
Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare per la prima volta L. K. Peka, autore emergente che ci propone “Vendicatore dal Secondo Cielo”, racconto sword and sorcery con ambientazione azteca di circa 20.000 battute.
Autore
L. K. PEKA è nato a Chieti nel 1992. Laureato in Giurisprudenza, ha lavorato in studi legali, ma ora si dedica prevalentemente alle sue passioni: la storia, le lingue antiche e la narrativa fantastica e fantascientifica.
Ha pubblicato con Moscabianca Edizioni il racconto Agente Ecologico (2019) nella serie antologica Prisma.
Ha collaborato all’edizione italiana de Il codice delle creature estinte (The Resurrectionist) di E.B. Hudspeth, occupandosi in particolare della revisione linguistica.
Sinossi
Durante l’invasione spagnola dell’America centrale, i conquistadores subiscono le incursioni di Nazcal, un misterioso guerriero ammantato in una pelle di giaguaro. Nazcal è in realtà agli ordini di uno spregiudicato sacerdote; ma quando questi gli ordina di condurre da lui una ragazza destinata al sacrificio, il guerriero si ribella, rifiutandosi di spargere altro sangue. Dovrà allora affrontare i servitori del sacerdote, oltre a una abominevole creatura richiamata dalle sue oscure arti magiche.
La trama trae spunto, oltre che dalla storia, dal mito mesoamericano della creazione: esistono tredici “cieli” o mondi, ognuno dei quali è il riflesso, sempre più labile e indistinto, dell’immagine del dio Ometeotl (sintesi dei principi maschile e femminile), riflessa consecutivamente da tredici specchi. Nella costruzione narrativa i “cieli” vengono immaginati come veri e propri mondi paralleli: appunto da uno di questi proviene Nazcal, che serve il sacerdote nella speranza di riuscire, tramite il suo aiuto, a fare ritorno a casa.
Vendicatore dal Secondo Cielo
L.K. Peka
Prologo
I soldati erano sagome nere contro il tramonto sanguigno della foresta. Si aggiravano tra i cadaveri, fermandosi ogni tanto per raccogliere un monile d’oro sfuggito alla prima razzia, o per finire un moribondo. Il silenzio era riempito dai pulsanti ronzii degli insetti e dai richiami degli uccelli tropicali.
Chaco Dominiquez e il suo manipolo scavalcarono i corpi degli ultimi difensori indiani, falciati dal fuoco di balestre e archibugi. Benché non avessero ricevuto ordini in tal senso, i soldati oltrepassarono il campo di battaglia e si addentrarono nella foresta. Si fecero largo tra le fronde a colpi di spada. Le enormi foglie caddero rivelando una piccola radura. Al centro, un tugurio di canne e tetti di paglia era addossato al tronco di un secolare albero lanoso.
«Ecco cosa proteggevano!» Chaco sogghignò, scoprendo la dentatura sporca e incompleta. Si avvicinò con cautela, spada in pugno, e spalancò la porta di canne e foglie intrecciate.
La luce rivelò un nugolo di fanciulle dalla pelle scura che si stringevano tra loro impaurite. Gli sguardi dei loro occhi spalancati guizzarono nella penombra appuntandosi sugli invasori, ma esse non si mossero, paralizzate da un terrore animalesco.
Chaco rimase senza fiato. Erano tutte bellissime. Indossavano solo perizomi o gonnellini di seta e canapa, i lunghi capelli neri e lucidi scendevano scarmigliati attorno ai seni grandi e rotondi.
Qualcuno dei soldati fischiò. «Ehi, Chaco, guarda che spettacolo! Anche meglio delle altre!»
«Le porteremo in dono al re» rispose Chaco, «ma adesso facciamole sparire… e che a nessuno venga in mente di chiamare il capitano. Siamo già in troppi!»
I soldati sghignazzarono e, rinfoderate le armi, si diedero a trascinare via le fanciulle. Chaco si affrettò a sceglierne una e la portò fuori dalla capanna. Se la tirò dietro per un braccio, mentre gli altri soldati facevano lo stesso con le loro prede.
Chaco non poteva crederci. Aveva temuto di doversi litigare le fanciulle con i commilitoni. Erano bocconcini di prima scelta, eppure in quella foresta ce n’erano così tante che ognuno poteva avere la propria.
La ragazza lo seguì recalcitrante tra gli alberi e i grovigli di radici: una ninfa morbida e flessuosa, tutta sedere e seni maturi, che incespicava sulle lunghe gambe. Era alta quasi quanto un uomo. Chaco la dardeggiò di sguardi bramosi, urtando contro gli alberi a furia di guardare indietro. Quando ebbe trovato una comoda alcova, al riparo di piante rigogliose, spinse la fanciulla a faccia in giù sul terreno. Lei provò a rialzarsi, sollevando le natiche d’ebano, due dure montagnole separate solo da una strisciolina di canapa. Chaco era accecato dalla lussuria. La spinse di nuovo a terra e le sedette a cavalcioni sulle cosce, armeggiando per slacciarsi il cinturone e abbassarsi i calzoni.
«Dominiddio m’ha voluto bene!» esclamò. «Ah! Non riderete più, ora, di Chaco Dominiquez!» E assestò una pacca sul sedere della ragazza. Un anno prima, era uscito dal carcere di Toledo sotto condizione che si imbarcasse per la corona, senza paga e senza promesse. Era galeotto e diseredato, ma la Nuova Spagna lo aveva reso un conquistatore.
La ragazza sotto di lui si dibatté.
«Sta’ buona, muletta, non ti farò male. Tu lo sai chi è il Signore Iddio?» Chaco le fece allargare le gambe e la afferrò per i fianchi. «Adesso te lo insegna Chaco. Mio fratello è prete, sai? Anch’io ne so qualcosa. Ti posso… convertire, ha ha!» Si fece rapidamente il segno della croce, poi si curvò su di lei.
«Signore… Signore Iddio» mugolò mentre spingeva, «perdonami se pecco con una creatura senza anima! Lo spirito è forte ma la carne è debole. Signore… se me la farai portare in Spagna, la battezzerò, te lo prometto… e dedicherò una croce d’oro a San Giacomo!»
Proseguì nel suo empito di fornicazione alternando grugniti e preghiere sconnesse, a un ritmo sempre più frenetico, fin quando non si riversò nella ragazza invocando il nome di Dio. Poi giacque sfatto e ansimante. Quando si fu riavuto, si alzò e si rivestì alla meglio. Rimise in piedi la ragazza tirandola per i capelli. Le legò i polsi con una cordicella e si incamminò verso il campo, tirandosela dietro.
1.
Alberi neri e freddi, una foresta di ossidiana. La luna era sorta come una lama crudele, irraggiando minacce d’argento. Forza che si addensava nei nervi, odio che brillava dietro gli occhi dipinti di nero.
Nazcal scrutò l’intreccio di sentieri nascosti dalle felci, dall’alto della biforcazione legnosa dove era acquattato. I due stranieri superstiti incespicavano tra le agavi, avanzando nel buio a braccia protese, come ciechi. Parlavano in sussurri affannati nella loro lingua inusitata, come uccelli spauriti. Erano rimasti isolati dai compagni, e la loro esplorazione era diventata una fuga. Ma la direzione era quella sbagliata, quella che non dovevano prendere. E Nazcal non aveva una lingua in cui dirglielo, che non fosse quella di Mictlan. La lingua dei morti. La mano era già sul lucido legno della macuahuitl.
Discese a terra, senza fare più rumore di un giaguaro in agguato. I suoi piedi trovarono appoggi sicuri sulla terra umida. Solo il tintinnio della bisaccia lo tradì. Il primo straniero si voltò, ma troppo lentamente. Un fendente gli recise di netto la gola. Cadde a terra in un clangore di metallo e cuoio.
Il secondo straniero sobbalzò, le sue mani strinsero convulsamente la piccola balestra. Si girò all’intorno, puntando l’arma alle ombre della foresta. Nazcal era di nuovo tra gli alberi. Lo straniero non si accorse di lui fin quando la lunga lama non balenò di nuovo, irta di scaglie di ossidiana, e si abbatté sul suo cranio aprendolo fino alla nuca.
Nazcal si sistemò il cappuccio a bocca di giaguaro, che era scivolato durante l’attacco. Si lasciò alle spalle i nemici uccisi e proseguì lungo il sentiero.
In alto, la piramide del tempio svettava sulla foresta, più nera della notte, una turgida mammella della Dea Terra.
Nazcal entrò dal basso portale. Seguì al buio il percorso che gli era stato insegnato, finché un lucignolo non apparve in un gomito del passaggio di pietra. I corridoi male illuminati lo condussero a sale abbandonate, dove restavano solo cocci di vasellame dipinto e alcune vecchie maschere di legno, che fissavano il vuoto con le loro espressioni grottesche. Oltre c’era un’altra sala: dalla stuoia che la schermava, filtrava la luce guizzante del fuoco. Nazcal scostò la stuoia ed entrò.
Il fumo denso di effluvi vegetali colpì le sue narici. Il pavimento non era gelido come nel resto del tempio, ed era punteggiato di frantumi di ossa. Dietro un pilastro s’intravvedeva un ampio altare di pietra; una figura ammantata in una veste indaco salmodiava con voce profonda.
Nazcal lasciò cadere la bisaccia davanti a sé. Il canto lamentoso si interruppe e la figura si voltò: un sacerdote ingobbito, con due occhi da rapace sul volto rugoso. I capelli unti erano annodati in un pennacchio sulla nuca, appena sopra il collare di piume d’uccello che gli cingeva le spalle.
«Oh… sei qui? Non ti ho sentito arrivare…»
«Ho portato i talismani trafugati dagli stranieri.»
Il sacerdote abbassò gli occhi sulla bisaccia e subito si chinò a frugarvi dentro. Estrasse con cautela i medaglioni e le statuette d’oro e di rame, nettandoli con le mani dalle unghie adunche.
«Ottimo. Gli dèi sono compiaciuti.»
Voltò le spalle a Nazcal e si diede a disporre i gingilli in una nicchia sotto l’altare. Dall’altra parte, due omuncoli dalla pelle flaccida svuotavano catini dorati in una scanalatura nella pietra. L’altare era lordo di sangue.
«Hai curato che nessuno degli stranieri ti seguisse fin qui?» chiese il sacerdote.
Nazcal strinse le labbra. «Stanotte ho ucciso due di loro. Non si erano accorti di me, ma tu hai ordinato che nessuno si avvicini al tempio.»
Il sacerdote si voltò. «È cruciale che gli invasori non trovino questo luogo sacro» disse con voce querula. «Sarebbe una profanazione. Inoltre, abbiamo bisogno di un posto sicuro dove pianificare le prossime mosse. Hai ancora del lavoro da svolgere.»
«Le vostre guerre non mi riguardano.» Nazcal fece un passo avanti. «Ho fatto ciò che mi hai chiesto, ho recuperato gli oggetti sacri. Adesso onora il tuo patto e rimandami a casa.»
Il sacerdote puntò un indice e fissò Nazcal da sotto le spesse sopracciglia corvine. «Ascolta, guerriero giaguaro. Il sangue del Secondo Cielo ti darà pure le capacità sovrumane che ti consentono di sconfiggere gli invasori; ma qui, sotto il Primo Cielo, sei solo un figlio adottivo di uno dei tanti popoli sudditi dei potenti Mexica. Non alzare la testa più di quanto ti sia concesso. Un ultimo incarico, ti dico. Poi sarai libero.»
Nazcal incrociò le braccia sul petto. Lo sguardo dei suoi occhi dipinti di nero si accigliò ancora di più. «Che cosa vuoi che faccia?»
«So che gli invasori hanno catturato delle fanciulle consacrate all’amata Dea Terra. Esse rappresentano un ponte tra l’energia degli dèi e il nostro mondo. Devi liberare quelle che sono sopravvissute e condurle qui.»
«Dove si trovano?»
«Sull’altra sponda del Papaloapan. Fa’ in fretta. Gli etzpanioles hanno messo il campo presso le Rovine di Giada e stanno portando oltre il fiume le loro armi del fuoco assordante… così terribili che potrebbero scuotere anche gli altri Cieli.»
Mentre ascoltava, Nazcal seguì distrattamente con gli occhi le fessure del pavimento di lastre, fino a un angolo dov’erano accatastati teschi e tibie. «Dimmi, stregone: gli stranieri sanno dell’esistenza degli altri Cieli?»
Il sacerdote scrollò lo scialle di piume. «No. Essi credono in un unico Dio, creatore di un unico mondo. Non sanno che Ometeotl, l’ambiforme, si è specchiato tredici volte negli specchi fumosi, e che ciascun Cielo non è che il riflesso, via via più indistinto, della sua divina immagine. Ma a volte i varchi tra i diversi Cieli si aprono spontaneamente, per ragioni ignote, come tu stesso hai sperimentato. Perciò, farai bene a spalancare per gli etzpanioles le porte di Mictlan, l’oltretomba, prima essi trovino uno di quei varchi, e mettano a ferro e fuoco anche il mondo di cui hai tanta nostalgia.»
2.
La ragazza sobbalzò quando la mano le coprì la bocca.
«Sst. Non voglio farti del male. Come ti chiami?»
Sentendo parlare in nahuatl, la ragazza si rilassò. Allontanò la mano di Nazcal. «Mi chiamo Yala.» I suoi grandi occhi bruni lo studiarono nella penombra della tenda, soffermandosi sulla sua tenuta maculata. «Sei un guerriero giaguaro mexihcatl?»
«Più o meno. Mi manda Totlemec, il sacerdote. Dove sono le altre fanciulle?»
Yala scosse la testa. «Alcune sono morte per mano degli etzpanioles. Le altre sono state portate sulla costa, verso Champotón.»
Nazcal corrugò la fronte. «Troppo lontano.» Strisciò fuori dalla tenda, facendo segno a Yala di seguirlo. «Che gli dèi le guardino. Noi dobbiamo tornare subito al tempio.»
«No! Ci sono ancora le mie sorelle, nascoste nella foresta. Non posso abbandonarle.»
«Temo che dovrai, almeno per il momento.»
Un grido di allarme si levò nel campo e Nazcal si voltò. Yala cercò con lo sguardo un varco nella recinzione e si lanciò in corsa.
«No, ferma!» Nazcal corse dietro di lei.
La ragazza sparì nell’ombra sotto la palizzata, ma subito dopo si levò un trambusto.
«Oh, adónde vas, chica?»
Nazcal sguainò la spada, con una maledizione tra i denti. Spiccò un balzo e si gettò sul drappello di soldati che avevano agguantato Yala. Due caddero a terra per l’impatto, con uno schianto di ossa e di metallo sul terreno pietroso. Colti alla sprovvista, gli altri non riuscirono a muoversi prima che le lame di ossidiana colpissero ancora, squarciando la tempia di un soldato. I due superstiti cercarono di tenere a distanza Nazcal con le lance, come una belva feroce. Intanto urlavano come impazziti per richiamare altri soldati.
Yala si era liberata approfittando del caos. Nazcal la prese per mano e la tirò via con sé verso il folto degli alberi. «Non voglio affrontarli tutti» le disse quando si furono allontanati. «È più importante che tu raggiunga subito il tempio.»
La ragazza aveva lo sguardo adombrato, ma annuì.
3.
Bracieri e candele brillavano in tutti gli angoli della sala di pietra, quando Nazcal e Yala entrarono.
«Ah, sei tornato! E non da solo…» Totlemec il sacerdote si voltò sfregando le mani. Il suo sguardo fosco si attardò sulla figura levigata di Yala. «Ce ne sono delle altre? Perché non sono con te?»
«Per i Cieli!» imprecò Nazcal. «Hanno condotto le fanciulle a Champotón. Ho dovuto infiltrarmi fin nel cuore del loro accampamento, che pullulava di soldati.»
«Sì, beh, non tutto è perduto.» Il sacerdote fece un cenno ai famigli e indicò Yala. «Grazie a questa incantevole creatura, presto gli dèi ci tenderanno la loro mano potente e benigna.»
Gli omuncoli misero le loro mani molli sulle braccia d’ebano di Yala e la sospinsero delicatamente fin dietro l’altare.
Nazcal li seguì con gli occhi mentre tiravano fuori dalle terrecotte ampolle di unguenti e utensili di giada e d’oro. «Che cosa le accadrà, ora?»
Il sacerdote scosse le spalle curve. «Riceverà la benedizione di sua madre, la Terra, ricongiungendosi al suo grembo fertile e accogliente.»
Nazcal non vide bene cosa accadeva dall’altra parte della sala, ma udì uno sferragliare metallico e uno sguardo di paura scolorò il volto di Yala.
«Aspetta… Vuoi forse sacrificarla?»
Totlemec non rispose. Si avvicinò all’altare e iniziò a trafficare con gli amuleti riposti nelle nicchie, gracchiando tra sé una litania rituale.
«Rispondimi, vecchio pazzo!» Nazcal avanzò serrando i pugni. I due famigli più vicini alzarono verso di lui lance dalla punta di rame. «Le ho promesso la libertà, non la morte!»
Il sacerdote lo guardò. «Ascolta, ragazzo. Nelle tue vene scorre il potere di un altro Cielo, ma questo ha un prezzo. L’energia non attraversa spontaneamente gli specchi divini. C’è bisogno di un legame vitale, un’offerta, per mantenere aperto il varco. Come credi che ti abbiamo sostenuto, sino ad ora?»
Nazcal abbassò lo sguardo. Le parole del sacerdote caddero come pietre appuntite sulla sua coscienza. Gli balzarono davanti le macchie di sangue sull’altare; pensò alle innumerevoli vittime immolate sull’altare, secondo il costume degli antichi. Lo aveva sospettato, ma non aveva immaginato che quel sangue fosse stato versato per lui.
«Lo ignoravo.» La sua voce era un freddo sussurro. «Ma non deve più accadere. Nel mio mondo, nessuno viene sacrificato contro la sua volontà. È un dono, non un supplizio. Lascia andare la ragazza. Combatterò, con o senza offerte di sangue.»
«Devo chiederti invece di allontanarti, guerriero giaguaro. Il rituale non può continuare in tua presenza.»
Nazcal strinse l’impugnatura e sguainò la spada macuahuitl. «Allora, per i Cieli, non continuerà affatto!»
I famigli fecero un timoroso tentativo di fermarlo. Uno dei due cadde a terra con la lancia tagliata a metà, l’altro fu atterrato dal pugno di Nazcal.
«Yala, non lasciare che ti prendano!» Nazcal tentò di aggirare l’altare, ma si ritrovò accerchiato dai viscidi famigli, che sembravano spuntare da ogni angolo. Cercavano di frenarlo con il proprio peso morto, una flaccida resistenza passiva. Nazcal ringhiò come un giaguaro. La macuahuitl disegnò un arco tagliente che lacerò la muraglia umana. Gli omuncoli si dispersero urlando e stringendosi le ferite e gli arti mutilati.
Dall’altra parte, Yala si sottrasse alle umide mani dei famigli, cercando una via di fuga.
Intanto il sacerdote aveva preso a salmodiare in una lingua antica quanto incomprensibile. Raccolse da un braciere un pugno di cenere e lo gettò sul pavimento. Le lastre di pietra sfrigolarono e sembrarono sprofondare in un pozzo di ombre. La cenere prese a mulinare come viva.
«Imparerai a non irritare un ministro degli antichi dèi, giaguaro insolente…»
L’aria divenne un sudario di fuliggine. Dal vortice di cenere emerse un orrido rapace, più alto di qualunque uomo. Due braccia scheletriche agitavano speroni di nudo osso, le orbite erano nere e vuote, e dal becco adunco gorgogliava un gracchiare scomposto.
Nazcal osservò senza fiato il mostro. Poi strinse i denti e curvò la schiena. «Padre Tuono, aiutami!» gridò, e avventò la spada. Le lame di ossidiana scivolarono inutilmente tra le ossa e la cenere che ammantava la creatura. Nazcal cercò invano di liberare l’arma da quell’immondo amalgama.
Il rapace mulinò colpi d’artiglio con furia cieca, mandando strida assordanti. Nazcal riuscì a evitare la punta d’osso acuminata, ma la zampa oscillò di nuovo e lo colpì di piatto. Il guerriero fu sbalzato attraverso la sala e volò contro una colonna.
Il dolore gli esplose nella schiena, mozzandogli il fiato. Gli occhi gli si riempirono di polvere e di lacrime. Scosse la testa cercando di riaversi, ma ogni respiro era un’agonia di fitte. La spada era volata via.
Attraverso la nebbia che gli velava gli occhi vedeva la creatura muovere i passi pesanti e sbilenchi verso di lui. L’orribile testa d’uccello si contorceva a scatti innaturali, e dietro balenava la figura di Yala in piedi sull’altare, con gli occhi spalancati fissi su Nazcal. La fanciulla aveva in mano un coltello cerimoniale di giada. L’aveva raccolto per difendersi dai famigli, ma ora lo rivolse contro di sé. Mordendosi le labbra, si incise l’avambraccio. Il sangue gocciolò sulla pietra dell’altare, spargendosi in densi rivoli.
La furia divina montò dentro Nazcal. Fiamme di energia riempirono il suo corpo, consumando i dolori come il fuoco fa con i secchi bitorzoli del legno. Una sensazione che gli era familiare, che accolse con rabbia gioiosa.
Il mostro cercò di ghermirlo ma Nazcal afferrò le zampe ossute, frenandole a pochi centimetri dal proprio volto. Poi le allontanò da sé, tendendo i muscoli in uno spasmo doloroso. Il rapace strideva e dimenava tutto il deforme corpo di ossa e cenere.
«Sei solo una creatura disgraziata» disse Nazcal tra i denti. «Nondimeno, devo rimandarti nell’abisso da cui quel folle ti ha riesumato tuo malgrado.»
Le ossa scricchiolarono e si accartocciarono sotto la stretta sovrumana delle mani di Nazcal. Il mostro si contorse, cercando ora di fuggire, gridando e inarcandosi all’indietro, fin quando i suoi arti non si spezzarono come legni secchi. Un urlo agghiacciante uscì dal becco ricurvo. Nazcal gettò via i moncherini, strinse il collo del rapace e divelse la spina dorsale. Spezzò le vertebre fin quando il lamento cessò e della creatura rimase solo un mucchio di ossa e cenere. Quindi Nazcal si diresse verso il sacerdote.
Totlemec agitò le mani. «Fermo! Senza di me non tornerai mai nel Secondo Cielo!»
«Allora sia come vogliono gli dèi» disse Nazcal. «Chiederei la strada di casa ai pelosi coyotl del deserto, piuttosto che a te!»
Il guerriero afferrò il sacerdote e lo scaraventò contro l’altare. Un frullare di mani e di piume, poi il vecchio giacque sulla pietra con il collo spezzato.
Nazcal alzò lo sguardo. La sala era in fiamme. I bracieri si erano rovesciati nella precipitosa fuga dei famigli, spargendo braci sui tessuti, le stuoie, gli arredi. Yala correva verso di lui, stringendosi il braccio in una fasciatura improvvisata. Nazcal recuperò la macuahuitl. Un ultimo sguardo indietro, e uscì dalla sala insieme a Yala.
Poco dopo, erano fuori. Lingue di fuoco si agitavano in cima alla piramide del tempio, spargendo bagliori nella notte della foresta.
«Un altare che può convertire il sangue in energia vitale» disse Nazcal contemplando l’incendio. «Meglio che bruci. Anche se ci ha salvato la vita, stanotte.» Guardò Yala: si stringeva il braccio con aria dolente, ma stava bene.
«Grazie. Ma non farlo più.»
«E tu, non portarmi in altri templi.»
La bocca di Nazcal si incurvò in un sorriso tra le fauci del giaguaro. Si voltò e scomparve nel folto della foresta, seguito da Yala. Prima dell’alba, sarebbero stati lontani.