteri attorno alle popolazioni pugliesi di epoca preromana – Peuceti su tutti. Stregato come tutti i sociologi dalla lettura del presente e dalla scommessa sui futuri possibili, si occupa anche di fantascienza sociale e di distopie – non solo dal punto di vista squisitamente romanzesco. 


Sinossi

Enchileo, eroe delle genti di Taranto, si ritrova a dover far fronte ad una congiura ordita da un ricco pretendente al trono di Taras. Arcade, il congiurato, servendosi di uno dei suoi figli, Adrume, ha aizzato una banda di predoni deformi, devoti di antichi culti bestiali. Con loro ha preso a far razzia di ville e contadi. Questa volta, accanendosi contro una famiglia amica proprio dell’eroe tarantino. Tachione, Basileo sempre più in bilico in una Taras sempre meno governabile, ordina al Campione di risolvere la faccenda. Ad Enchileo e ad Erit, la sua bastarda da guerra, il compito di fronteggiare questi abomini. E di scoprire come, ancora una volta, nell’ombra, non si agitano solo politicanti arraffoni e congiurati, ma anche divinità innominabili, molto più antiche delle stesse genti appule.


LA CONGIURA*

 di Domenico Mortellaro

* “La congiura” è il racconto con cui Domenico Mortellaro si è aggiudicato la vittoria nella IV Edizione del Concorso Thoth-Amon.

 

“Chi c’era con te? Chi ti sei portato dietro, carogna?”

Maglio di nocche contro lo zigomo. L’impatto rimbomba nel polso, scuote il gomito. Gli sganasso due mole dalla gengiva; i denti colano giù, fuori dal labbro, con un rivo di sangue e bava. Non ha nemmeno la forza di sputarli. La testa gli crolla di lato. Ha l’aria di una bestia che sta crepando, ma il respiro è il rantolo di chi ha ancora forza per pomparsi aria dentro e fuori.

Adrume non morirà.

Non nei prossimi istanti, almeno. Ed è un bene.

Non può crepare ora!

Non prima di aver confessato. Non prima di aver detto al re chi l’ha accompagnato, nella razzia della sera prima. Non prima di aver detto a me, qui e ora, dov’è che hanno trascinato Crisia. E cosa le hanno fatto.

Purtroppo, le informazioni che interessano a me sono di importanza secondaria.

Quel che conta è che ammetta di essere stato lui. E faccia il nome dei suoi compari.

Non solo prima di crepare.

Deve farlo prima che alla sua famiglia arrivi la voce che io, Enchileo, il Campione di Taranto, l’ho trascinato a pugni e calci davanti al Basileo. Per chiedere giustizia di un’empietà. E per vederlo bandito – sempre che resista all’interrogatorio. 

Adrume, la carogna accasciata ai miei piedi nel suo stesso piscio, però, questo lo sa bene: senza una confessione, al primo scalpiccio dei calzari di suo padre dovrò lasciarlo. E prepararmi a subire io l’ira della sua famiglia. Ecco perchè l’infame serra i denti fino a farsela sotto, ma non parla.

Lo sa bene anche Tachione, il Basileo. Ecco perchè non la smette di vorticare nervoso alle mie spalle.

Alla Legge non basta sapere che questo vigliacco ha fatto scempio di una famiglia di villici, ha razziato una vigna, ha rapito una fanciulla. Quel che succede fuori dalle mura, alla Legge, non interessa.

Al Basileo serve altro.

Serve sapere che quell’orgia di sangue e violenza è stata commessa in combutta con genti straniere. E serve sapere che, come le decine che si sono susseguite negli ultimi due anni, serve a mettere paura alla gente dentro le mura. E a far tremare lo scranno sotto il sedere di Tachione. A far dire a Taranto che quello lì sopra non è un Basileo valente. E che è necessario buttarlo giù. E mettercene un altro, lì sopra. 

Non ho molto tempo. La notizia della mia sfuriata starà viaggiando veloce. Sarà già arrivata all’orecchio di Arcade, padre di questo sciagurato, mercante gonfio di lardo e stateri. E principale pretendente del trono cittadino.

– Enchileo…

Il Basileo, alle mie spalle, ha la prontezza di rubarmi l’ultimo istante.

Mi congelo con la canaglia di fronte, sospesa a due spanne da terra. Paralizzo il destro, già stretto, pronto a schiantarsi sul grugno osceno di Adrume. Torco la testa verso la voce. Il porco di fronte rantola appena.

– Tiragli fuori quei nomi o prima di sera le navi di Arcade salperanno per Sparta a rifornirsi di uomini, elmi e spade – il Basileo prende un respiro – E quando torneranno troveranno te a penzolare dal faro.

Mollo la presa.

Guardo Adrume ricadere nella pozza delle sue vergogne. Mi volto. Scosto spiccio. Tachione che mi sbarra il passo verso lo scalone d’ingresso. Fulmino con lo sguardo uno degli opliti di picchetto: da Campione posso permettermi certe confidenze col Basileo. Poggio una mano sulla corazza del soldatino e sento la scorza di bronzo rimbombare a vuoto.

– Da voce: a nessuno venga in mente di mettersi di mezzo…

Sputo fuori dalle labbra un sibilo stridente e tre fischi ritmati.

Normalmente le fiere non sono ammesse al palazzo del Basileo. Nè dove si esercita giustizia. Questo, però, è un caso eccezionale.

Erit ha fama di essere stata sputata fuori dall’Inferno, scacciata pure da Ade in persona per la sua ferocia. A Taranto qualcuno afferma che il suo morso maledica, i suoi denti siano fuoco, la sua bava veleno. Sul campo di battaglia non mi ha mai tradito; tornerà buona anche con questa carogna.

La galoppata possente l’annuncia dalle prime falcate. I soldati sull’uscio si scansano. Il più anziano cerca lo sguardo del Basileo, ma le zampe della belva sono già oltre la soglia dorata. Erit s’immobilizza ad un passo dalla punta dei miei piedi. Abbassa il capo, porge il collare. Si lascia prendere dalla scorza e segue ogni passo. Fino a trovarsi di fronte Adrume, quella pantomima di uomo.

Il ringhio del sangue, di padre molosso, minaccia. Le zanne affilate del lupo, da parte materna, scherniscono. Erit fiuta l’aria: riconosce nell’afrore del sangue e dell’urina il terrore. Quel corpo per terra, animato solo dagli istinti delle prede, le fa bollire il sangue.

– Non ho più tempo, infame…

Non ho bisogno di terminare la frase. La fama di Erit è più efficace di qualsiasi minaccia.

– Flogoreo… lui, i suoi figli…

Tachione per poco non crolla al muro. Poggia la mano. E sul dorso fa crollare la fronte. Riscopre il coraggio che prima non trovava.

– Vi siete mischiati a quegli animali?! Nemmeno quelle bestie dei Messapi li hanno mai voluti…

Quello di Tachione è un ringhio di disgusto. Sento il respiro, dietro le spalle, crescere e farsi feroce. Adesso! Ora che sotto il sedere lo scranno gli traballa meno. Indovino i suoi movimenti dall’ombra per terra. Faccio appena in tempo a schermare quella carogna col braccio, prima che il Basileo non la travolga col piatto dello zifo. Tachione avrà anche avuto quel che voleva; io no!

Crisia non può restare nelle mani di quelle belve.

 

Che qualcosa di strano fosse successo, alla vigna di Destode, l’avevo capito subito, all’alba, appena salito sul tetto. Il fumo che saliva oltre l’uliveto non era lo sbuffo del focolare. La voluta che s’alzava era nera. Garriva prepotente.

Non avevo aspettato che la zidera finisse di bollire. M’era bastato un cenno ad Erit che pestava l’erba ai margini del focolare per ritrovarmela di fianco, a tre braccia dagli zoccoli pesanti di Zartas.

Avevamo divorato le zolle e le selci della strada in pochi respiri.

In un silenzio irreale, rotto soltanto dai nostri respiri.

Un silenzio che sapeva di morte.

La tavola, sullo spiazzo, era stata rovesciata. Lo stabulare delle capre sfondato. Forse qualche bestia era riuscita a scampare alla furia. La maggior parte era rimasta a terra, nel sangue. I corpi spaccati, i ventri squarciati: una ferocia vergognosa.

Le bestie s’ammazzano ogni giorno.

Le bestie si allevano per questo: crepare per sfamarci. O per rallegrare gli dei.

Quelli che le capre avevano addosso, però, non erano i tagli di un sacerdote. Nè quelli di un macellaio. Erano gli stessi che facevano mostra sulla testa del vecchio Destode, crollato a due passi dalla soglia. E nel ventre di sua moglie, trascinata sull’aia, le vesti strappate, l’intimo svelato al cielo, le palpebre spalancate, senza pietà né vergogna. 

La vigna era distrutta, le viti spogliate. 

Dalle finestre il fumo nero di un fuoco che aveva incenerito tutto. 

Avevo cercato Crisia, urlato il suo nome. E quello di Tàlote, il fratello minore. Uno sguardo veloce mi aveva fatto capire che oltre l’uscio non avrei trovato niente di vivo.

Fu Erit, con una coppia di abbai, a richiamare la mia attenzione. Aveva seguito una scia di sangue di cui nemmeno m’ero accorto. Dritta fino a Tàlote.

Rantolava con gli ultimi respiri. S’era finto morto. Aveva aspettato che quei depravati finissero i loro comodi. S’era morso il polso a sangue, pur di non fare un fiato. Li aveva visti gettarsi sua sorella da una mano all’altra. Li aveva visti massacrare le capre. Poi aveva provato a strisciare per mettersi in salvo. Aveva resistito tutta la notte. M’era crepato in braccio, con uno squarcio troppo grosso nella pancia. Non era riuscito a riconoscere altri che Adrume, però.

 

– È il padre che dovresti mettere a morte, Tachione. Arcade dovresti mettermi davanti!

– Non sai di che parli…

– Lo so meglio di te. E lo sai pure tu: per un Basileo che combatte con onore posso morire da Campione. A un mezzo re che mendica i giorni, la pelle non la regalo…

– Come osi?!

Non gli do la soddisfazione di uno sguardo. Gli opliti ci fissano; non dovrei prendermi certi lussi. Tachione, però, lo sa che ho ragione. E sa di avere bisogno di me.

– Non ti decidi a chiedere aiuto a tuo fratello, perché sai che nessuno scommette su un Basileo senza eredi. Non ti azzardi a cercare fuori alleati feroci con una buona figlia in età da sposarsi e figliare, perchè hai un suocero che ti allunga qualche sacca di stateri per tirare a campare. E così, non scacci a pedate quella vacca vecchia e grassa che tieni nel letto, nella speranza che la prossima volta ti sforni un maschio… – trattengo uno sputo – Il tempo passa, Tachione. E Taras è sempre più un catino che ribolle.

– Da quando un barbaro ne sa di politica?

Mi guardo gli sgarri ai polsi prima di rispondere.

Non posso dimenticare che quello di fronte è l’uomo che m’ha reso libero. È l’uomo che da schiavo m’ha fatto Campione. Forse è proprio questa riconoscenza che mi obbliga ad essere sincero: la lingua un pugno, la parola un ceffone.

– Politica?! Ho sangue barbaro. Mi ha fatto da padre una bestia lucana, ho fatto da schiavo di guerra per i Brutti. La vostra politica non voglio capirla. Mi disgusta. I Signori scelgono, non aspettano. I Signori prendono, non chiedono…

– Bada…

– I Signori mettono a morte per mostrarsi Dei.

Il pugno che Tachione ha stretto per colpirmi in faccia si scioglie a una spanna dal mio grugno. Non riesce a reggere il mio sguardo, vacilla sotto quelle parole. Mi dà le spalle, avanza verso Adrume. Sfoga la rabbia su quel corpo con una pedata al volto. Abbaia agli opliti di guardia.

– In armi, un paio di dozzine! Confinate il padre di questo sciagurato in casa. Non getti fiato fuori!

Ansima, dopo quell’ordine che lo rimette sul trono. Mi fissa.

– Prendi gli uomini che ti servono. Portami la testa Flogoreo e di quelle bestie dei figli!

Gli uomini che ti servono… Come se non sapesse che per mettere in riga una mezza dozzina di predoni debosciati io e Erit bastiamo! Non c’è verso: qualche soldatino dietro dovrò portarmelo… Si chiama politica.

 

Si dice siano tre, i figli di Flogoreo. Che per averli abbia preso a forza sua sorella. E l’abbia tenuta in vita per nutrirli fino a che quegli abomini non hanno saputo far da sé.

La collera di un dio – messapico, greco, illiro – li ha maledetti: quel che toccano marcisce, quel che maneggiano si guasta. Deformi nel corpo e corrosi nell’animo: non conoscono altro che la violenza. Prendono quel che serve. Da mangiare, da possedere. 

Sprono i sette opliti che si affannano sui ronzini dietro me, Zartas ed Erit. Verso le grotte sui colli di Urra, lì dove la terra dei Greci si ferma e comincia quella dei Messapi. Non è un mistero dove si nascondano quelle belve.

Tutti i villaggi messapi conoscono la ferocia delle loro razzie. E una buona parte dei villici greci, fuori dalle mura di Taras e di Kalepolis, ha già assaggiato il filo sbrecciato delle loro lame. Stragi così, però, non se n’erano ancora viste. Non prima che Arcade non decidesse di servirsi di quegli abomini per screditare il Basileo.

Un terrore che oggi dovrà finire.

Penso a Crisia, tra le mani di quelle belve. Penso a Crisia, che desidero da anni e non posso avere, perchè gli Dei vietano a un Campione di scegliere una donna. Penso a Crisia, che m’avrebbe voluto, in segreto, ma non ho mai sfiorato.

Pesto i calcagni nei fianchi di Zartas: devo fare presto!

 

I declivi e le grotte hanno in faccia il tramonto. Il rosso colora la terra e tinge i pensieri col sangue. Smonto, sfilo la roncola. Sibilo e mi ritrovo Erit di fronte: narici dilatate, nervi pronti a scattare.

Do ordine agli opliti di scendere.

– Inutile perdere tempo… – indico col mento il muso di Erit al mio fianco – Punterà lei la grotta; le sue narici non mentono. Pensate poco, entriamo rapidi, facciamo contenti gli Dei: bestemmie come quelle non meritano di respirare.

I soldatini, alle mie spalle, bisbigliano confusi. Le scuole spartane rifiutano l’improvvisazione, vivono di strategie. Il sangue che mi scorre nelle vene, invece, non conosce logiche. I Lucani che mi hanno cresciuto predicano furia. Vurro, che a modo suo m’ha fatto da padre, non ha indietreggiato nemmeno crepando. Oggi, i soldatini conosceranno il mio modo di mettere ordine. Dovranno essere barbari, stranieri. Oppure, crepare.

Perdo solo un altro istante per guardarli negli occhi, uno per uno. Qualche palpebra trema; le mani no. Impugnano gli zifi, stringono gli scudi.

Mi giro. Tre spanne davanti a tutti gli altri. Occhi alle grotte. Piego il ginocchio per avvicinare le labbra ad Erit. Strizzo le palpebre, fermo il respiro. Non ho bisogno di parole. Non ce n’è mai stato bisogno e non so perchè. Con nessun figlio di un lupo. Con lei, poi! Mi è sempre e solo bastato pensare. O sentire. Era come se a pensare e sentire fosse lei.

Erit punta una delle tre bocche nere in grembo alla collina. Tira forte. Serra le fauci, tiene il fiato. Occhi di fuoco e nemmeno un ringhio: è quella che fissa ora la grotta giusta.

 

Passo svelto, armi in pugno. Serro la correggia della roncola al polso. Meno passi ci separano dall’antro di quelle belve, più forte si fa la puzza di stalla, l’olezzo di bestie, escrementi, vergogne. Sale il fetore. E salgono grugniti sordi, suoni di gola e di pancia. Sale il rullo sordo e fuori ritmo di qualcosa che viene percosso a forza. Coi palmi delle mani o col dorso del pugno. Il belato delle due o tre capre rimaste non deve impensierirci: si stavano disperando già da prima, con gli occhi sgranati allo spettacolo della grotta, nel tentativo di fuggire.

Mi pianto, dritto di fronte alla bocca dell’antro. Dietro, i passi si fermano. Sollevo la mano, pronto a dare l’ordine. Solo uno sguardo veloce ad Erit, di fianco.

La sento.

Nella testa prima che dalle orecchie. Sento le mole che sfrigolano nel digrignare sordo. E quello stridere di ossa contro ossa mi vibra nelle mascelle. Come fosse mio. D’istinto porto una mano sotto la narice, al calore che mi cola giù denso e lento, fino al labbro. Succede sempre, quando io e quell’essere comunichiamo. Asciugo le gocce con le dita, le porto alle labbra, sulla lingua. E per un attimo vedo quello che vede lei. E so che lei ascolta gli ordini che penso e non dico.

Do il cenno agli opliti. Non ho finito di abbassare il braccio che Erit è già scattata. Vìola senza un abbaio la soglia della grotta. Le corro dietro: la lama sollevata una spanna sopra la testa, il sinistro, stretto in corregge di cuoio, a difesa.

Alle spalle esplode l’urlo dei soldati.

 

Siamo dentro.

Cerco Crisia; non penso ad altro. La cerco gettando gli occhi in ogni angolo, mentre uno dei tre figli di Flogoreo mi si fa sotto e per le mani si fa rimbalzare una lama sformata, due volte grande uno zifo. Combatte da belva, si muove da bruto. Solleva il metallo, ma porge il fianco. Erit lo scansa, non perde tempo. Aspetto che quell’abominio s’azzardi a calare il fendente; intercetto il suo polso col mancino e gli sbilancio la carica. Ha solo il tempo di guardare la sua lama crollare a vuoto, che la mia roncola gli piove tra collo e spalla. Spacca la clavicola e gli impicca il braccio. Urla disperato. Grida di terrore e sgrana gli occhi bovini. Lo scosto, lo lascio indietro latrare per terra.

Cerco Crisia e la trovo, buttata in fondo alla grotta. Sotto il fuoco impazzito di due torce. La vedo: le vesti stracciate, le carni livide di violenza e vergogna. La vedo ora, che gli altri due abomini che le stavano attorno si sono lanciati in carica e stanno assaggiando il filo degli zifi spartani. La vedo ora, che quella carogna deforme di Flogoreo le si solleva di dosso, senza neppure il pudore di riallacciarsi le pelli. Un manto marcio di capre prova a nascondergli la gobba e lo sterno ingombrante. Barba e capelli incolti non celano il marchio del biasimo. Ha pustole e bubboni a segnare il viso e l’occhio sinistro è un’orbita morta di un grigio slavato.

Mi fissa, sputa. Afferra un pugnale rugginoso di sangue e vergogne. Lo solleva e si volta di scatto. Afferra Crisia che non ha forze nemmeno per gridare di terrore. La solleva e ci si nasconde dietro, strattonandola dai capelli. Cosa grugnisca non è un mistero. Voci di bestie, suoni profondi, antichi, che conosco. 

Mentre gli opliti si accaniscono sui due abomini, fisso quell’oscenità e serro le mascelle. Cerco Erit, faccio il vuoto nella mente. Finché non sento con le sue orecchie e non odoro furia e orrore con le sue narici. La mia belva da guerra è pronta a scattare: punta senza muoversi e tiene il fiato.

Prendo il tempo che serve.

Fisso la scena, cerco i dettagli.

Perché quei gorgheggi vomitati da Flogoreo li conosco, li ho già sentiti.

Alle spalle, sulla roccia, i segni blasfemi, le bestemmie di culti più antichi delle genti d’Apulia. Le effigi dementi di Qurtho, mezzo uomo e mezza serpe. E trasfigurate col sangue, le figure accennate di Taorat e Trabul, un padre e sua figlia, dei della depravazione, progenitori di vergogne e signori del sudiciume. È a loro che sacrificano le bestie che rubano. A loro consacrano le loro esistenze. A loro hanno regalato la purezza di Crisia. E di sicuro avrebbero donato la sua vita.

Taorat e Trabul: ancora loro!

Non ho bisogno che di un cenno. Fischio: Erit scatta. Il peso della testa possente, della groppa enorme: le zampe colpiscono la spalla di Flogoreo, le zanne cercano la sua gola. Il mostro molla la presa sui capelli di Crisia e anch’io gli sono addosso. Sibilo un fendente al suo torace deforme. L’impatto gli squarcia la cotenna e gli sbreccia il costato. Grugnisce, schiuma sangue e rabbia. Vortica le braccia, lunghe e possenti. La sinistra per tenere Erit lontana dal collo, e poco importa se le fauci di quella belva ormai gli sfrigolano sulle ossa. La destra per cercare di trafiggermi col pugnale, pungendo l’aria intorno e tracciando scie di metallo. La sua lama sbreccia il cuoio e mi morde l’avambraccio; si risolleva e mi arpiona la scorza di bronzo sul pettorale. È troppo impegnato a mulinare rabbia per sentire la pedata sul ginocchio che lo manda indietro. Libero di nuovo la roncola, sollevo il filo. Calo, oltre il braccio che Flogoreo alza a scudo, cadendo. Lo sbrego che gli apro poco sotto la gola sboccia in uno strappo di sangue e pelle marcia.

L’abominio crolla nelle vergogne di quell’altare improvvisato.

Erit gli piomba addosso, fauci a tenaglia sul collo.

Sento l’infame ringhiare impazzito, come i figli, che crepano sotto le lame spartane.

Lo vedo scalciare, divorato dal dolore, mentre mi chino su Crisia e la sollevo.

Lo vedo mulinare coi piedi impazziti, mentre cerco testimonianze e segni da portare al Basileo. Adocchio un paio di anfore che fanno al caso: quella carogna di Arcade li pagava col vino.

 

Lascio Erit a straziargli le carni e gli opliti a vantarsi tra loro.

Porto Crisia fuori da quell’antro.

Respira forte, ha gli occhi sbarrati. Mi fissa, non so dire se mi riconosca. La bellezza sfigurata, l’intimo violato, nemmeno più una lacrima da urlare fuori. Non fa un fiato. Zartas dovrà reggere anche il suo peso, mentre rientriamo a Taras.

E mentre cerco di immaginare cosa ne sarà di lei, adesso. Perchè, per quanto lo vorrei, al Campione è vietato tenere con sé una donna. E perché la sua anima violata ha bisogno di cure che non conosco.

Mentre alcuni degli opliti spargono tizzoni e affidano al fuoco il compito di ripulire le grotte, fermo uno che sta cercando di recuperare le capre.

– Lasciale libere: l’orrore le ha segnate. Sono marce, ormai.

Quello, di rimando, abbassa lo sguardo su Crisia. Un attimo solo, prima di inciampare nei dardi che i miei occhi gli saettano contro. Abbassa il capo, molla le cavezze e si avvia al cavallo.

Erit sguscia fuori dalla grotta. Mi corre al fianco. Urta la testa sul ginocchio e reclama attenzione. Dalla bocca lascia cadere qualcosa.

La sezione di un cranio, dalla noce alla fronte. È macchiata di sangue, puzza di vino. C’è incisa sopra l’effige di Trabul, madre delle vergogne e laida degli abomini.

– Crisia non sarà l’ultima, Erit… Lo so!

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