
Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare Lorenzo Paoli, autore emergente che ci propone “Ercole, Ermete e Tifone”, racconto di fantasia eroica mediterranea di circa 19.000 battute.
Ercole, Ermete e Tifone*
di Lorenzo Paoli
*Questo racconto si è classificato terzo nella IV Edizione del Concorso Thoth-Amon.
Egyptius floruit Osiridis tempore in primo ortu humani generis, quando gygantes et monstra erant et diis vetustissimi cum gygantibus bellum gerebant.
I due immensi pilastri regnavano sull’arida pianura con insondabile freddezza. Benché sferzate di vento li colpissero spazzando via la sabbia dalle crepe del secco suolo, i due piloni si ergevano limpidi nelle loro antiche forme, quasi fossero intenti a sorreggere il cielo. Il tempo, che pur aveva consunto la pianura, pareva aver lasciato intatte quelle gigantesche reliquie, così perfette nella loro geometria da sembrare eterne. Un’eternità forse illusoria, poiché negando lo sguardo ai maestosi pilastri solo le ossa, vestigia di creature innominate, colmavano il terreno.
- Da molto tempo li vediamo all’orizzonte, eppure sembrano non avvicinarsi mai -
- Lo hai già ripetuto almeno tre volte, saggio Ermete, non pronunciare vane parole, piuttosto risparmia il fiato -
- Tutto è vano Ercole, ma le parole sono il tessuto di cui è composto il microcosmo –
Voltandosi con un leggero grugnito, Ercole osservò il suo compagno con sguardo scettico. Questi lo ricambiò con un languido sorriso: si accarezzava freneticamente la barba, affrettandosi al contempo di mantenere il passo del suo robusto interlocutore.
Gli intensi monologhi di Ermete avevano riempito le giornate passate. Taciturno, Ercole, obiettava con poche e misurate parole alla magniloquenza di quel sapiente tanto reputato. Tutto sembrava conoscere delle cose terrene e divine, tutto quel sapere che diceva esser stato trasmesso da Giano in persona, il vinifero, colui che vide il tempo prima e dopo il Diluvio. Le critiche d’Ercole non erano senza ragione, un’aporia soggiaceva all’impresa che il grande Ermete intendeva compiere.
- Siamo quasi giunti, bada a non inciampare su qualche rilievo semisommerso di queste spoglie mostruose –
- Non spoglie, ma pietre – Si affrettò a rettificare Ermete. Perplesso, il possente Ercole arrestò la marcia, chinandosi a verificare. Mani ruvide tastarono il terreno, scostando la fitta sabbia: là giaceva quella che sembrava un’enorme conchiglia, qui la pinna d’un pesce mai visto. Sebbene avessero ingannato il suo sguardo, al tatto Ercole si rese conto che il saggio aveva ragione: - Pur avendo la parvenza d’ossa, sono forme che la natura forgia in analogia con il creato, generazioni spontanee di esseri esistenti nei recessi del mare –
Ancora una volta Ermete aveva parlato saggiamente ed Ercole accettò.
Proseguirono in cerimonioso silenzio, interrotto solo dal fischio del vento, da passi stanchi e dal gorgogliare dell’acqua bevuta da borracce in pelle di capra. I corpi bronzei e seminudi dei due uomini si erano finalmente arrestati poco distanti dalle fondamenta di quei monoliti eretti in un tempo prima del tempo.
- Ammira principe, qui dinnanzi a noi è inciso tutto il sapere: astrologia, filosofia naturale e magia; i riti, i sacrifici, le preghiere. Questi pilastri furono elevati in un’epoca precedente al Sole e alla Luna, anteriori alla Età Aurea stessa –
Si espresse così Ermete dal volto ansioso, mentre sparute gocce di sudore colavano verso la lunga barba incolta.
- Questo lo sapevo anche io, primo fra i mistagoghi, tuttavia a quale scopo credere a questi segni incisi quando Giano fece dono ai pochi della conoscenza: credi forse che anche un Dio possa mentire? -
La domanda colmò il volto di Ermete d’un imbarazzo che trattenne a stento. Gli occhi d’Ercole lo fissavano severi al di sotto d’una fronte perennemente aggrottata. Ruotando metodicamente i riccioli della barba attorno all’indice della mano destra, Ermete schiarì la propria voce alzando al contempo lo sguardo verso quel robusto compagno, ben più alto di lui. Rivoltosi poi ad osservare la base d’uno di quei ciclopici pilastri, il sapiente prese a passeggiare in cerchio, dando infine voce alla risposta riflettuta in quegli ultimi istanti:
- Nel tempo di Enos, molti trai primi giganti praticavano l’astrologia; molti incidevano su pietra. Fu dunque così che alla settima generazione molti tra loro seppero, attraverso il moto dei corpi celesti, prevedere l’arrivo d’un inaudito disastro -
Non soddisfatto Ercole continuava a osservarlo statuario, contraendo gradualmente i muscoli del collo per seguire i suoi lenti passi:
- Dunque, furono da quei primi uomini innalzati questi due pilastri. Il primo di mattoni ed il secondo pietra: se tutta l’umana stirpe fosse stata sterminata dal fuoco o dalle acque la memoria del loro sapere, la tradizione, avrebbe continuato a esistere, eterna, su queste colonne –
Seguì un breve silenzio prima dell’inevitabile conclusione di tale preambolo. Tuttavia, prima che il saggio Ermete potesse terminare, dall’inquieto sorriso che increspava le labbra sottili di Ercole tuonò una voce profonda che d’un tratto lo interruppe.
- Ti ho ascoltato molto ultimamente, giudizioso Ermete. Prima che tu possa ripetermi cosa nota, esprimerò io ciò che tu già sai, ma che non osasti dire dinanzi a mio padre Osiride quand’egli ci congedò da Tanim… tu temi che il mondo sia eterno –
Nell’udire quelle parole decise, Ermete s’incupì e chinandosi lentamente si sedette sullo sterile suolo, osservando il terreno davanti a lui. Ercole riprese a parlare:
- Che quella di Giano non sia la rivelazione d’un Dio, ma d’un ignorante e fantasioso montanaro: se la sua memoria è fittizia quante volte fu l’umana stirpe rigenerata? –
Seguì nuovamente il silenzio ed Ercole, avvicinandosi lentamente al sapiente dallo sguardo catatonico, si mise a sedere al suo fianco. Ermete, che pensoso tracciava spirali sulla sabbia, annuì muovendo il capo. Infine, cancellando i suoi scarabocchi con un gesto netto della mano si pronunciò rivolto al suo interlocutore.
- Tuttavia, così fu: le acque annegarono il mondo. Ricorda che questi pilastri incisi restano solo apparenza di verità, non verità. Non v’è reale sapere in essi, se non simulacro di sapere: il verbo, invece, è sacro. Eppure, osservandoli seduto qui dinanzi alla loro immensità, essi sembrano gridare all’orizzonte le storie d’un mondo che oltrepassa ogni mistero al quale fui iniziato –
Giuste suonavano ancora le parole d’Ermete e rimirando quei pilastri, possibili spettatori d’un tempo perpetuo, entrambi riflettevano.
Vi fu una solenne quiete accompagnata dai lamentosi sussurri del vento incessante. Ermete decise di far appello alla propria risolutezza ed esaminare così quegli antichi simboli che furono incisi sulla base del maestoso pilastro di laterizi; il sole era alto nel cielo. Il giovane principe fece per seguirlo, levandosi anch’esso da terra; Ercole non conosceva i segni della primigenia lingua, oramai degenerata, tuttavia grande era la sua volontà.
Compiuti appena tre passi dei granelli di sabbia si insinuarono nei suoi occhi, facendolo lacrimare e rendendolo cieco per un istante. Riavutosi vide offuscata la figura di Ermete: egli era immobile intento a fissare un punto indefinito oltre le due colonne. Una volta riacquistata definitivamente la vista egli comprese che in quell’accecante pianura, al di là dell’ampio spazio aperto che separava i due pilastri, molteplici figure rese amorfe da un lieve miraggio procedevano rapide alzando grandi quantità di polvere. Avvicinandosi divenivano udibili e sempre più insistenti delle atroci cacofonie.
Il sapiente, pallido in volto, bisbigliava vocaboli inintelligibili alternati da una singola parola: Enos.
– Tu stesso mi raccontasti che i turpi uomini primordiali furono annichiliti, che le loro sozze vite furono annegate insieme alle terre emerse, i loro rapporti bestiali puniti con le più grevi sofferenze, le loro pratiche abominevoli soffocate nel mare della vergogna –
Con una loquacità aliena ai suoi costumi Ercole si rivolse a Ermete; lui non rispose, quasi sbigottito. La vista di quei sordidi uomini, più alti persino di Ercole, si era tramutata nella sua mente in un’idiota epifania d’orrore. Al susseguirsi dei battiti di ciglia poté osservarli sempre più nitidamente. Ed ecco che il primo tra essi, coperto di feci oramai essiccate dal cocente calore del luogo, era giunto con balzi bestiali ad appestare le narici del saggio, ancora intorpidito dallo spavento. Un altro lo affiancava, il volto deturpato da ferite putride, le mani storpie mancanti di falangi. Alternava a corposi sputi delle strilla acute. Il sapiente, nuovamente lucido nel pensiero, non vi trovò tuttavia il marchio di Caino e di Enos. In quei rauchi versi udì piuttosto un’ode Zoroastro, colui che rese sterile il Dio Giano con osceni sortilegi: quindi comprese.
- Ercole nutri il tuo disprezzo, poiché questi non sono quei giganti antichi, ma i turpissimi titani, figli del tuo atavo, il Saturno Egizio, vergogna tua e di tuo padre: essi devono aver attraversato il mare per nutrirsi -
Conclusasi la sua breve rivelazione, Ermete si zittì di nuovo, poiché un terzo tra gli immondi, più massiccio e più maestoso degli altri persino nella sua lordura, era oramai ben visibile: dalle sue membra coperte di serpenti si ergeva una testa bestiale: pareva gettar fiamme dagli occhi e dalla bocca orribilmente spalancata. Egli si ergeva su due gambe dalla forma indicibile, quasi che delle ignote creature abissali fossero approdate su terraferma solo per sostenere un busto altrettanto orrendo.
Non vi fu più tempo per pensare, poiché l’azione stessa negò questo privilegio. Un urto clamoroso scagliò Ermete al suolo distante. Le braccia di Ercole si protesero verso il primo gigante e in un silenzio innaturale le vene si rigonfiarono nel suo volto, mentre gli occhi, velati da una furia cieca, celavano una mente quantomai lucida. Le grandi mani di mole granitica accerchiarono il collo dello stolido e sozzo aggressore. Le dita, sprigionanti la forza congiunta delle due massicce braccia, si fecero spazio nella carne lacera della sua gola. Un gorgoglio, non migliore dei versi espressi fino a quel momento dal gigante, uscì dalla sua bocca e col collo orribilmente spezzato si accasciò morente sbavando fiotti di sangue vermiglio. Prima che il secondo di quegli orrori giungesse a contatto con Ercole, il principe afferrò da terra un femore pietrificato ed usandolo quale clava lo colpì con brutalità inusitata. La punta di pietra, tanto grande era la possanza del colpo, penetrò il ventre della creatura urlante squarciandolo. Le viscere si riversarono al suolo, ma indifferente dell’accaduto il gigante continuava a procedere con sguardo tanto folle quanto deciso nel suo assalto disperato. Ercole però non gliene diede il tempo ed estratta dal quel corpo fetido la sua clava improvvisata, la frantumò sul volto sogghignante di quell’ontoso titano.
Il rumore sordo del colpo fatale risuonò nelle orecchie di Ermete che si riprese annaspando. Non aveva fiato e respirava a stento, quasi immobile non poteva niente per aiutare il giovane Ercole. Muoveva con pena le braccia esili sulla sabbia cercando invano di alzarsi piedi e non avendo ancora le forze per reagire fece appello al suo fiacco respiro, avvertendo così con voce rauca Ercole del pericolo imminente – Tifone – .
Quasi divertito della sorte dei suoi due antecessori, Tifone si gettò su Ercole, generando una mischia selvaggia tra i due. Teste di serpe sporgevano dagli arti dell’orrido figlio di Zoroastro, teste che cercavano di colpire coi loro denti il corpo seminudo del figlio di Osiri, riuscendo spesso nel loro intento. Tuttavia, se le mani di Tifone potevano mordere, quelle di Ercole erano in grado di stritolare. Rotolando nel terreno deserto, zampilli di sangue schizzavano dai corpi maciullati dei serpenti una volta sbarbatogli il cranio. Con fiamme Tifone tentava di offendere il volto del Principe, di sfigurarlo e di ferirlo mortalmente. I fischi del fuoco però non riuscirono mai nell’impresa, poiché armato di una risoluzione totale Ercole colpiva ripetutamente il viso del suo nemico con la propria fronte, spezzando ossa ad ogni urto. Né potevano molto le zampe mostruose del titano, che forse si pentivano per la prima volta di aver abbandonato i loro immondi abissi di provenienza.
Non solo pugni e calci, non solo sangue e sabbia, ma il fumo che usciva dal volto di Tifone permeava l’aria circostante rendendola quasi irrespirabile. Se Ermete tossiva Ercole taceva: concentrato unicamente nello sferrare colpi e nel resistere alle prese mortali dell’avversario, non poteva permettersi il lusso e la distrazione di non respirare, non v’era tempo né modo. Infatti, la mischia furiosa continuava e solamente con grande fatica il figlio di Osiride sottometteva l’abominevole Tifone.
Bastò però l’indebolire un attimo la presa per permettere al titano di rialzarsi in piedi e cominciare a correre. Ercole tentò di alzarsi ma, complici quei neri miasmi, la fatica che aveva represso ed il dolore che aveva ignorato emersero assieme in un istante, incatenandolo al terreno dopo pochi passi. Tifone al contrario correva e urlava allontanandosi, nello stesso modo con cui era giunto: non sarebbe stato difficile immaginarlo attraversare il mondo a tale guisa, correndo, gridando ed uccidendo. Stavolta però volle far sapere alle sue mancate vittime che, dietro la sua orribile presenza e al di là della sua stoltissima apparenza, si celavano un pensiero ed un linguaggio, che rifletteva tanto la sua anima quanto il suo corpo:
- Non le tue forti mani né i piedi veloci possono uccidermi oggi, né la mia fuga resterà impunita. Poiché tornerò sulle foci del vostro sacro Nilo e là troverò seduti sul trono Osiride e Iside: ucciderò tuo padre e lo farò a pezzi gettando il membro che ti ha generato nelle acque del fiume ingenerato. Violerò tua madre nel talamo nuziale vomitando la bile nera del mio odio sul suo volto. Non c’è sapere che mi sia precluso, verità che mi sia proibita né futuro che mi sia negato. Io sono la forgia della realtà che ti contiene e la mia volontà è solamente la morte alla quale l’esistenza stessa ti ha già condannato -
La violenza era terminata improvvisamente e insensatamente. Ancora risuonava l’eco delle sue parole nella valle desertica, ma Tifone era già oltre i loro sguardi, scomparso in virtù di un potere ignoto persino a Ermete. La stanchezza, unita alle contusioni subite nello scontro, li costringeva ansimanti e distesi al suolo. Non Ercole, bensì Ermete, si alzò per primo: infatti la sua volontà di sapere di molto superava la prestanza fisica del Principe. Osservando il volto di Ercole con occhi deboli, decise di parlare, onde interrompere lo stordimento del fisico e dell’anima che lo scontro coi titani e le parole di Tifone avevano indotto nei due:
- Siamo vivi e non dobbiamo lodare il Cielo, ma le tue braccia. Forse la morte è il tributo da pagare per la conoscenza che cerchiamo, uccisi da coloro che già hanno viaggiato fino al termine della notte, coloro che a malapena ricordano il loro nome, che tanto hanno voluto sapere, che troppo hanno osato cercare. Forse concludere questa impresa ci condurrà lentamente, intollerabile a pensarlo, alla loro stessa condizione -
- Allora ti confortino le parole del Dio Giano e il sapere che già ti fu trasmesso: oltre non osare -
Rispose severo Ercole, appoggiando le grandi mani incrostante di sangue sulle possenti cosce per ergersi in piedi.
- Parole di un Dio che mai ho incontrato -
- Saggio Ermete tu bestemmi: non esitare più allora, leggi i pilastri e compi il nostro viaggio. Non so quanto ancora sopporterò il lezzo di queste creature, luride da vive ed ancora più fetide da morte. Fai le tue osservazioni e poi andiamocene, prima che fra le pietre bestiali di questo deserto sbianchino anche le nostre ossa
Ermete non annuì né rispose. Non guardò più Ercole, né gli enormi cadaveri mutili e sventrati, poiché infine poteva sfiorare con mano la superficie della prima immane colonna.
Nondimeno, mentre avvicinava il volto alle scritte coprendo la fronte dal bagliore solare, si accorse di ciò che non poteva e non avrebbe mai voluto conoscere: il pilastro, liscio quasi come marmo, non presentava nessuna incisione né glifo. Il vuoto riempiva quell’ancestrale reliquia, così come il vuoto assalì il suo spirito turbato. Forse le acque durante il grande diluvio avevano corroso ogni segno alla base della struttura? Forse la sabbia e il vento avevano cancellato la memoria, là dove le acque non vi fossero riuscite? Si sarebbero forse dovuti arrampicare nell’irraggiungibile cima delle colonne, più vicina agli Dei Celesti che agli uomini, onde recuperare i resti di un sapere vecchio quanto il mondo? Oppure il mondo era veramente ingenerato e le colonne, scherno della stirpe folle che prima di loro popolò la terra, erano state erette per rammentare eternamente la vanità della sua impresa?
Sconcertato Ermete percorse rapidamente la distanza che separava una colonna dall’altra. Il colore della seconda confermava la sua diversa natura. Probabilmente il materiale che la componeva, più resistente all’erosione, aveva permesso la conservazione degli antichi simboli che originariamente ornavano la sua gemella. Giunse ansimante con gli occhi sgranati innanzi al pilastro, incurante dell’accecante luce. Fu necessario un instante per comprendere che niente permaneva sulla superficie. Così il tempo scorse e a niente servì l’attesa né la ricerca spasmodica di figure sulla circonferenza di quella veneranda antichità.
Voltandosi verso Ercole i suoi occhi si soffermarono per un’ultima volta sui giganteschi cadaveri: parevano ancora sogghignare.
- Andiamocene Ermete, poco importa tutto ciò quando le tre parti del mondo sono infestate di abomini di tal fatta e chissà quali altre creature -
- Va dunque ed uccidile: acquista fama, domina il mondo o fai ciò che vuoi. Io non intendo sottostare a questo scherzo. Il sapere tramandatomi sarà iscritto nello smeraldo e nessun uomo potrà cancellarlo. Quando dopo di me nuove generazioni sorgeranno, quando come me cercheranno ciò che mi fu negato, la mia scienza verrà loro incontro –
- Generazioni che ti ignoreranno, generazioni che non capiranno. Se oggi i pilastri deridono te, il tuo smeraldo sarà oggetto di derisione altrui. Misera consolazione per un saggio, Ermete, lasciare un tale testamento. Da parte mia, dall’infanzia ti ascolto e infine oggi seguendoti ed ascoltandoti mi ha sfiorato la morte, la morte che ancora ci minaccia e incombe. Me ne vado Ermete, incidi i tuoi esoterici segni dove più ti aggrada, nel frattempo la mia volontà lascerà il segno nei tre contenti. Lascia credere ciò che vuoi alle future generazioni, io mi impegnerò a generarle –