I racconti di Satrampa Zeiros “La via del dovere” di Alessandro Vittori

Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare per la prima volta Alessandro Vittori, che ci propone “La via del dovere”, racconto sword and sorcery di circa 20.000 battute spazi inclusi.


Autore

Alessandro Vittori, nato l’8 settembre del 1991 a San Benedetto del Tronto. Cresciuto tra le dolci colline marchigiane a suon di pizza, pessime letture, giochi di ruolo e wargames tridimensionali, oggi conduce una vita ritirata in campagna. Alterna le sue giornate tra lavori agricoli e scrittura, nella speranza, un domani, di emergere e poter vivere di questa.


Sinossi

In un mondo oscuro e senza luna, dove lo scandire del tempo è alternato dal venire di un’eclissi, gli uomini sono ridotti a essere cibo per bestie. Il membro di un’antica stirpe si aggira per le lande desolate, seguendo il lascito di un dio caduto: estirpare la progenie ovunque essa sia.


La via del dovere 

Alessandro Vittori

 

 

Rya attendeva la venuta di Umbra, assorta in vaghi pensieri.

Apparve lenta e ineluttabile. Inizialmente lambì il disco solare formando un’introflessione a malapena accennata; poi, col passare dei minuti, divenne sempre più netta e piena, fino a prendere la forma di semicerchio. Nera, come le tenebre che portava. La luce diminuì, mentre il cielo plumbeo si tingeva del sangue di un sole morente. Un sinistro spettacolo che si ripeteva ogni giorno e, che ogni giorno, lei si soffermava a guardare.

Udì le voci in strada scemare, lo sbattere delle imposte e lo scattare dei catenacci; un tonfo più cupo degli altri indicò la chiusura delle porte dell’avamposto.

Un anello di fuoco nel cielo. L’eclissi divenne totale.

«Ancora con il muso all’insù?»

La voce di Oath la riportò tra i piatti della cucina. Il locandiere, un uomo tracagnotto, era intento ad allacciarsi il grembiule. «Ti ho lasciata qui e qui ti ritrovo» borbottò. Cercò di fermare i legacci sulla schiena, ma a causa della vita generosa, le dita non riuscirono a formare un nodo.

«Lascia, faccio io» disse la donna con un sorriso.

Lui, testardo, scuoté la testa e riprovò un paio di volte. Alla fine si fece aiutare. «Cosa ci trovi di così bello nel tramonto, io proprio non lo so!»

Lei non rispose; annodò il grembiule.

«Avanti, va di là.» Le diede una pacca sul sedere spingendola verso la porta. «Abbiamo diversi clienti stasera: ci sono Jerro e i suoi, due mercanti di Dianti e altri tre di cui non ho ben capito la provenienza, ma che sicuramente si tratterranno per la nottata.» Fece una pausa. Il volto divenne serio. «È rientrato anche quel tizio.»

«Ancora?» esclamò lei, perplessa.

Oath annuì. «Tieni Pheo lontano da lui. Mi puzza di guai.»

 

Nella sala grande della Dama Rossa aleggiava un brusio concitato.

Rya spaziò con lo sguardo, vide cinque soldati al bancone, alle loro spalle i tre anonimi e i mercanti ben vestiti. In un angolo del locale, al riparo dalla luce delle candele, sedeva lo straniero. La sua cappa era abbandonata sulla sedia, la spada appoggiata al tavolo e Pheo, a due passi da lui.

Aprì la bocca per chiamare il ragazzino, ma qualcuno, da dietro, l’afferrò per i fianchi.

«Eccola qua, signori, la nostra Dama Rossa!» squillò limpida la voce di Ammon Jerro.

Tutti si voltarono. I soldati risero. Soltanto uno rimase a capo chino, indifferente.

Il militare la tirò a sé. «Iniziavamo a preoccuparci» le sussurrò. Era alto, dal petto largo, i capelli biondo cenere e la mascella volitiva.

Lei sorrise con complicità. «Davvero?»

«I ragazzi hanno sete e anch’io» le confessò.

Lui cercò, come sempre, di baciarle le labbra; lei si sottrasse, come ogni volta, porgendo la nuca.

«Quanta cattiveria, Rya! Nemmeno un bacio merito?»

«Forza, che ti costa?» gridò qualcuno.

«Quando ti ricapita uno così?» aggiunse un altro.

Lui le lanciò uno sguardo eloquente.

«Smettila cretino» rispose vergognosa. Celò sotto la chioma scura il rossore delle guance. Ad ogni modo, non gli negò di lasciar cadere l’occhio tra i seni, nel corsetto rosso che lui le aveva regalato.

Ammon Jerro, giovane capitano di Passoteschio, era il miglior partito a cui si potesse aspirare e per lei, donna senza marito sulla soglia dei trentotto, poteva essere una vera opportunità. Tuttavia, le note storie delle sue amanti e la grande differenza d’età tra loro, spingevano Rya alla cautela.

Riuscì a divincolarsi dalle mani bramose dell’uomo, promettendo a lui e alla sua compagnia da bere. Cercò nuovamente Pheo. Era ancora lì, immobile, a pochi passi dallo straniero.

«Pheo!» gridò.

Il bambino si riscosse e trotterellò verso di lei. «Che c’è?»

«Cosa stavi facendo?»

«Quello che faccio sempre, prendevo le ordinazioni!» rispose furbescamente. Poi, sgattaiolò in cucina.

Il servizio iniziò. Rya versò da bere ai soldati, elencò il prezzario ai tre viaggiatori, i quali desideravano alloggiare per una notte, e scambiò qualche parola gentile con i mercanti, mentre Oath si adoperava a far uscire i primi piatti.

D’un tratto vide Pheo varcare la soglia della cucina, sorreggendo una ciotola di brodo e una pagnottella di pane.

«Quella dove va?» chiese trattenendolo per un braccio. Conosceva già la risposta.

«Questa è per lo straniero.»

La donna gli strappò il piatto dalle mani. «Dà qua. Ci vado io.»

Il ragazzino protestò, ma lei lo azzittì poggiandogli un indice sulla bocca.

«Ascoltami bene, Pheo,» disse inginocchiandosi alla sua altezza «quello ha l’aria di essere un uomo cattivo. Stagli lontano e, se dovesse dirti o chiederti altro, vieni subito da me.»

E l’aspetto da uomo cattivo lo aveva davvero: non tanto nel corpo, nel quale era simile a molti altri cupi viaggiatori, bensì nei modi, freddi, distaccati e privi di calore umano. Da quando era arrivato, tre giorni addietro, le aveva a malapena rivolto una manciata di parole. Evitava tutti e tutti evitavano lui. Tranne Pheo, lui ne era stranamente attratto.

«La vostra zuppa.» Lasciò scivolare la scodella sotto al muso dello straniero, versandone una parte sul tavolo.

L’uomo sembrò soprassedere al gesto. Girò il cucchiaio nel piatto setacciando il fondo, quasi a volersi sincerare della presenza della carne.

Rya notò gli stivali sfiniti dai troppi passi e le vesti sporche; percepì l’odore acidulo della camicia e quella traccia tipica di chi è senza dimora. L’occhio le cadde anche sull’arma poggiata al tavolo, a portata di mano: una semplice spada abbellita da eleganti fornimenti.

«Vi sarei grato se mi deste il pane» disse l’uomo. Aveva una voce profonda.

«Allora l’avete la lingua» commentò sarcastica.

Lui volse repentino il capo e la trafisse con uno sguardo spietato. Le porse la mano aperta.

La donna sussultò: in quelle iridi grigie non v’era umanità. Concesse il pane. Ad ogni modo, trovò la forza per domandare. «Chi siete?»

Lo straniero prese la pagnotta e mormorò in un verbo incomprensibile.

«Cosa siete venuto a fare a Passoteschio?» lo incalzò lei. «Nessuno si trattiene più di un giorno in questo avamposto di via…»

L’altro, in risposta, cominciò a spezzettare la mollica nel brodo.

«Perché sparite la mattina e rientrate al venire dell’eclissi?»

L’uomo lasciò cadere nel piatto le ultime briciole. «Solo il sangue di Bestia gira quando Umbra è alta nel cielo. Ad ogni modo, chi io sia o quel che faccio, non è affar vostro.» Prese il cucchiaio e affossò il pane nel brodo. «Vi conviene andare, donna. Siete richiesta altrove.»

Lei avrebbe voluto insistere, ma sentì chiamare il proprio nome.

«Allora, Rya, arriva o no questo secondo giro?» gridarono i soldati.

 

La serata andò bene. Gli uomini bevvero più del necessario, i mercanti lasciarono una buona mancia. Quando uno diventava sazio del cibo, o della compagnia, pagava e se ne andava. Solo lo straniero si dileguò al termine della cena: raccattò le sue cose e salì in camera sobrio.

Ad ora tarda, l’unica persona ancora in piedi era Rya. Oath sonnecchiava già da un po’ nella sala grande, mentre aveva mandato a letto Pheo prima che gli uomini iniziassero a intonare canzoni sguaiate in preda all’alcol.

Finito quanto doveva, si appollaiò alla finestra per riposare le membra stanche. Rimase ad ammirare la quiete notturna: Passoteschio, un agglomerato fortificato di una trentina di case, sembrava un’isola fantasma tra i Picchi di Nerath. A Rya tornarono in mente le antiche storie, di quando gli dei camminavano tra gli uomini. Le leggende sostenevano che in principio il tempo non esistesse, giacché vi era solo l’eterno. Fu con l’apparizione della Bestia che per la prima volta il sole si oscurò e nel mondo entrarono malattia, corruzione e morte. Da lì ebbe inizio il fluire dei giorni.

Un fischio secco tagliò l’oscurità, spazzando via quei vaghi pensieri. Conosceva quel suono, i soldati lo usavano per richiamare l’attenzione dei compagni. Nel buio, dapprima muto, le parve di udire le voci delle sentinelle.

Il cupo rintocco di una campana percosse l’aria immobile.

La donna trasalì. Era l’allarme!

Seguì un secondo, un terzo rintocco. Qualche vicino scese in strada: volti assonnati nei quali si mischiavano, in egual misura, confusione e paura.

Uno strillo inumano squarciò la notte, seguito da un’esplosione cremisi dal lato occidentale. Il silenzio venne spazzato via, annientato da grida di dolore, gracchi bestiali e dalle urla di Ammon Jerro.

«Progenie! Attacco, siamo sotto attacco!» Il giovane capitano correva lungo la via sbandierando una torcia. Chiamava a raccolta tutti gli uomini capaci di battersi. «Hanno fatto breccia nelle mura Ovest, presto!»

Il cuore di Rya perse un battito. Nessuno creatura aveva mai fatto irruzione nell’avamposto.

«Cosa fai lì impalata?!» Oath la superò e sbatté le ante all’interno. «Corri a prendere Pheo e barricatevi in cantina.» Il cuoco afferrò due grossi coltellacci da cucina e fece per uscire, quando si accorse che la donna non si era mossa di un passo: fissava impietrita la finestra chiusa dalla quale provenivano urla strazianti e rumori di lotta. «Ascoltami,» disse il vecchio scuotendola per le spalle, «va’ a prendere il ragazzino e chiudetevi in cantina, là non vi troveranno. Hai capito?»

Lei sembrò recuperare un minimo di lucidità. Annuì. L’attenzione le cadde sulle lame che lui stringeva. «Tu dove vai?» gli chiese con le lacrime agli occhi.

«Io devo andare fuori.»

Passarono alla sala grande. Pheo era sceso terrorizzato. «Nonno, che succede?» chiese smarrito.

«Va» le disse Oath, ma Rya volle accompagnarlo fino alla porta della Dama Rossa. «Chiudi non appena sarò uscito e fa’ come ti ho detto. Mettetevi al sicuro.»

Le sorrise. Tolse il catenaccio.

Fuori, l’orrore. Mostruosità antropomorfe, dai corpi nudi e scarnificati, gli arti rapaci e le teste scaturite da una malata ibridazione di uomo e uccello, balzavano su soldati e civili asserragliati in difesa, artigliando, strappando, beccando e gracchiando del massacro. Decine di assalitori erano accasciati a terra, immersi in pozze di sangue viscoso, mentre quanti cadevano vittime delle progenie venivano trascinati via nell’oscurità.

«Per Harneus!» imprecò il cuoco. Percepì la presa sui manici dei coltelli farsi debole. Deglutì. «Chiudi» sussurrò alla donna. Raccolse tutto il coraggio che poté trovare e avanzò, pronto a prestare soccorso a un ferito.

Non fece nemmeno un passo. Un’ombra sbucò dal buio. Un essere lacertiforme, grande quanto due uomini, dal dorso ricoperto da un lucido carapace e dal muso corazzato, piombò su di lui inchiodandolo al suolo e scaraventando Rya all’indietro.

Il cuoco ebbe il tempo di lanciare un ultimo grido di terrore. La testa fusiforme del mostro scattò in avanti sgozzandolo. Oath si spense in un rantolo soffocato dal sangue.

Rya strisciò sulla schiena. Sentiva le grida e il pianto disperato di Pheo al suo fianco, e i sei occhi perlacei della bestia puntati su di lei. Quella emise un ruggito gutturale sputando bava e icore, piegò le zampe, schiacciò a terra il dorso, contrasse i muscoli pronta a balzare.

Percepì qualcosa passarle accanto l’orecchio e sollevarle una ciocca di capelli. Un quadrello di balestra si conficcò nel collo della mostruosità strappandole un guaito di dolore.

Ai piedi delle scale, lo straniero lasciò cadere in terra la balestra ed estrasse la spada. Scattò in avanti, pronto a fronteggiare la bestia.

La creatura mostrò le zanne in segno di sfida, tuttavia, anziché gettarsi sulla preda, spalancò le fauci ed emise uno strillo acuto, tanto forte da piegare qualsiasi essere vivente.

Rya coprì istintivamente le orecchie, ma sentì il suono penetrargli nella testa come un chiodo. Al suo fianco, Pheo cadde a corpo morto. Persino lo straniero barcollò.

In men che non si dica, l’essere azzannò il bambino e lo trascinò via.

 

Rya sbatté le palpebre stordita.

La testa le doleva, il sapore amaro del sangue le rivoltava la bocca. Girò lo sguardo a destra, a sinistra.

«Pheo» chiamò. «Pheo!» Non c’era. «Pheo…» Il nome si trasformò dapprima in singhiozzo, poi in pianto.

Gattonò fino al corpo del vecchio cuoco. Oath giaceva immobile sulla soglia: le palpebre spalancate e la gola squarciata. L’uomo che l’aveva accolta come una figlia non c’era più, strappato al mondo dalla follia di una mostruosità aberrante. Tra le lacrime, chiuse gli occhi al morto. Cancellò il terrore donandogli la dignità che meritava.

Lo straniero li scavalcò con noncuranza.

«Dannazione!» sibilò l’uomo a denti stretti.

La strada era un mattatoio. I corpi ritorti degli assalitori erano disseminati ovunque. Delle cinquanta anime che abitavano Passoteschio, ne erano sopravvissute diciassette: le poche radunatesi attorno ai militari e che avevano combattuto schiena contro schiena per salvarsi la vita. Tuttavia, soltanto una manciata di caduti avrebbe ricevuto una degna sepoltura. I più erano stati trascinati nelle tenebre.

Ammon Jerro era disteso a terra, una mano premuta al fianco mentre l’altra reggeva la spada conficcata nel ventre di una delle creature.

Non appena lo vide, Rya corse da lui. Era vivo, ma non aveva un bel colore. «Ammon, sei ferito?»

«Stai indietro» le intimò. Tremava visibilmente. «Voi!» gridò verso lo straniero.

L’uomo, intento a esaminare uno dei coltelli branditi da Oath, si voltò. Un rivolo di sangue gli colava dal naso tra la barba incolta.

«Come pensavo… Un cacciatore» concluse.

«Che cosa?» esclamò qualcuno.

«Impossibile, uno dei rinnegati?» commentò un altro.

«Guardate il sangue: rosso con delle striature argentee. È un discente della stirpe di Harneus.»

Lo straniero pulì la bocca con la manica della camicia. «Sì» rispose lapidario. Avvicinò il giovane capitano e gli scostò la mano dalla ferita.

Rya intravide un lungo taglio e la carne che iniziava a venarsi di nero.

«Un brutto colpo» osservò il cacciatore.

«Brucia.»

«I Corvus intingono gli artigli nel proprio sangue prima di combattere. Sapete bene cosa comporta una ferita del genere» disse con un’occhiata eloquente. «Mi dispiace, ragazzo.»

Ammon Jerro abbassò lo sguardo. «Dovete uccidermi, non è così? Altrimenti diverrò un corrotto, una prole ferale.»

Lo straniero lo fissò con le iridi grigie. «No, io uccido solo le bestie. Voi non lo siete, almeno non ancora. Fino ad allora, potrete scegliere di morire da uomo libero.»

 

Il suo mondo finì quella notte.

Oath morto. Ammon Jerro e altri quattro lo sarebbero stati presto. Tutta la gente che conosceva le era stata strappata via. Anche Pheo.

Il cacciatore disse loro di attendere il passare della notte, di radunare le proprie cose e riparare, all’alba, allo snodo commerciale di Dianti. Dopodiché aveva raccolto il proprio equipaggiamento, pronto a partire.

«Vengo anch’io» disse Rya.

«No,» le rispose lui, «non posso badare a voi.»

«Né ve lo chiedo.»

«Fatevi da parte, donna! Vostro figlio è spacciato.»

«Non sono sua madre.»

«Allora perché rischiare tanto?»

«Perché devo farlo. Pheo, ora, ha solo me.»

Così lasciarono Passoteschio insieme. Oltrepassarono la breccia occidentale, là dove le progenie avevano sfondato: una porzione del muro era letteralmente saltata, frantumata in migliaia di frammenti anneriti.

«Negli anni, i Corvus si sono limitati ad attaccare le carovane. Mai avevano tentato con l’avamposto» disse la donna. Prese una pietra combusta. «Non li credevo capaci di tali stregonerie.»

«Infatti non lo sono. Questa è l’opera di un’Etruscilla» la corresse l’uomo. «Da giorni ne seguo le tracce, ma deve avermi fiutato, altrimenti non avrebbe trovato riparo tra picchi di Nerath. Sono esseri astuti, in esse la bestialità è fusa all’intelletto.»

«Etruscilla,» ripeté lei, «è la progenie che ha ucciso Oath e ha preso Pheo?»

Lo straniero annuì. «Strappare via i cuccioli è un buon modo per stanare la preda.»

Rya sgranò gli occhi. D’un tratto, tutto le apparve chiaro. «Quella cosa non è venuta per noi… Dava la caccia a voi!»

L’accusa restò senza risposta.

Il cacciatore tirò fuori uno dei coltellacci branditi da Oath poco prima di morire. La lama, ricoperta da una sostanza viscosa e nera, rifletté maligna il rossore di Umbra. L’uomo leccò il sangue dell’Etruscilla.

«Ma che fate?!» esclamò la donna sgomenta.

Lui la guardò, le spietate iridi grigie risplendevano d’argento. «Do inizio alla vera caccia.»

Si lanciarono nell’oscurità, lo straniero avanti e la donna dietro. Dapprima avanzarono lungo il valico a passo di corsa, percorrendo mezzo miglio a Nord, dopodiché volsero a Ovest e arrancarono sul pietrisco dei Nerath.

Lo straniero procedeva rapido: la testa alta, i sensi allerta. Di tanto in tanto rallentava e porgeva l’orecchio, come se udisse qualcosa nella brezza notturna.

«Siamo sulla strada giusta?» chiese quando vide l’uomo volgersi più volte attorno, incerto e guardingo.

«Abbassate la voce. Siamo vicini.»

Rya spaziò con lo sguardo. Nelle tenebre riuscì a scorgere uno sterile pianoro roccioso tra due alture.

«Le progenie erano molte e qui non vedo segni di passaggio.»

«Ed è normale, i Corvus hanno il cibo che volevano e alle Etruscilla piace cacciare da sole.»

«Come fate a essere sicuro che sia qui?» insistette.

«I membri della mia stirpe condividono il dono e la maledizione di Harneus. Se assaggiamo il sangue di una bestia, ne percepiamo la presenza. Prende la forma di un vago sussurro che diventa più insistente e forte all’avvicinarsi della creatura. È il richiamo della caccia, l’ultimo compito assegnato dal divino ai miei predecessori: cacciare le bestie e proteggere il mondo degli uomini… Il grande fallimento, l’eterna onta. È per causa nostra che il mondo è morto. Ad ogni modo, credo conosciate già la storia.» Fece una pausa. Tornò ad ascoltare la notte. «Lui è qui.»

Un gemito di dolore echeggiò.

«Pheo!»

Lo straniero le tappò la bocca con un manrovescio. Portò un dito all’altezza delle labbra.

Avanzarono lentamente acquattati tra le rocce. La zona frastagliata consentiva loro di restare coperti, ma al contempo, riuscire a scorgere qualcosa, era una vera impresa. L’uomo la guidò su un versante, anziché tagliare per il centro.

Intravidero il bambino piagnucolare ai piedi di una grossa formazione rocciosa, a una trentina di metri da loro.

«È vivo» sussurro incredula Rya.

«È una trappola» disse il cacciatore. Posò lo zaino, slacciò la cappa. «Sapete usare una balestra?» le chiese porgendole l’arma.

«Poco.»

«Allora cercate di non colpire me. L’Etruscilla sa che sono qui, ma potrebbe ignorare voi. Se avete una buona visuale, non esitate.»

Lei annuì. «Voi dove andate?»

Lo straniero le rispose con un ghigno. Scivolò verso il basso e, arrivato in prossimità di uno spiazzo, uscì allo scoperto snudando spada e pugnale.

Il buio venne tagliato a metà. Un fulmine cremisi saettò verso il cacciatore ed esplose in terra a pochi passi da lui.

L’uomo venne sbalzato via dall’impatto e ruzzolò tra la polvere.

L’Etruscilla uscì allo scoperto, pronta a reclamare il trofeo. Avanzò imperiosa mulinando sferzate con la coda piatta e acuminata.

Lo straniero si puntellò sulla spada e tornò in piedi.

Era ferito. Rya vedeva i riflessi del sangue argentato tingergli l’armatura di cuoio e la camicia.

Il cacciatore incrociò le lame dinanzi a sé, in una sorta di saluto marziale. La creatura ricambiò mostrando le zanne.

Camminarono in cerchio, l’uno di fronte all’altra.

Il tempo stesso sembro rallentare. Rya ebbe l’impressione di avere dinanzi a sé due parti di un intero, due forze ataviche destinate a scontrarsi per l’eternità. Da un lato la bestia, dall’altro l’uomo. Un’unica natura in verità.

La fiera ruggì, artigliò il terreno gettandosi in avanti, ma anziché avventarsi sul cacciatore come un comune predatore, schioccò la coda: un raggiò scarlatto a forma di falce scaturì crepitante dalla punta.

L’altro scartò di lato, eseguì una capriola passando sotto l’arco mortale. L’attacco esplose alle sue spalle frantumando una grande roccia in centinaia di schegge.

Il cacciatore tornò in piedi riguadagnando una posizione di sicurezza.

Un uomo normale dinanzi a una tale mostruosità avrebbe probabilmente ceduto alla paura, preferendo di gran lunga la fuga allo scontro, o se astretto a questo, avrebbe tremato dinanzi alla ferocia di un tale attacco e risposto con la medesima violenza in preda all’impeto.

Rya notò come il discendente di Harneus non batté ciglio dinanzi al pericolo e la morte, piuttosto sembrava conoscerla e accettarla; anzi, sembrava quasi corteggiarla. Ora teneva la spada con la destra tesa in avanti, ferma a mezz’aria, a controllare lo spazio che separava lui dalla belva.

Tornarono a studiarsi. La progenie al centro dello spiazzo ringhiava, mentre il cacciatore camminava in senso orario lungo la circonferenza, con passo misurato e la lama in guardia.

Scattarono all’unisono. La progenie balzò con le zampe anteriori protese. Il cacciatore fece un passo in avanti, schivò di lato e al contempo sferrò un colpo.

La spada disegnò un arco e separò di netto la parte terminale della coda che cadde a terra sfrigolando un’ultima volta.

La bestia emise un sibilo di dolore. Spalancò le fauci producendo lo stridio acuto.

Fu in quel momento che Rya scoccò. Il quadrello centrò il fianco della creatura, mozzandole il fiato.

In un istante, il cacciatore conficcò il pugnale nella mandibola del mostro.

L’Etruscilla stramazzò al suolo.

Il silenzio tornò a riempire lo spazio liberato dalla lotta. Solo il pianto continuò.

«Pheo!» Rya corse da lui. Lo strinse a sé. Aveva una coscia ferita, là dove le fauci l’avevano afferrato, e tremava. «Starai bene, vedrai» disse carezzandogli una guancia. Lo prese delicatamente in braccio.

Trovò il cacciatore dietro di lei: il pugnale nero nella mano, lo sguardo basso sulla gamba del bambino. Serrò la presa sul manico dell’arma e fece un passo avanti.

La donna inorridì. «Cosa volete fare?»

«Il mio dovere.»

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