I racconti di Satrampa Zeiros – “L’oro degli stolti” di Gualtiero Ferrari

Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare Gualtiero Ferrari, autore emergente che ci propone “L’oro degli stolti”, racconto fantasy ambientato nel Piemonte del 1500 di circa 19.000 battute.


Autore

Nato a Torino nel 1970, cresce e vive in questa splendida città, salvo trasferirsi alcuni anni all’estero per motivi di studio e di lavoro. Parla fluentemente l’inglese, il francese e quel minimo di tedesco necessario a ordinare del cibo caldo o una birra fresca.

Di formazione economico-scientifica più che umanistica, si è avvicinato alla lettura nel corso dell’adolescenza e rifugiato nella scrittura, ormai adulto, durante un difficile periodo personale.

Attualmente lavora presso un’azienda di meccanica di precisione.

Al suo attivo ha la pubblicazione del racconto intitolato “Nemesi” sulla raccolta “Z di Zombie – 2017”, edito da Letteraturahorror.it; oltre che il romanzo “Zetafobia”, edito da Delos Digital nel 2018.


Sinossi

Ambientato nella seconda metà del 1500 – dopo il trattato di Cateau-Cambrésis del 1559 ma prima della piccola epidemia di peste del 1599 – il racconto inizia nelle campagne a ridosso del fiume Po nei dintorni di Moncalieri, borgo pochi chilometri a Sud di Torino.

Sandro un taglialegna grande e grosso ma corto d’intelletto, deruba alcuni viandanti incappando accidentalmente nella mappa che potrebbe condurlo sino alla leggendaria Pietra Filosofale, capace di trasmutare il metallo in oro.

Raggiunge Beppe, suo degno compare, mentre arrotonda lo stipendio facendo lo sguattero in una locanda. Essendo quest’ultimo la mente del duo criminale, il taglialegna gli racconta quando accaduto, ma, nel farlo, rivela a tutti cos’ha accidentalmente “trovato”.

Nel locale si scatena un tafferuglio e solo l’intervento di Norberto salverà i due da morte certa. Il misterioso avventuriero si proporrà di aiutare i ladri nella missione di recupero, promettendo di farli arrivare vivi sino alla famigerata Pietra.

Per farlo dovranno arrivare nei pressi dell’odierna piazza Gran Madre di Dio, attraversare il Po e intrufolarsi nei cunicoli scavati al di sotto della Cittadella fortificata, a metà altezza di quella che oggi è Via Cernaia.

Lì sotto troveranno ad aspettarli il negromante, erroneamente creduto un alchimista sino al confronto finale, che gli aizzerà contro un’orda di scheletri viventi.

Solo alla fine verranno svelate le vere motivazioni che spingono i protagonisti, in particolar modo Norberto, e verrà fornita una nuova e diversa chiave di lettura degli eventi.


L’oro degli stolti

 di Gualtiero Ferrari

 

Prima di chiudere gli occhi, Sandro tornò con la memoria al giorno precedente, alla strada invasa dal profumo dei fiori di campo, quella sulla quale corse a perdifiato ansioso di mostrare a Beppe la refurtiva.

Ripeteva quanto appreso dai viandanti che aveva aggredito, stringendo tra le dita una mappa zeppa di strani segni, quella che credeva li avrebbe resi entrambi ricchi.

D’altronde lui era il braccio, mentre l’amico, il solo capace a leggere o far di conto, era la mente della scalcagnata coppia di briganti. Lo sapeva, ma non se ne faceva cruccio, andava bene così.

Giunto all’hostaria sul guado del fiume Po, dove il compare lavorava da sguattero per arrotondare i miseri guadagni da criminale, entrò nella bettola. Non essendo la discrezione uno dei talenti di Sandro, questi urlò a squarciagola: «Beppe, ho la mappa d’un tesoro!».

L’annuncio provocò l’ilarità degli avventori che, dichiarazioni del genere, ne avevano udite a bizzeffe.

Dietro al bancone, intento a sciacquare i boccali di birra in una tinozza con l’acqua più sporca di ciò che doveva lavare, Beppe, lungi dal farsi prendere per il naso, domandò: «Di grazia, a quale tesoro porterebbe questa famigerata mappa?»

Il taglialegna ci pensò un attimo tirando il fiato.

«Alla roccia della filosofia», dichiarò infine soddisfatto.

A quelle parole, quasi che un potente stregone avesse lanciato l’incantesimo del silenzio, nessuno osò profferire verbo.

In un tavolo d’angolo quattro loschi figuri mangiavano silenziosi, chini su tazze di zuppa bollente. Parevano cavalieri arrivati dalle steppe del nord, per come erano fasciati in vesti di pelle.

Il più robusto diede voce ai propri pensieri: «La Pietra Filosofale, volevi intendere? Il possente artefatto che trasmuta il vile metallo in oro?».

«Esatto!», confermò Sandro, «proprio quella!».

Il compare era tanto grosso quanto stupido, pensò Beppe afferrando un massiccio tagliere di legno che intendeva usare come mazza. Non serviva un cartomante per capire che a breve si sarebbe scatenato un putiferio.

Nel mentre gli energumeni s’erano alzati, armi in pugno, decisi a recuperare la carta che li avrebbe guidati all’oggetto leggendario; e non erano gli unici. Ogni avventore nella locanda si stava preparando alla mischia.

«Consegna la pergamena e potrai andartene sulle tue gambe», esclamò un norreno.

«No!», rispose Sandro portando la mano all’ascia.

I due si studiarono, guardandosi in cagnesco, ma l’iniziativa fu di Beppe che aprì le danze con un colpo alla testa del cavaliere più vicino.

Questi schivò l’attacco e gli restituì un fendente al viso, ma l’affondo si fermò a un palmo dal naso dell’incauto sguattero. Solo l’intervento d’un misterioso viandante, evitò che finisse squartato come un porco al macello. A giudicare dalla foggia dei vestiti e dalla quantità di lame che indossava, pareva un avventuriero quello schieratosi dalla sua parte.

Non ci volle molto a versare il primo sangue, e in breve il pavimento ne fu zuppo.

Beppe non si fece scrupolo a calare il massiccio utensile da cucina sul cranio d’un malcapitato, rovinato a terra per aver messo il piede in una sdrucciolevole pozza cremisi. Lo scrocchio dell’osso gli fece accapponare la pelle, ma c’era poco d’andare per il sottile.

A parte l’oste, un paio di contadini e i norreni, il resto degli avventori erano morti o fuggiti.

«Di questi me ne occupo io», sibilò l’avventuriero mettendo a segno una stoccata, «Voi portate il vostro amico e la mappa al sicuro».

Beppe annuì, ma trascinare l’invasato taglialegna lontano dalla pugna fu più facile a dirsi che a farsi. Alla fine, però, vi riuscì, e i due compari si ritrovarono sdraiati sulle rive del Po.

Intanto, alla taverna, il misterioso alleato aveva passato a fil di spada il capo dei cavalieri, riducendo gli altri alla ragione. Quello, e una mano mozzata, s’erano dimostrati argomenti convincenti e dopo qualche minuto riuscì a raggiungere i fuggiaschi nei pressi del fiume.

«Chi va là?», urlarono in coro.

«Mi chiamo Norberto», esclamò rinfoderando la spada dopo averla pulita nell’erba alta.

«Chi siete? Cosa volete?», domandò Beppe brandendo il tagliere a mo’ di arma.

«Vi ho salvato la vita, merito un minimo di riconoscenza», rispose, «Chi sono ve l’ho detto, e voglio partecipare alla cerca».

«La mappa è nostra!», latrò Sandro.

«Vostra?», replicò Norberto, «Di grazia, come ne siete entrato in possesso?».

«Questo non v’interessa», ribatté minaccioso.

«Suvvia non prendetela a male, signori. Se non fossi intervenuto sareste morti», l’informò senza animosità, «E senza il mio aiuto morirete prima di trovare ciò che cercate».

«Perché dovremmo fidarci di voi?», chiese Beppe.

«Conosco quei cunicoli», rispose Norberto, «Vi posso garantire che sono più antichi di quanto immaginiate. Il Duca di Savoia non li ha fatti scavare per difendere la Cittadella. Erano già lì, da tempo immemore, e Sua Eccellenza agognava il medesimo artefatto che ora cercate voi. Tuttavia, non aveva la mappa».

«Come sapete queste cose?», domandò sospettoso il lavapiatti, «Chi siete in realtà?».

Norberto attese un lungo momento prima di rispondere.

 

 

«Sono chi dico di essere, e ciò vi basti. Ho servito sotto il Testa di Ferro, esplorando le gallerie che volete percorrere. Laggiù vi sono creature che è meglio non disturbare. Posso condurvi nel labirinto senza farvi incontrare pericoli per la terza parte del tesoro che troveremo insieme alla Pietra. Quella la lascio a voi».

Sandro non aveva parlato d’oro o altri preziosi, pensò Beppe, convincendosi che l’avventuriero sapesse più di ciò che era disposto a condividere.

«Chiedete molto», bluffò con un fischio, «Cosa ne fareste di tutto quell’oro?».

«Ho un debito da saldare», tagliò corto, «Ma non sono affari che vi riguardano».

Il tono della risposta non gli piacque ma Beppe si persuase che, se avesse giocato bene le sue carte, sarebbe riuscito a liberarsi del compare e dell’ingombrante accompagnatore seminandoli nelle gallerie, tenendo l’oro tutto per sé. E qualora la Dea Bendata non gli avesse arriso, se ne sarebbe occupato di persona, facendoli ubriacare di vino corretto con radice di aconito.

«E sia», confermò infine, «Ma avrete solo la quarta parte e non oltre. Il resto sarà nostro».

Sandro annuì, mentre Norberto studiò per qualche istante il lavapiatti prima di accettare.

Ormai il sole aveva iniziato ad abbassarsi all’orizzonte e restavano poche ore di luce. Non essendo sufficienti per raggiungere la capitale del Ducato, il terzetto si risolse a bivaccare in una stalla diroccata poco distante.

I due briganti vegliarono a turno, temendo d’esser derubati della preziosa pergamena durante il sonno, mentre l’avventuriero dormì della grossa per la notte intera.

La mattina di buon’ora si misero in marcia, e nel primo pomeriggio giunsero in vista del ponte di Porta di Po.

All’altezza dell’ottavo pilone, dirimpetto alle mura cittadine, una casupola di mattoni rossi e tegole nere conteneva il meccanismo che azionava i bracci incatenati alla sezione di legno che fungeva da ponte levatoio.

Retaggio della dominazione francese, all’interno del locale gli ufficiali del Duca riscuotevano la gabella per l’attraversamento, mentre fuori, a formare una lunga fila, mercanti e persone comuni attendevano il proprio turno.

«Ci vorrà il resto della giornata», sbottò Sandro.

«Abbiate fiducia nell’efficienza sabauda», commentò Norberto, «Saremo sull’altro lato in men che non si dica».

Beppe tacque, scettico, ma i fatti diedero ragione al compagno di viaggio e, alleggeriti di tre cornabò, poterono attraversare il fiume prima di quanto paventassero.

I due bifolchi non erano mai stati nella Capitale prima d’allora e furono delusi nell’apprendere che, anche questa volta, non l’avrebbero vista, limitandosi a costeggiare il fossato sino ai bastioni. L’apparizione del primo colosso, strappò a Beppe un’esclamazione di meraviglia.

«Impressionante, nevvero?», esclamò Norberto notando lo stupore del compagno, «E quello è solo uno dei quattro gemelli posti a difesa della città».

Ferito nell’orgoglio per essere stato colto in fallo Beppe s’ammonì di porre più attenzione ai suoi comportamenti. Norberto non era solo un uomo d’arme, ne avrebbe tenuto conto.

«Come entreremo nel labirinto? Gli ingressi sono oltre le mura», domandò a quel punto.

«Non abbiamo accesso alla Cittadella», spiegò Norberto, «Passeremo dalle gallerie che sbucano in campagna».

«Non capisco», s’inserì Sandro.

«Le gallerie sono su due livelli», chiarì l’avventuriero, «Il più alto è a dodici braccia di profondità. Il più basso a venti».

«I cunicoli più profondi superano il fossato e arrivano sino ai campi», indicò i terreni in lontananza, «Da lì partono numerosi corridoi minori, ognuno di essi imbottito di polvere nera, pronta a esplodere sotto i piedi degli eserciti assedianti. Entreremo dallo sfiato di uno di questi».

Dopo una buona mezz’ora di cammino l’uomo si fermò nei pressi d’un canale, depose la spada e slacciò il giustacuore. Meno impacciato nei movimenti iniziò a frugare nell’erba alta mentre i due gaglioffi approfittarono della pausa per riposarsi, mitigando la calura sciacquandosi con acqua fresca e riparandosi all’ombra d’un olmo. Tempo dopo, un calcio agli stivali li svegliò entrambi: s’erano assopiti senza accorgersene.

«Ho trovato l’ingresso, ma devo vedere la mappa e scegliere la strada da percorrere».

Beppe era restio a fidarsi, ma era pur vero che, se Norberto avesse voluto, avrebbe tagliato loro la gola nel sonno e continuato nell’impresa da solo. Riluttante, annuì a Sandro che consegnò la pergamena.

L’avventuriero iniziò a studiarla, facendo scivolare le dita lungo percorsi immaginari per poi tornare al punto di partenza. Ripeté quei gesti più volte, quasi non ricordasse il tragitto da seguire.

«Ebbene?», l’incalzò Beppe.

In risposta ottenne il silenzio.

«Allora, avete trovato il sentiero o no?», insistette.

«Non sarà facile. Raggiungere la Pietra senza incappare in qualche bestia vomitata dall’Inferno richiederà tutta la mia abilità», annunciò preoccupato.

«Ce la potete fare vero?», s’informò preoccupato Sandro, «Non dovremo combattere draghi o creature simili».

Norberto sembrò rifletterci un istante, poi il volto si aprì un ghigno beffardo.

«Sì», confermò, «possiamo farcela».

«Vi occuperete anche dello stregone?», domandò a quel punto il taglialegna.

Il sorriso scomparve accartocciandosi in un’espressione di muto terrore.

«Stregone?», domandò Beppe livido di rabbia, «Cosa diavolo vai blaterando?».

«Beh…», azzardò, «c’è uno stregone a guardia della pietra».

«Pare tu abbia dimenticato di farne parola», lo rimproverò il lavapiatti.

«Ah…», sussurrò l’omone prima di tacere.

Per diversi minuti ciascuno rimase assorto nei propri pensieri.

Fu Norberto a rompere il silenzio.

«Lo stregone», iniziò cauto, «Cos’hanno detto i viandanti su di lui?».

«Non molto», bofonchiò Sandro, «Solo che studia la natura e gli alberi».

«Un druido?», azzardò Beppe.

«No, no! Un…».

«Erborista?», tentò di nuovo.

«No!».

«Alchimista?!», provò Norberto.

«Giusto!», confermò, «un alchimista».

Buone novelle. Non avrebbero dovuto affrontare un potente stregone armato del suo temibile bastone magico, ma uno speziale: un erudito preparatore di pozioni curative.

«Credo possiamo continuare senza timori», esclamò Beppe, ora allegro.

«Sicuro, rimettiamoci in marcia», gli fece eco Norberto.

Gli uomini si sciolsero in una risata liberatoria prima di calarsi nel buco del terreno, faccenda che risultò essere tutt’altro che semplice.

Sandro, data la sua mole, dovette essere spinto a forza nello stretto pertugio, al contrario di Beppe che, se non fosse stata per qualche radice sporgente a cui aggrapparsi, sarebbe caduto a piombo.

Appena Norberto ebbe raggiunto i due nella galleria estrasse dallo zaino un acciarino, la pietra focaia e l’esca. Trafficò sino ad accendere una torcia di stracci, uscita anche lei dal fagotto sulle spalle.

Beppe era impressionato. L’avventuriero disponeva della risposta a qualsivoglia evenienza e la decisione di sbarazzarsene ora appariva affrettata. Avrebbe potuto rimpiazzare il taglialegna con un compare degno di tal nome, e nel caso in cui non avesse accettato, beh, il brindisi all’aconito e la sua parte del tesoro avrebbero risolto il problema, ricompensandolo per la perdita.

La tenue luce della fiaccola illuminò una porzione del tunnel, mostrando null’altro che pareti di mattoni grezzi e un pavimento in pietra del tutto spoglio.

«Seguitemi», sussurrò Norberto, «attenti a dove mettete i piedi e mi raccomando: silenzio assoluto».

La comitiva s’incamminò addentrandosi nel profondo delle gallerie. L’aria era fredda e umida, eppure le camicie s’inzupparono di sudore attaccandosi alla schiena. Nel ventre della terra, poi, l’odore era tutt’altro che gradevole; muffe e funghi avevano preso dimora in quell’antro oscuro e l’aria era satura delle loro puzzolenti esalazioni.

Di quando in quando, Norberto si fermava a controllare cosa si celasse dietro un angolo. Poi, senza fiatare, ripartiva, seguendo un filo invisibile che si perdeva nell’oscurità. Qualche ora più tardi svoltò a destra finendo in un vicolo cieco.

«Eccoci arrivati», sussurrò a fior di labbra.

«Arrivati dove?», sbottò Beppe di fronte al muro.

La voce trillò acuta, rimbalzando sulle pareti, inondando il sotterraneo.

«Chi va là? Allarmi! Allarmi!», urlò uno sconosciuto in risposta, seguito da un coro di passi che si facevano man mano più vicini.

Senza indugi Norberto iniziò a tastare i mattoni, infilando le dita nelle fughe e provando a tirare.

«Che diavolo fate?», sbraitò Beppe, «Dobbiamo scappare».

«Non se ne parla», l’interruppe Sandro brandendo ascia.

Un istante più tardi una pattuglia d’una mezza dozzina di guardie della Cittadella irruppe nel corridoio, armi in mano.

«Arrendetevi», ordinò il militare col maggior numero di svolazzi sulla manica e bottoni sulla giubba.

Per tutta risposta, la scure mulinò sopra le teste e s’abbatté sulla lama d’un soldato, mandandola in frantumi.

Beppe, si tirò da parte, mollando i compagni a gestire la scabrosa situazione, ma Norberto, ancora impegnato a trastullarsi coi mattoni, sembrava disinteressato a ciò che gli accadeva alle spalle, perciò toccò a Sandro occuparsi del lavoro sporco.

Dopo aver spezzato una seconda spada, con una piroetta stacco la testa dal collo della guardia che aveva appena disarmato. I superstiti, inorriditi, fecero qualche passo indietro a riprendere fiato, ma l’omone li incalzò senza concedere alcuna tregua.

Di lì a poco, uno schiocco si fece largo nel clamore della battaglia, seguito da un brontolio cavernoso: là, dove prima c’era il muro, ora s’apriva un varco.

In un lampo Norberto estrasse la lama voltandosi ad affrontare i militari. Con un affondo spaccò il cuore del graduato, e con un fendente tranciò la gola al soldato dritto di fronte a lui.

«Svelti!», incitò i compari, «Dentro!».

In un istante balzarono oltre, e il passaggio si sigillò alle loro spalle.

Nonostante avessero attraversato un semplice muro, la sensazione di trovarsi in un altro mondo era prepotente.

Il muschio, aggrappato alle pareti, brillava emettendo un tenue bagliore; ma appena gli occhi si furono abituati alla luce argentea che rischiarava l’ambiente, l’orrore di quel cunicolo, basso e stretto, si rivelò in tutta la sua infernale magnificenza.

Sulla destra una colonna era decorata da tre cinte di crani. La prima, alla base, fungeva da appoggio della stessa. La seconda, fasciava la circonferenza a metà altezza, mentre l’ultima figurava da capitello e sembrava voler reggere da sola l’intera volta.

Tutt’intorno le pareti erano incrostate di denti, ossa e teschi. Le orbite sembravano prendere vita grazie ai giochi di luce, quasi che le anime dei defunti albergassero in quei crani vuoti, spiando i malcapitati pellegrini senza perderli mai di vista.

Sandro e Beppe fecero il segno della croce e, per buona misura, mormorarono una preghiera a fior di labbra.

«Andiamo», suggerì Norberto facendo strada con la spada in pugno.

Là sotto, la temperatura era tanto bassa che a ogni respiro una nuvola di condensa si materializzava davanti alla bocca. Anche l’odore era cambiato e un tanfo di morte e decomposizione aleggiavano in quel luogo maledetto.

Giunti nel cuore del labirinto entrarono in una stanza ottagonale con corridoi che s’aprivano su ogni parete e si perdevano nelle tenebre.

Dinnanzi ai loro occhi s’ergeva un altare composto da scheletri, gli uni incastrati negli altri. Ogni pezzo della struttura era in precario equilibrio: sorretto dal precedente, e punto d’appoggio del successivo.

L’intreccio somigliava a un groviglio di corpi contorti, deformi; sottomessi a una volontà superiore. Al centro del costrutto s’intravedeva una pietra baluginare d’una tenue luce verdastra.

Nemmeno il tempo di varcare la soglia che le ossa incastonate alle pareti iniziarono a cadere a terra, in uno scroscio osceno e incessante. Quanto già sul pavimento prese a muoversi, animato da chissà quale sortilegio, e si ricompose a creare una moltitudine di scheletri viventi.

Sandro, alla vista di quei mostri vomitati dall’Inferno, perse il controllo della vescica inzuppando le brache, ma si riscosse in fretta. L’ascia prese a roteare, tagliando e frantumando ciò che trovava sul proprio cammino.

Le creature colpite si polverizzavano all’istante, ma per una che veniva abbattuta, tre sorgevano a nuova vita.

In un angolo della stanza una figura ammantata di nero cesellava l’incantesimo, intonando una litania senza fine. Sul volto dell’uomo i denti bianchi deformavano la bocca in un ghigno crudele, esaltato dal rosso degli occhi iniettati di sangue.

Pur nel clamore della battaglia Norberto s’avvide dell’inquietante presenza. Urlò molte parole ma solo una si fece largo sino a essere udibile: negromante.

Beppe capì ch’era giunta l’ora di togliere il disturbo. S’infilò nel cunicolo più vicino e corse come avesse il diavolo alle calcagna.

Sandro, a quella notizia, perse ogni desiderio di combattere emettendo un gemito soffocato. Consapevole dell’imminente trapasso, raccomandò l’anima a Dio poi, con un urlo sprezzante, si gettò contro lo stregone in un ultimo disperato assalto.

Norberto, intuite le intenzioni del compagno, si liberò d’un paio di scheletri che gli sbarravano la strada, quindi gli si lanciò dietro.

Beppe corse alla cieca sino a perdersi, ma non gl’importava: meglio vagabondare nei tunnel piuttosto che affrontare orde di creature maledette richiamate in vita da un negromante.

Lo sforzo della fuga gli aveva calmato i nervi, ma il terrore lo colse quando, amplificato dalle pareti delle gallerie l’urlo di Sandro lo raggiunse. Era un grido di guerra, e per un attimo si permise di sperare, poi un rantolo strozzato ne prese il posto e Beppe capì che il compare era passato a miglior vita.

Inutile perdersi in romanticherie, pensò affrettando il passo alla ricerca d’una via d’uscita.

Raccapezzarsi in quell’oscuro labirinto non era affatto facile ma fu una svolta a sinistra a toglierlo d’impiccio. Andò a cozzare di petto sulla punta d’una spada che affondò sino a trapassargli la colonna vertebrale.

Norberto estrasse la lama e la ripulì del sangue sui pantaloni del lavapiatti. Caricò il corpo sulle spalle e tornò nella sala dove lo attendeva lo stregone.

«Con questi siamo a diciassette», esclamò lasciando cadere a terra la carcassa, «Quanti altri te ne servono?».

«Solo tre, e considererò saldato il tuo debito», rispose sorridente il mago nero porgendogli per l’ennesima volta la pergamena.

«Tieni a freno i tuoi scheletri la prossima battaglia, mi hanno quasi ucciso oggi», si raccomandò.

«Mio caro», rispose mellifluo il negromante, «sai bene che sono ombre e nulla più. Allucinazioni provocate dagli effluvi che i funghi spargono nell’aria».

Norberto si strinse nelle spalle, prese la mappa e la ripose nello zaino, si diede un’occhiata intorno poi s’incamminò verso l’uscita.

Moribondo, Sandro aveva udito la conversazione.

La carne pulsava là dove l’artiglio d’uno scheletro aveva inciso in profondità, sino a sventrarlo.

Secondo il mago erano solo illusioni, ma a lui il dolore sembrava maledettamente reale.

Tornò col pensiero al profumo dei fiori di campo.

Era passato solo un giorno.

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