
Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare Enrico Zini, autore emergente che ci propone “Il papiro”, racconto di sword and sorcery con ambientazione egizia di circa 19.000 battute.
Autore
Enrico Zini, nato a Pisa nel 1974, ha una laurea in Scienze Politiche e un Master in Comunicazione pubblica e politica. Partecipa ad alcuni concorsi di poesia, uno dei quali lo porta nel 2006 alla pubblicazione di alcuni componimenti nel volume “Antologia italiana. Poeti contemporanei” (Libroitaliano World).
I racconti “Come una dea” e “Virtus Unita fortior” lo classificano terzo rispettivamente al Premio Dragut 2017 e al Premio “Andiamo in Ucronia” 2018, cui segue la pubblicazione nell’omonima raccolta antologica (Montegrappa Edizioni).
“Cronache Hamaxhoni-Esperia, la rivolta”, finalista al Premio Vegetti 2018, esce per Tabula fati nel 2017.
“Cronache Hamaxhoni-Esperia, la fuga”, finalista al Premio Italia 2019, esce per Tabula fati nel 2018.
Sinossi
È la rielaborazione della storia contenuta in un documento egizio del I secolo D.C. conservato al British Museum.
Un ambasciatore nubiano arriva alla corte di Ramsete II con un plico recante una missiva e sfida il faraone a trovare un solo Egiziano in grado di leggerne il testo senza aprire i sigilli. Sembra un gioco per Siosiri, figlio dell’erede al trono Setne, ma sarà molto di più: uno scontro tra maghi e tra regni che affonda le sue radici nel passato, come rivelerà il racconto scritto nel papiro.
Il Papiro*
di Enrico Zini
*questo racconto si è classificato secondo nella IV Edizione del Concorso Thoth-Amon.
Sono Setne Khaemwaset, Gran sacerdote di Ptah e, dalla morte di mio fratello Ramesse, principe reggente. Ero intento a organizzare la settima festa di Sed per il cinquantunesimo anno di regno di mio padre Ramsete II, quando questi mi fece chiamare. Entrato nella sala del palazzo della capitale non potei non notare che, sebbene la vecchiaia avesse costretto il mio genitore a camminare con un bastone, sul trono incuteva ancora una certa soggezione grazie anche alla Khepresh, la bassa corona da guerra blu sulla quale campeggiava l’ureo, simbolo della dea-cobra protettrice dei Faraoni. Tuttavia sotto di essa i suoi capelli erano radi e ormai bianchi e non più, come un tempo, di quel rosso fulvo che i suoi sudditi temevano perché richiamava il colore tipico del pericoloso dio Seth e delle più sanguinarie dee guerriere.
Proprio mio padre mi distrasse da queste riflessioni rivolgendo il volto ovale dalla carnagione bianca verso di me: gli alti zigomi e la mascella importante gli conferivano un aspetto austero.
«Caro Setne, questo messaggero mandato dal re nubiano ci ha sfidato a trovare un Egiziano in grado di leggere il testo della sua missiva senza aprire i sigilli e srotolare il papiro. Tu ne conosci uno che ne sia capace?» domandò indicando l’uomo di mezza età dai capelli brizzolati che, rivestito da una tunica riccamente decorata, stava dinanzi a lui con un rotolo di papiro in mano.
«Nobilissimo padre, il mio primogenito Siosiri ha poteri straordinari e sono certo che ci riuscirà,» risposi sicuro.
«Bene, allora che aspetti a farlo venire?» mi esortò fissando i suoi occhi, a mandorla e lievemente sporgenti, nei miei.
Ubbidii prontamente. Non passò molto tempo prima che il mio ragazzo fosse in ginocchio di fronte al Faraone, nella sua tunica blu coperta di stelle; la sua chioma fluente era del colore simile a quella di suo nonno dal quale aveva preso anche le labbra carnose e il naso aquilino lungo e sottile.
Ramsete II, impaziente di vincere la sfida gli illustrò subito il problema.
Mio figlio sollevò un sopracciglio squadrando il latore del messaggio che se ne stava ghignante, sicuro della vittoria.
«Tutto qui? È questa la difficile sfida che questo nubiano ha lanciato al popolo egiziano?» domandò sinceramente incuriosito allungando la mano per farsi dare il papiro.
Ottenutolo se lo rigirò tra le mani; lo esaminò e iniziò a sussurrare delle formule a me sconosciute prima di leggerlo e raccontare una storia cominciata al tempo della XVIII Dinastia.
***
Horus, figlio di Paneshy, sacerdote-mago, fu chiamato presto quella mattina quando il sole non era ancora sorto. Nel palazzo di Tebe c’era una gran confusione. Al termine della festa di Sed, Thumotse III, addormentato con una pozione di fiori di loto che ne aveva simulato la morte, si era risvegliato rinvigorito dopo essere rimasto per diversi giorni in un sarcofago. A non aver visto il nuovo giorno invece era stato il suo primogenito ed erede Amenemhat: era stato ritrovato nella sua camera ucciso da numerose coltellate nel suo letto.
Arrivato sul luogo del delitto, Horus vide Satiah, la Grande Sposa reale, che piangeva sul cadavere. Il Faraone era accanto a lei per consolarla: ma sul suo viso squadrato, dagli alti zigomi, oltre al dolore per la scomparsa del figlio, vi era la preoccupazione per la perdita anche del suo erede. Ahmose Pennekhbet, al comando delle guardie di palazzo, aveva appena dato ordine di arrestare le sentinelle di turno fuori della stanza del principe.
«Sono stati loro?» domandò Horus all’ufficiale.
«Erano i soli che potevano farlo. Nessun altro è stato visto vicino alla camera, pure le stesse guardie hanno dovuto ammetterlo. Infatti loro sostengono che l’assassino sia venuto da fuori.»
Il mago si fece largo per raggiungere il corpo ed esaminarlo:
«Le ferite non corrispondono a quelle delle lance in dotazione alle guardie,» notò.
«Forse hanno usato altre armi per allontanare i sospetti,» ribatté Ahmose.
«Se io avessi ucciso il principe, mi sarei allontanato il più velocemente possibile dalla città e dal paese, non avrei perso tempo a depistare le indagini.»
«Se escludiamo le guardie, l’unico altro colpevole possibile è un sicario venuto da fuori, ma, come puoi ben vedere, raggiungere la camera del principe passando dalla terrazza non è semplice,» osservò Ahmose ispezionando il balcone che dava sulla piazza.
«Ve lo dico io chi è l’assassino di mio figlio…è lei la colpevole!» sbottò Satiah accusando Merira, la seconda moglie del Faraone appena entrata.
«Non ti rispondo solo per rispetto del tuo dolore,» replicò la sposa minore.
Fu assistendo a questo scontro che Horus si accorse per la prima volta della statua: rappresentava un soldato egiziano che torreggiava su un guerriero nubiano. Quest’ultimo era genuflesso con la testa china e il collo tenuto esposto dal primo che si preparava a calare la spada mentre quella dello sconfitto era sotto il piede destro del vincitore a pochi passi da lui. Incuriosito si avvicinò.
«Ecco, queste lame sembrano coincidere con i colpi inferti al povero principe!» esclamò ad alta voce.
«Un soldato nubiano umiliato, il colpevole ideale, peccato che sia fatto di pietra,» obiettò Ahmose.
Horus, però, abbassando gli occhi notò che sul pavimento c’erano dei segni strani. A qualunque altro sguardo sarebbe potuto sembrare che quelle strisciate fossero state provocate dal trascinamento della scultura quando era stata sistemata nella stanza, ma non al suo. Esaminando il pavimento con più attenzione trovò anche tracce di polvere che arrivavano fino al letto. Una terribile intuizione lo indusse a farsi aiutare da Ahmose a manovrare la statua: scoprì che in un angolo nascosto era incisa in minutissimi caratteri una formula.
“Al calar della notte, miei prodi guerrieri, prendete vita e uccidete l’erede del dio,” lesse ad alta voce.
«Che cosa significa?» chiese Tumotse.
«Magia nera: a uccidere Amenemhat è stato uno stregone!» concluse Horus.
«Com’è possibile?» domandò Ahmose.
«Alle immagini, disegnate o scolpite, i maghi più dotati possono trasmettere la capacità di agire attraverso dei sortilegi. È il caso degli alimenti sui rilievi dei templi che, grazie alla magia, diventano cibo per gli dei,» spiegò.
«Il colpevole è stato un mago…e anche potente. Vedi dunque che io sono innocente, ma naturalmente non mi aspetto le tue scuse, cara Satiah,» dichiarò indispettita Merira.
«Non importa se lo strumento è stato un mago o un sicario, solo tu avevi l’interesse a eliminare mio figlio per sostituirlo con il tuo,» insistette la madre del morto.
Effettivamente la Grande Sposa reale non aveva tutti i torti, Merira non aveva le conoscenze per usare la magia nera ma sua madre, la grande e potente sacerdotessa Huy, adoratrice di Amon, sì.
«Smettetela!…Tutte e due! Dobbiamo dare all’esterno un’immagine di unità» le rimproverò Tumotse III prima di domandare a Horus:
«Che cosa pensi di fare?»
«Mentre studierò la statua per verificare le mie teorie proteggerò la vostra maestà e il suo erede Amenofi con degli amuleti.»
Horus si adoperò subito per costruire per il Faraone quello più potente: l’Udyat, l’occhio truccato del dio-falco Horo. Per il principe Amenofi riuscì a farne solo uno a forma di zampa di toro che integrò con uno scarabeo, amuleto protettivo che di solito si metteva sul cuore del defunto per proteggerlo nell’aldilà, ma che con qualche piccola modifica avrebbe potuto funzionare anche in quel caso.
Di seguito Horus si recò al Tempio di Osiride: sul lato orientale, nel mezzo di un verdeggiante giardino, un laghetto di acqua dolce stava davanti a ognuna delle quattro porte dell’edificio cubico anticipate dall’epistilio, un porticato sostenuto da massicce colonne papiroformi che reggevano un architrave di calcare rivestito di malta rossa sul quale campeggiava la croce anseatica, l’Ankh.
Si addentrò in quel luogo dove era custodita tutta la sapienza d’Egitto: gli antichi misteri sacri, lo studio delle stelle e della medicina, ma anche i più reconditi segreti magici.
«Benvenuto nella Casa della vita, dove la natura fiorisce, ogni morto risorge, ogni anima si rinfranca, ogni ferita si rimargina, ogni malattia guarisce, ogni male è sconfitto, la conoscenza arricchisce e il Faraone si rigenera più forte e combattivo che mai,» lo ricevette un sacerdote calvo.
«E io sono onorato, sommo sacerdote, di essere tra le quattro mura di Iside, Neftis, Horo e Thoth, il pavimento del dio della terra Geb e il tetto della grande dea del cielo Nut. Io mi chiamo Horus e, come il dio Horo fu incaricato di sottomettere chi aveva osato ribellarsi a suo padre Osiride, io ho il compito di sconfiggere i nemici del Faraone. Il principe è stato ucciso da una potente magia che ha dato vita a una statua. La mia missione è eliminare questa minaccia.»
«E tu vuoi sapere chi sia l’autore di questo incantesimo, vero?»
«…o l’autrice: la Grande Sposa reale Satiah, pensa che sia stata Mirira a uccidere suo figlio…»
«Non credo che sia possibile.»
«Eppure sai bene che ogni essere umano ha capacità magiche, compresa Mirira.»
«È vero, ma l’Heka di ogni individuo si attiva solo quando il dio in sogno ti chiama con il tuo nome magico.»
«E come sai che non sia potuto accadere a Mirira? In fondo è figlia di una potente sacerdotessa di Amon.»
«Certo, ma una magia così potente implica anche una certa esperienza che si ottiene con anni di pratica e di insuccessi: Mirira è troppo giovane.»
«Sua madre Huy potrebbe farlo?»
«No, Huy non lo farebbe mai, è un’Adoratrice di Amon e pia servitrice dell’Egitto,» rispose scandalizzato il sacerdote.
«Per questo devo scoprire l’identità di quello stregone, per allontanare i sospetti di Satiah da Mirira e dalla sua famiglia.»
«Quando è così seguimi,» lo esortò il religioso incamminandosi.
Il sacerdote lo scortò fino al Sacrario, spartano e buio; rischiarava l’ambiente solo un raggio di luce che da un foro sul soffitto illuminava una piccola piramide di granito al cui vertice era incastonato un globo di onice nero sul quale erano incise le formule magiche: in essa erano svelati i segreti della natura e del cosmo. Solo il Faraone, i sacerdoti e i maghi di più alto rango potevano accedervi.
Una porta conduceva al Per-madjat, la casa dei libri, la biblioteca. L’attraversarono costeggiando gli scaffali ricolmi di rotoli di papiro guardando con attenzione le pareti dove si poteva leggere l’indice dei testi lì conservati. Finalmente trovò quello che cercava, un papiro magico.
«A te che sei stato chiamato a Heka, la magia, col nome di Horus, leggerò il libro per rovesciare Apep il malvagio serpente. Perché le sue formule funzionino mi serve la magia che ha ucciso il principe, anche un briciolo.»
«Ho portato questo pezzo della statua. Da questa si potrà scoprire il suo nome magico,» si augurò Horus consegnandogli una pietra.
«No, per sapere il nome serve un incantesimo più potente e molto più pericoloso. Invece si può ottenere la sua identità; ti aiuterò a scoprirlo.»
Sotto la guida del sacerdote, Horus scrisse la formula e ritornò a palazzo per seguire le indicazioni del papiro magico. Scoprì che quella notte lo stregone ci aveva riprovato, fallendo ma solo in parte. Infatti i piccoli soldati di cera che aveva modellato erano riusciti a superare la numerosa sorveglianza e a infilarsi nella camera reale. A morire non era stato però il Faraone Tumotse, ma la Grande Sposa reale Satiah. Le guardie erano intervenute eliminando la minaccia con i coltelli resi potenti grazie agli incantesimi incisi sulle lame, ma non erano riuscite a salvare la donna che era spirata con la gola tagliata da una sottilissima ma profonda e lunga ferita.
Ahmose era furioso con Mirira, Satiah era sua figlia.
«Prima mio nipote, adesso mia figlia… Satiah aveva ragione. Mirira ora sarà la nuova Grande Sposa reale.»
«Non puoi accusare Mirira senza prove. Inoltre i tuoi uomini hanno scoperto che la statua nella stanza di mio figlio era il regalo di una principessa nubiana innamorata di mio figlio, molto probabilmente è stato il re nubiano,» replicò Tumotse.
«Ma che interesse avrebbe il re nubiano a uccidere il principe e la Grande Sposa reale?»
«Infatti quegli uomini di cera avranno prima cercato di uccidere me, ma gli amuleti di Horus devono averglielo impedito così hanno sfogato la loro rabbia sulla persona che mi dormiva accanto,» replicò il Faraone.
«La formula magica impressa nella cera di quei pupazzi ci dirà quali erano i loro ordini,» intervenne Horus per sbrogliare la situazione.
«Peccato che le guardie li abbiano distrutti,» lo informò Ahmose.
«È vero, l’arma del delitto è ridotta in briciole, ma anche così può dirci diverse cose,» spiegò Horus raccogliendo i pezzi di cera.
Si rinchiuse, successivamente, nelle sue stanze con il papiro che aveva riportato dalla Casa della Vita: riempì un vaso d’acqua, vi sciolse i resti dei pupazzi stregati, vi immerse la pergamena e aspettò ripetendo quattro volte le formule magiche. Terminato il rito, bevve il liquido impregnato di tracce degli incantesimi dello stregone.
Balenò davanti ai suoi occhi l’immagine di un uomo nero con un gonnellino di leopardo che con un coltello incantato incideva gli ordini sui soldati di cera: doveva essere uno stregone nubiano e anche molto potente, a giudicare dall’esperienza testimoniata dai suoi capelli grigi e dalla proprietà di linguaggio con cui recitava i malefici: “Entrate nella stanza del Faraone e uccidete il sangue reale.”
Mirira sembrava innocente, l’omicidio si poteva spiegare come un attentato fallito a Tumotse: impossibilitati a uccidere il sangue reale più importante perché protetto da amuleti, i servi del mago si erano accontentati dell’unico altro presente, Satiah, la Grande Sposa reale. Anche il primo poteva essere spiegato allo stesso modo: l’ordine di uccidere “l’erede del dio” si poteva riferire sia al Faraone sia al principe: infatti il primo era sia il successore di un dio, Ra, sia una divinità lui stesso in quanto incarnazione di Horus. Nell’uno o nell’altro caso, comunque, tutta la famiglia reale doveva essere salvaguardata. Allo scopo lavorò tutto il giorno per costruire statue protettrici da mettere nelle stanze e alle porte del palazzo.
Il risultato non fu quello atteso: Tumotse fu trovato morto. Le contromisure avrebbero funzionato ma, purtroppo, qualcuno nella corte aveva levato le sculture e aveva indicato allo stregone il momento in cui colpire: quando il Faraone per lavarsi si era levato anche gli amuleti. La nuova Grande Sposa reale Mirira fu arrestata; Ahmose era convinto che fosse lei la responsabile ed era deciso a farla confessare. Horus, velocemente, fece portare il cadavere ancora caldo del Faraone nella sua stanza per compiere il rito. Per eseguirlo dapprima si purificò: dopo essersi depilato il corpo e lavato con l’acqua gettata da un vaso sacro, si unse la pelle immergendo il mignolo della mano destra nell’olio chiamato Medyet arricchito da scaglie d’oro di cui si diceva fosse composta l’epidermide divina.
Prese poi l’ur-hekau o grande magia, il più potente dei bastoni magici in avorio di ippopotamo terminante con una testa di ariete, e lo poggiò sui punti vitali come la testa, il cuore e i polmoni del morto, recitando le formule: Tumotse si svegliò annaspando, terrorizzato.
«Stai tranquillo, è tutto finito,» lo calmò il sacerdote-mago.
«No, non sarà finito finché non ucciderai quel maledetto,» ordinò.
«Non sono sicuro di riuscirci, ma sono certo almeno di poterlo renderlo innocuo.»
«Fai quello che vuoi, hai i pieni poteri, ma liberami di lui.»
«Almeno per il momento Ahmose ti ha liberato della sua complice Mirira,» lo rassicurò.
«Che avete fatto? Non è stata lei a tradirmi, sono state le guardie di Amenemhat per vendicarsi delle torture subite durante l’interrogatorio.»
«Allora dobbiamo far presto, Ahmose vuole interrogare anche Mirira.»
Si precipitarono nel sotterraneo; trovarono la Grande Sposa reale legata nuda ad un tavolo, terrorizzata, pronta per essere sottoposta a tortura. Fortunatamente arrivarono in tempo per liberarla. Mirira abbracciò il Faraone felice di vederlo vivo e ancora più contenta che fosse andato a salvarla. Ahmose pagò duramente quell’iniziativa, non con la testa come avrebbe voluto la donna, ma con il suo posto che dovette lasciare per ritirarsi a vita privata.
Horus si recò invece nella Casa della Vita: doveva scoprire il nome magico dello stregone per fermarlo. Il sommo sacerdote non fece resistenze, l’attentato al Faraone non le ammetteva, e si fece aiutare dai suoi confratelli per trovare i papiri occorrenti.
Senza perdere tempo il figlio di Paneshy ridusse in polvere la statua che aveva ucciso Amenemhat e la mescolò ai soldatini di cera che avevano assassinato Satiah e ai cuori delle guardie che lo stregone aveva indotto attraverso i sogni ad aiutarlo nell’attentato al Faraone. Impastò il tutto nell’argilla per modellare la figura del nubiano che aveva visto nella sua visione pronunciare i mortali incantesimi .
Fatto questo, col medesimo materiale, plasmò un cobra sul quale incise con il suo coltellino magico la seguente formula: «come Iside costrinse Ra con il morso del serpente da lei creato a rivelarle il suo nome magico, io indurrò lo stregone rappresentato da questo simulacro e autore delle magie in esso contenute a rivelare il suo attraverso il mio cobra incantato.»
Il rettile di argilla prese vita iniziando a mordere la scultura umana. Questa, colpita dal sortilegio, iniziò a gridare, mentre Horus continuava a ripetere la formula. Il suo nemico, coraggiosamente e con abilità, si contrappose alla sua azione ma la magia che gli aveva lanciato era molto potente; perfino Ra aveva dovuto cedere. Lo fece a maggior ragione quel mago: sulla superficie del simulacro apparve il suo nome: Mandulis .
«Mandulis, che ironia, il nome nubiano di Horo…siamo quasi omonimi,» commentò Horus leggendolo.
Presa l’immagine dello stregone la depose in uno scrigno in oro che chiuse con amuleti protettivi e recitò ad alta voce le parole magiche scolpite su di esso:
«Come lo scrigno trappola di Seth imprigionò il corpo di Osiride così questo mio forziere catturerà il mago Mandulis.»
Seppellì quindi il tutto ai piedi di una grande acacia terminando con queste parole la sua maledizione.
«Come lo scrigno nel quale era imprigionato Osiride fu rinchiuso in una magica acacia, così il tuo, Mandulis, sarà custodito all’interno di questo splendido albero: ti bandisco, così, da questa terra e ti condanno a vivere nello scrigno che ho preparato per te all’interno di questa acacia.»
Fu questa la fine del mago Mandulis esiliato dal mondo, chiuso in una scatola, ingabbiato in un’acacia da potenti incantesimi per più di centocinquanta anni…lo stesso destino che ora capiterà all’Heka di colui che sta pronunciando queste parole.
***
Finito di leggere la pergamena Siosiri fissò sbalordito il nubiano.
«E questo che cosa mi dovrebbe significare?» domandò mio padre.
«Che il messaggero mi ha fatto leggere questo papiro senza aprirlo non per mettere alla prova le mie abilità magiche, ma per imbrigliarle con un incantesimo,» spiegò mio figlio.
«Esatto, non dovevate tagliare l’albero che mi teneva prigioniero: io, Mandulis, ora sono libero e sono venuto a prendere la mia vendetta,» proclamò con un ghigno.
Reso inoffensivo l’unico ostacolo, lo stregone si preparava a completare quello che aveva iniziato al tempo di Tumotse III: eliminare i Faraoni e far piombare l’Egitto nel caos.
Ma Siosiri sentenziò:
«Come il tuo dio Dedum, o nubiano, bruciò gli altri dei con il fuoco, io faccio sparire te per sempre, Mandulis, trasformandoti in cenere.»
Il nubiano esitò un attimo, incredulo, e mio figlio ne approfittò portando a termine il suo incantesimo:
«Quell’acacia che ti teneva recluso non è stata abbattuta per sbaglio, ma per poterti eliminare: io sono la reincarnazione di Horus figlio di Paneshy; la mia anima è passata di generazione in generazione per finire ciò che avevo iniziato, la tua distruzione,» concluse mio figlio mentre Mandulis si andava trasformando in una torcia umana.