
Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare Enrico Zini, autore emergente che ci propone “La Rossa Signora”, racconto di fantasy.
Autore
Enrico Zini, nato a Pisa nel 1974, ha una laurea in Scienze Politiche e un Master in Comunicazione pubblica e politica. Partecipa ad alcuni concorsi di poesia, uno dei quali lo porta nel 2006 alla pubblicazione di alcuni componimenti nel volume “Antologia italiana. Poeti contemporanei” (Libroitaliano World).
I racconti “Come una dea” e “Virtus Unita fortior” lo classificano terzo rispettivamente al Premio Dragut 2017 e al Premio “Andiamo in Ucronia” 2018, cui segue la pubblicazione nell’omonima raccolta antologica (Montegrappa Edizioni).
“Cronache Hamaxhoni-Esperia, la rivolta”, finalista al Premio Vegetti 2018, esce per Tabula fati nel 2017.
“Cronache Hamaxhoni-Esperia, la fuga”, finalista al Premio Italia 2019, esce per Tabula fati nel 2018.
La Rossa Signora
Enrico Zini
La donna agonizzava: il sangue copioso le usciva da una ferita sotto il seno destro, ma era ancora viva.
«È mezza morta non vedete, lasciamola morire,» propose uno dei soldati greci.
«No, troppo facile, gettiamola ai cani: è andata contro natura, superando i limiti del suo sesso!» rilanciò un altro.
«È anche meglio che sia ancora cosciente, così sarà consapevole del suo destino,» sentenziò un terzo.
La presero per i piedi trascinandola per tutto l’accampamento attaccata a un carro.
Mentre entrava e usciva dall’incoscienza, la poveretta poteva già udire il latrare dei molossi, tra poco avrebbe anche sentito i loro denti aguzzi lacerare le sue carni. La svegliò l’acqua fredda del fiume; andò sotto temendo di annegare, l’impeto della corrente la trascinò via; lottò con tutte le sue forze, ma era troppo stanca per avere la meglio.
«Aiuto! Aiuto!» gridava disperata, ma sapeva che non ne avrebbe ricevuto alcuno.
Inaspettatamente una mano misericordiosa si sporse per soccorrerla.
«Aiutami!» ripeté aggrappandosi a quell’ancora di salvezza improvvisa e insperata.
«Ehi ragazza, svegliati non stai annegando, sei al sicuro, ormai!» la rassicurò una voce maschile.
Quando aprì i begli occhi blu vide rosso sul suo petto, ma era solo il colore dei suoi lunghi capelli; tre persone erano accanto a lei.
«Chi siete?» domandò confusa guardando i presenti.
«Io mi chiamo Arianna e questi sono mio marito Mineo e mio figlio Alceno. La vera domanda, però, è chi sei tu, noi siamo nella nostra casa. Ti abbiamo ripescata dalle acque alla foce del fiume, eri nuda e gravemente ferita,» ribatté una bionda matura.
«Sei una sirena, non è vero?» chiese il bambino.
La rossa si concentrò, cercando di schiarirsi le idee. Poi alzò il suo magnetico sguardo, sgranando gli occhi atterriti, angosciata: «Non lo so!»
«Come non lo sai, avrai un nome, no?» domandò Mineo, un uomo dal volto duro, la barba incolta e i capelli arruffati, ma dal sorriso gentile.
Fece segno di no con la testa.
«Se ce l’ho, non me lo ricordo… non ricordo niente!» si allarmò.
«Come niente, qualcosa ricorderai, qual è l’ultima cosa che ricordi?»
«La tua voce.»
«Visto? Ve l’avevo detto che era una sirena!» affermò soddisfatto Alceno.
«Le sirene hanno la coda mentre lei ha delle buone gambe,» ribatté Arianna stizzita.
«Allora è una ninfa: un’oceanina o una nereide,» insistette il bambino.
«Nel delirio dicevi cose incomprensibili, parlavi in una lingua straniera. È molto più probabile che tu sia una schiava sfuggita dal campo greco gettandoti nello Scamandro. Da dieci anni Troia è assediata dagli Achei di Agamennone,» ipotizzò Mineo.
«Deve essere frutto del bernoccolo che hai sulla testa,» riconobbe Arianna indicando la ferita.
«Quindi ho perso la memoria…» realizzò.
«Non ti preoccupare, presto o tardi ti tornerà e potrai così decidere dove andare e cosa fare della tua vita. Fino ad allora rimarrai con noi. Purtroppo, come hai potuto vedere, siamo pescatori, gente semplice. Se sei stata presa da una città saccheggiata dai Greci molto probabilmente sei una nobile, la figlia di un sacerdote o addirittura una principessa, poco abituata alle privazioni.»
«Io vi ringrazio e vi garantisco che se ho ancora delle proprietà nella mia città vi ricompenserò. Per il momento lavorerò per questa famiglia come tutti voi.»
«Allora resterà!- esultò il bambino – quindi, fino a che non le ritorna la memoria dovremmo trovarle un nome, che ne dite di Sirena?»
«Sirena?» La rossa era dubbiosa.
«Ti chiameremo Anadya, da Anadyamo, colei che sorge dalla spuma del mare, è lì che ti abbiamo trovato, alle foci dello Scamandro,» intervenne Mineo venendole in aiuto.
«Sì, l’epiteto di Afrodite, un nome adatto per una donna della tua bellezza» concordò Arianna.
Da quel giorno tutta la famiglia si comportò magnificamente con lei e specialmente la donna l’accudì come fosse stata sua sorella. Col tempo Anadya diventava sempre più forte e ben presto, col suo corpo atletico si rese molto utile in casa, prendendosi cura di Alceno quando i suoi genitori volevano stare un po’ da soli e aiutando Arianna nei mestieri femminili. Anche se imparava presto, era palese che non li aveva mai sbrigati, elemento che rafforzò l’idea che fosse nobile. Tutto procedeva per il meglio fino a quando, una sera, Mineo e suo figlio non tornarono dalla pesca. Arianna era preoccupata, non avevano mai fatto così tardi. Anadya si offrì di andarli a cercare. Prese un mantello per il freddo, una torcia per farsi luce, l’arco da caccia dell’uomo contro brutti incontri, e si inoltrò nel bosco.
Prima di vederli li sentì: voci che pronunciavano parole in una lingua incomprensibile. Aguzzò gli orecchi avvicinandosi al falò del bivacco, non lontano dalla linea degli alberi.
Gli uomini intorno al fuoco erano guerrieri, una piccola barca era in secca poco distante.
Erano i famosi Achei tanto temuti dalla famiglia? Si chiese allungando il collo per vedere meglio: avevano archi, piccole spade e indossavano corazze di cuoio e pantaloni di pelle. Non si spiegava come, ma sapeva che non erano Greci. Qualcosa le suggerì che erano Sciti.
Pirati! Ricordò all’improvviso, erano pirati. Presa da un cattivo presentimento si alzò determinata a tornare a casa, Arianna era in pericolo.
Attraversò la fitta vegetazione, silenziosa, muovendosi con grazia, le orecchie intente a distinguere tra i suoni del bosco rumori sospetti. Un fruscio tra i cespugli alla sua destra la mise in allerta. Rapida, tese l’arco e d’istinto scoccò. Il gemito che sentì le fece raggelare il sangue. Quando corse a controllare si accorse che la sua preda era del colore del manto di un cervo, aveva gli occhi da cerbiatto, ma aveva i capelli biondi, ora sparpagliati intorno alla testa come raggi di sole; dal suo corpetto venatorio, all’altezza del cuore, spuntava la freccia che con incredibile precisione l’aveva centrata da grande distanza.
«Ho colpito Arianna!» si disperò, che cosa ci faceva nel bosco? Si chiese. Forse era uscita anche lei a cercare i suoi cari. Si chinò per vedere se poteva fare qualcosa; indietreggiò spaventata: la bionda era morta, ma non era la sua amica, non le assomigliava per niente. Sbatté le palpebre confusa: chi era? Tornò a guardare osservandola meglio, le pareva un volto familiare, ma non vide più niente, tra le frasche non c’era nessun corpo, anzi, non si era mossa di un passo da dove si era nascosta per osservare i pirati. Avrebbe voluto fare mente locale per scoprire qualcosa di più su quello che le era appena successo: poteva aver visto un frammento del suo passato? Forse, ma aveva cose più importanti da fare, in primo luogo avvisare Arianna del pericolo. Tuttavia, mentre correva verso il bosco, non riuscì a non pensare al fatto che molto probabilmente era un’assassina e che quell’immagine che le era balenata alla mente era alla base della rabbia, dell’odio e della violenza con la quale rammentava confusamente che l’avevano trattata i Greci: forse aveva ucciso una loro principessa o, addirittura, una loro regina. Raggiunta la modesta baracca di legno, scoprì di essere arrivata troppo tardi: l’amica era stata rapita, probabilmente, da quei banditi, non senza aver lottato come una leonessa. Doveva liberarla, ma come?
«Sono un’assassina, ma anche una buona arciera,» si rispose guardando l’arma che teneva in mano, avrebbe usato quella.
Tornò sui suoi passi dove aveva visto bivaccare gli Sciti, ma lì non c’era più nessuno. Per trovarli dovette arrampicarsi su un’altura. Non lontano era ancorata la loro flotta; si avvicinò per vedere meglio e finalmente riuscì a individuare i suoi amici: Arianna gridava il nome di suo figlio mentre i pirati facevano fatica a trattenerla; Mineo voleva, invece, a tutti i costi liberarsi dalla stretta di due grossi energumeni per accorrere in aiuto della moglie e di Alceno. Quella scena le straziò il cuore: accucciata, strinse con forza l’arco e poi lo tese puntando con furore ai banditi che trattenevano il povero pescatore ma, invece di scagliare la freccia, si alzò e si fece scoprire, dopo aver buttato l’arma. Erano in troppi, non sarebbe mai riuscita a liberarli in quel modo, avrebbe dovuto trovare il momento opportuno per agire, per questo si era arresa. Gli eventi presero, però, una piega diversa da quella che aveva immaginato. I pirati divisero la famiglia: l’uomo venne trascinato su una nave diversa da quella della moglie. Sperava che lei, almeno, essendo una donna sarebbe stata tenuta insieme alla sua amica. Invece fu diretta da un’altra parte. La sua destinazione era la barca più grande: aveva come polena un’Afrodite che reggeva tra le braccia un Eros alato. Si meravigliò di vederla in mano a quei tagliagole: non si spiegava come, ma sapeva che quella era la nave reale troiana; era stata quella a riportare Paride da Micene con Elena. Al suo comando doveva esserci una persona importante. Infatti una delle guardie non tardò a confermarle i suoi sospetti: mentre tutti gli altri schiavi sarebbero stati venduti al mercato, lei sarebbe diventata una concubina di Lapaxais, il capo.
L’istinto di Anadya sarebbe stato di lottare, invece s’impose di restare calma: se avesse continuato a divincolarsi non avrebbe ottenuto niente. Doveva dimostrare che aveva accettato il suo fato diventando docile.
Con un profondo sospiro si rassegnò: come amante del “re dei pirati” avrebbe potuto indurlo ad andare a recuperare i suoi amici, se fosse stata brava. Non era pur vero che per una donna, Elena, era iniziata la guerra di Troia che da quasi dieci anni dilaniava quelle terre? Lei non voleva mica arrivare a tanto con le sue arti, solo convincere un capo banda ad acquistare e liberare quella che era diventata la sua nuova famiglia.
Questa consapevolezza le diede la forza per non reagire quando, una volta sulla grande nave, le altre concubine di Lapaxais la spogliarono, la lavarono e la vestirono con un perizoma e una fascia mammellare di un tessuto così sottile da essere trasparente. Unta con oli profumati fu quindi portata dal suo nuovo padrone che l’aspettava sdraiato nudo sul talamo di un’ampia cabina. Era un uomo robusto ma non grasso, con una lunga barba rossa e un faccione che avrebbe potuto sembrare a prima vista quello di un bonaccione. Dai discorsi e dalle raccomandazioni delle donne che l’avevano abbigliata, però, usciva un’altra verità: generoso con i suoi soldati e con chi lo serviva bene, poteva diventare crudele con chi osava sfidarlo.
«Per tutti gli dei, la tua bellezza è notevole, come ti chiami?» l’accolse lo Scita squadrandola da capo a piedi come per valutare un animale da allevamento.
«Non lo so, ma Mineo, che mi ha salvato dal fiume, mi ha dato il nome di Anadya. Pensa che sia stata una nobile o perfino una principessa di una delle città della Troade saccheggiate da Achille,» riferì cercando di non pensare alle mani dell’uomo che licenziose percorrevano il suo corpo.
Lapaxais rimase colpito da quell’affermazione e la toccò con più attenzione, specialmente le braccia e le spalle.
«I tuoi non sono muscoli da nobile, ma da cacciatrice o perfino da guerriera: ecco perché tu smetterai di essere Anadya, la principessa prigioniera, e diventerai Andiope, l’amazzone indomita che è riuscita a sfuggire ai Greci uccidendo numerosi carcerieri prima di essere catturata dai valorosi Sciti…facendomi guadagnare un tesoro.»
«Andiope: un nome che rievoca la mitica Antiope, rapita da Eracle, amata da Teseo e da lui tradita, non una storia a lieto fine.»
«La tua lo sarà, se ti comporti bene,» affermò avvolgendola in un abbraccio e cercando le sue labbra, ma si ritrasse subito piegandosi su se stesso annaspando: la ginocchiata all’inguine che gli aveva sferrato era stata forte. L’omone inferocito cercò di arrivare alla spada che si era tolto, ma Anadya fu più veloce e la usò per decapitarlo.
Rimase a guardare la testa che era caduta a terra con un rumore sordo, seguita poco dopo dal corpo che si abbatté sul pavimento di legno con un tonfo ancora più fragoroso.
Solo allora le guardie irruppero dentro. La donna rimase immobile, spaventata da quello che aveva fatto e dalla condanna a morte che si era tirata addosso. I due guerrieri l’attaccarono inferociti. D’istinto evitò il fendente del primo e scansò l’affondo del secondo; poi contrattaccò eliminandoli velocemente: il suo corpo aveva agito da solo come mosso da una volontà propria. Ora però non sapeva che fare. Poi si ricordò di un’interessante usanza degli Sciti: preso il capo di Lapaixas uscì dalla cabina per andare sul ponte; lì gettò la testa gocciolante del loro comandante ai piedi della ciurma sbigottita.
«C’è qualcun altro che vuole approfittare di me o provare a sottrarmi il comando che mi sono conquistata uccidendo quest’uomo?»
Vedendola tutta coperta di sangue un pirata di origine egiziana il cui nome significava la “Vendetta di Ra”, detto semplicemente Ra, s’inginocchiò evocando la “Rossa signora”, epiteto di Sekhmet, dea della guerra del suo paese. Purtroppo, non tutti furono d’accordo: il vice di Lapaxais, volle provare a prendere il posto del capo. Fu eliminato con una rapidità e una facilità che sorprese persino Anadya.
«Bene, qualcun altro aspira ad aggiungersi alla mia collezione di coppe da vino?» domandò sorpresa di ricordare quella tradizione scita che trasformava i teschi dei nemici ammazzati in coppe. Nessuno si azzardò più a sfidarla, anzi molti seguirono l’esempio dell’egiziano.
«Sì sono la Rossa Signora, non so chi sono e da dove vengo, ma so dove voglio andare, a riprendermi la mia famiglia.»
Non si sarebbe più fatta chiamare Anadya finché non avesse ritrovato Mineo, Alceno e Arianna. Sapeva che da quel giorno in poi avrebbe vissuto nel sangue e non voleva macchiare il nome che i suoi cari le avevano messo. Aveva ucciso e lo avrebbe fatto ancora, scoprendo una parte di sé che doveva imparare padroneggiare se voleva liberare i suoi salvatori, ma che doveva sopprimere con tutte le sue forze, una volta raggiunto il suo obiettivo: non voleva essere un’assassina, anche se lo doveva diventare per il tempo necessario.
Fu così che nacque il mito della feroce bandita che si diceva emersa dal sangue come la sua nave Afrodite. Le prede preferite erano navigli Achei che avevano iniziato a temerla come la Rossa Signora dei Mari, ma anche i convogli schiavisti tremavano quando scorgevano all’orizzonte la sua nave. La pirata non rinunciò a cercare i suoi cari battendo i mercati di schiavi più famosi senza molta fortuna fino ad arrivare davanti all’Ellesponto, in un’isola montagnosa coperta di boschi che diradavano in una valle resa fertile dal fiume Ilissos. Fu così che giunse alla capitale di Samotracia, nel nord.
Anadya cercò informazioni sui suoi amici perduti, ma nessuno le seppe dire niente di utile, così si diresse verso il santuario che si ergeva su tre terrazze divise da due ruscelli, sulle pendici occidentali del monte Hagios Georgios. Entrata da est superò il corso d’acqua; attraversò il propileo che portava da una parte al muro che delimitava il recinto sacro, l’entrata per gli iniziati, distinguibili dalla sciarpa rossa che portavano alla vita, dall’altra parte all’Anaktoron, la casa dei signori. Era quest’ultima la sua destinazione. Lì, dopo l’iniziazione, sperava di trovare almeno le risposte sul suo passato ancora oscuro. Così in una piccola stanza dell’edificio si spogliò dei suoi abiti e si purificò immergendosi in una vasca situata nell’angolo sud-est. Poi, vestita di bianco, fu condotta nella sala grande dove si ferì con il pugnale sacro raccogliendo il sangue in una piccola coppa di ceramica che versò, dopo la preghiera alla dea, nella fossa circolare davanti a lei dove buttò, infine, il recipiente. Quindi lo Ierofante, il supremo sacerdote, con il suo globo d’oro appeso al collo che lo contrassegnava, la portò nella stanza adiacente, più piccola, davanti alla statua di Kadmylos, lo sposo della Grande Madre Axiéra: il dio dalla testa d’ariete e l’erezione bene in vista, simbolo di fecondità, impugnava il Kerykeion, il bastone intorno al quale si attorcigliavano due serpenti.
Lì, dopo averle riferito i misteri sula sua vita, le annodò intorno alla vita la sciarpa rossa, segno del suo grado di Mistica.
Purtroppo quello che aveva appreso non le aveva svelato molto di più sul suo passato di quanto non sapesse già: la sua vita, almeno quella recente, era fatta di battaglie e morti. Effettivamente da quando era diventata la Rossa Signora dei mari non c’era stato giorno che non si fosse scontrata con qualche nave, mercantile o da guerra. Se voleva conoscere di più doveva passare attraverso l’epopteìa, la contemplazione, il secondo livello iniziatico che pochi per la sua pericolosità affrontavano e ancora meno riuscivano a raggiungere.
Così, poco dopo, seguì il religioso attraverso un grande edificio circolare tra due ali di iniziati che reggevano lumi per far luce in quella notte buia. Anche lei ne portava una, per rischiarare la sua anima. Al centro del luogo sacro torreggiava un monumento che rappresentava una grande torcia sotto il quale ardeva un braciere ricolmo di ferri roventi. Lì la candidata all’iniziazione gettò la sua fiaccola prima di guardare l’officiante in attesa delle domande che di lì a poco cominciarono, stringenti e private.
Quando Anadya svelò di essere la Rossa Signora dei mari un mormorio di incredulità e di paura si levò dagli astanti, ma fu silenziata dallo Ierofante.
L’interrogatorio fu lungo, difficile e duro; Anadya dovette confessare tutto: a ogni nuova azione malvagia che raccontava doveva prendere dal braciere uno dei ferri che riproduceva la lettera iniziale del crimine che aveva commesso e imprimerselo sul braccio.
Il grido che sentì quando, per la prima volta, la sua pelle sfrigolò non era il suo, lei aveva stretto i denti, anche se non aveva potuto impedire ai suoi occhi di lacrimare: era quello di una voce nota, Arianna. Fu tentata di girarsi, ma scartò subito l’idea, non era il momento di interrompere la cerimonia per verificare: la sua amica non poteva essere lì, il dolore e i fumi sacri dovevano averla confusa. Così continuò il rituale seguendo lo Ierofante fin dentro il tempio a forma rettangolare che attraversava il secondo ruscello terminando sull’altra sponda, con un’ampia abside che custodiva la statua della Grande Madre Axiéra seduta con un leone a fianco. Dentro dominavano il rosso, il verde, il blu e il grigio, colori della dea che si rincorrevano e s’intrecciavano su per le colonne, attraverso gli archi, sui marmi delle statue, in giochi cromatici e di luce. Qui s’immerse in una grande buca circolare dove con un panno sacro si mondò dai misfatti che aveva commesso nella vita e su un altare di porfido sgozzò un vitello in sacrificio celebrando ad alta voce gli inni alla divinità.
Dopo continuò il suo sacro viaggio, questa volta da sola davanti all’abside dove, seduto sulle ginocchia della dea, ritrovò lo Ierofante. Anadya aprì il suo cuore alla dea; inarcò la schiena e s’impettì, offrendosi al pugnale Epopteo.
L’iniziata strinse i denti mantenendo la posizione mentre sul suo seno sinistro veniva incisa una “E”, insieme all’anello di ferro che le fu messo al dito, simbolo del suo grado iniziatico. Venne così il momento tanto atteso: la rivelazione del mistero. Finalmente avrebbe scoperto un particolare importante del suo passato che l’avrebbe aiutata a ricordare: un grande e forte guerriero, che ora era morto, le aveva cambiato la vita. Fu una delusione non si poteva che riferire a Lapaxais, il pirata Scita che lei aveva ucciso diventando la Rossa Signora. Uscita dall’altro lato del corso d’acqua si trovò sulla terza terrazza dove, accanto al maestoso tempio della coppia divina Axiera e Kadmillo, sorgevano il Thesaurus, dove venivano custoditi tutti i doni votivi agli dei, e gli alloggiamenti degli Epoptei e dello Ierofante. Più tardi tutti gli iniziati, anche quelli di rango inferiore, furono ammessi ai festeggiamenti per l’ascesa della nuova consorella rivestita di tutto punto. Le tavole erano imbandite di piatti prelibati, cibi esotici e ricercati nonché di ogni sorta di bevanda.
Fu qui che vide Arianna, con la sciarpa rossa annodata in vita: era una Mistica.
Le due restarono immobili a guardarsi incredule per un lungo momento poi si unirono in un forte abbraccio. L’amica le raccontò la sua storia: era stata comprata al mercato degli schiavi da un ricco mercante che era venuto sull’isola per diventare Mistico e ricevere la protezione della dea per le sue navi minacciate dalle scorribande della Rossa Signora; era stata costretta, così, a soddisfare tutte le sue richieste nell’attesa di venire chiamato per il rituale che non era riuscito a completare per la paura del sangue. Furibondo voleva rifarsela su di lei, ma Arianna si era salvata sottoponendosi alla cerimonia.
Nel santuario di Samotracia tutti potevano essere iniziati ai misteri della dea, senza nessuna distinzione, perfino le schiave.
«Se hai partecipato alla mia ascensione all’Eptoteia, sai cosa sono diventata, mi dispiace che tu l’abbia dovuto venire a sapere in questo modo,» le confessò.
«Invece no, cara Anadya, è stato il modo più bello, anche se non il più facile: per liberarti dei tuoi crimini hai dovuto soffrire molto..»
«Sì ma sarò costretta a compierne altri finché non avrò ritrovato anche Mineo e Alceno..»
«Non devi dire così, con le mie preghiere, i miei sacrifici e i miei servizi oltre alla protezione della Grande Madre per mio marito e mio figlio chiederò anche che vegli sulle tue scelte.»
«Tu verrai con me, invece, ho fatto un accordo con lo Ierofante, sei una persona libera, ora. Con te riuscirò a ritrovare Mineo e Alceno, dovesse essere l’ultima cosa che faccio, a qualunque costo, con qualunque mezzo,» rispose la Rossa Signora. Fu così che all’alba lasciarono il tempio dirette alla baia dove le aspettava la barca che le avrebbe portate alla nave ancorata al largo.
Non fecero molta strada che vennero circondate da una dozzina di uomini armati e incappucciati.
«Maledetta tagliagole, pagherai per i tuoi crimini!» minacciò il più basso.
«Non fateci del male non abbiamo preziosi con noi,» pregò Arianna stringendosi all’amica.
«Non sono criminali, sono gli ambasciatori delle città che erano al tempio, nostri confratelli,» rivelò Anadya con un sorriso.
«Davvero? Non è possibile!» commentò sgomenta la moglie di Mineo.
«Certo che è così, non possiamo permettere alla Rossa Signora di filarsela da qui per continuare a rubare e uccidere: sorella o non sorella, mondata dai misfatti o non mondata, non importa, la tua carriera criminale finisce oggi,» ribatté uno degli assalitori, quello tarchiato.
«Immaginavo che avreste fatto una cosa del genere, aspettandomi fuori dal santuario per catturarmi e prendervi il merito.»
«Esatto, proprio così,» confermò uno dalla voce roca avanzando minaccioso verso le due; una freccia lo raggiunse alla gamba.
Mentre l’uomo cadeva a terra contorcendosi dal dolore, Ra uscì dal bosco, seguito da una cinquantina di guerrieri Sciti con gli archi puntati verso gli assalitori.
Arianna guardò Anadya basita.
«Come pensi che abbia convinto i miei uomini a non saccheggiare il santuario? Offrendo loro un’alternativa migliore. Perché rapinare il tempio e rischiare la vendetta della dea quando si possono far soldi punendo chi, tradendo il vincolo di fratellanza che ci unisce, voleva farmi del male? Per riavere indietro i loro ambasciatori i loro paesi dovranno scucire un bel po’ d’oro,» spiegò la Rossa Signora avvicinandosi al ferito che tentava di rialzarsi e ricacciandolo a terra con il tacco del suo stivaletto.
La dozzina di ostaggi che aveva preso a Samotracia fruttarono un sacco d’oro. Le città coinvolte, però, glie l’avevano giurata e avevano organizzato una caccia così serrata che Anadya aveva dovuto dar fondo a tutte le risorse sue e della sua Afrodite rapida e resistente. Solo grazie a essa era riuscita a vincere in velocità tutte le navi inseguitrici, superare le tempeste che aveva mandato a picco quelle nemiche, altre le aveva affondate grazie alla sua agibilità di manovra dovuta alle due vele e ai tre vogatori per remo, che consentiva all’imbarcazione di mantenere un’andatura in battaglia sostenuta che la rendeva letale con il suo rostro. Quella lotta per la sopravvivenza però aveva impedito alla Rossa Signora e ai suoi pirati di portare a termine altri colpi. La situazione a bordo si stava facendo pesante fino al momento in cui non s’imbatterono in un convoglio di tre navi.
Due di queste si girarono per affrontare il pericolo. L’Afrodite, però, irruppe tra di loro affondandone una e danneggiando seriamente l’altra per poi continuare la sua corsa.
La terza aveva preso un po’ di vantaggio, ma in poco tempo lo perse. Sul ponte nemico, però, i soldati già stretti in un muro invalicabile, erano pronti a difendere il carico. Fu lei a dare il segnale della prima scarica di frecce che sortì poco effetto. Ben presto il pezzo di mare che separava i due legni fu solcato da dardi che andavano in entrambe le direzioni.
Quando furono abbastanza vicini la Rossa Signora guidò l’arrembaggio urlando il suo grido di guerra «Per l’oro e per il sangue!»
Le guardie combatterono con valore, ma i loro grandi scudi e le loro lunghe lance in quello spazio piccolo furono più un problema che altro. I pirati li colpivano con le loro asce da guerra scivolando tra loro e approfittando della loro lentezza. Tra loro la più letale era proprio Anadya che apriva una via di sangue e di morte intorno a sé mulinando la sua Dorylabride (un’arma di sua invenzione, antenata dell’alabarda, formata da una lancia appuntita nella quale era inserita una scure bipenne). Tuttavia i soldati non si arresero come le altre volte e riuscire a raggiungere la scaletta che portava sotto coperta fu un’impresa.
Gli scontri continuarono finché anche un solo difensore restò in piedi.
I suoi uomini erano tutti eccitati, quella nave doveva nascondere grandi tesori per spingere l’equipaggio a sacrificarsi in quel modo. Quando scesero sottocoperta tutto quello che trovarono furono dei sacerdoti tremanti accanto a un prezioso braciere. Ne furono delusi: si aspettavano oro e donne, non dei religiosi. Anadya, invece, no, lei sapeva su cosa aveva messo le mani: quello era il fuoco che da Delo veniva portato a Lemno per riaccendere i lumi della città dopo nove giorni di buio in occasione della festa annuale che ricordava l’arrivo degli Argonauti.
Un’ora dopo, nella sua cabina sull’Afrodite, Anadya era curata da Arianna che non mancava di far presente all’amica la propria contrarietà.
«Non va bene, Anadya, quello è un oggetto sacro. Se ti tiri contro il malvolere degli dei non riuscirai mai a trovare mio marito e mio figlio.»
«A Lemno c’è Mineo, se vogliamo ritrovarlo abbiamo bisogno di forzare la mano al re Euneo,» rispose con un sospiro rassegnato.
«Non è vero, non burlarti di me, sarò anche una semplice campagnola ma so quando mi stai raccontando una balla. Hai bisogno di saccheggiare Lemno per soddisfare i tuoi uomini,» protestò lei.
«Arianna, è stato con il loro aiuto che ti ho salvato e sarà grazie a loro che riusciremo a liberare Mineo e Alceno.»
«A costo di perdere la via della Dea seguendo questi criminali?» le domandò preoccupata.
«A qualsiasi costo, a tuo marito e a tuo figlio devo la vita e a tutti voi devo i giorni più felici della mia esistenza, non c’è niente che non farei per salvarli.»
«Anadya, io sono contenta che tu sia stata felice con noi, ma non puoi sapere se non lo sei stata anche prima di essere catturata dai Greci.»
«Amica mia, ormai solo tu continui a sostenere che io sia stata una povera principessa indifesa, catturata dai Greci. È chiaro che ho sempre saputo combattere, forse sono sempre stata un’assassina o un bandito. Mi sono convinta che gli Achei mi abbiano catturata durante una delle mie incursioni nel loro campo mentre tentavo di rubare i loro tesori e le loro provviste. Ecco perché mi volevano uccidere. Ecco perché sono brava a uccidere,» dichiarò con amarezza, poggiando una mano sulla spalla di Arianna.
«Ti sbagli, era Mineo che lo pensava. Io l’ho sempre saputo che non potevi essere una nobile: nessuna donna viziata sarebbe potuta sopravvivere a quello che hai passato.»
Anadya sospirò «Pirata o meno, questa volta non ci sarà bisogno di saccheggiare la città, saranno i cittadini di Lemno a portarci i loro tesori per riavere il fuoco di Delo.»
«Vuoi scherzare, hai intenzione di usare un oggetto sacro per ricattare la città? » domandò Arianna allibita.
«Preferisci combattimenti, morti, saccheggi, violenze e così via dicendo?»
«No, certo che no, ma…»
«Allora devi avere fiducia in me,» tagliò corto.
Fu così che Anadya, di nuovo nei panni della Rossa Signora dei Mari, trattò lo scambio con Euneo.
L’incontro avvenne a largo della piccola isola rocciosa di Akradora, chiamata così per la sua forma a punta di lancia, a sud ovest di Lemno. La pirata aspettava sotto coperta vicina al braciere con impazienza. Tutto dipendeva dal suo tempismo. Ancora si domandava se avesse fatto bene a fidarsi, ma in realtà non aveva avuto grande scelta. Quel gioco che aveva cominciato, quella scommessa che aveva fatto era del tipo: o tutto o niente.
Insospettita da un rumore sinistro salì sul ponte dove venne accerchiata da uno stuolo di guardie reali. La barca era stata circondata.
«Due trofei in un colpo solo: il fuoco di Delo e uno dei pirati più ricercati, la Rossa Signora dei mari, capisci perché non ho potuto mantenere la parola e venire qua da solo! Meno male che invece tu l’hai fatto!» dichiarò il monarca apostrofando la donna «e non sperare nell’intervento della tua Afrodite, la mia flotta l’ha fatta colare a picco,» aggiunse con un soddisfazione scendendo di sotto per riprendersi il tesoro sacro.
Nel frattempo i suoi soldati si avvicinarono guardinghi temendo una trappola. Avanzavano con la spada in pugno e lo scudo davanti a sé per proteggersi da un eventuale attacco: l’abilità della fuorilegge con le armi era tristemente famosa, dovevano essere cauti. Vennero distratti solamente dalle grida dei loro commilitoni che provenivano da sottocoperta: nella semioscurità i Lemniadi non avevano visto il filo, urtandolo. Questo aveva tirato giù il braciere.
Le fiamme avevano viaggiato spedite grazie ai liquidi che erano stati spalmati per tutta la nave incendiandola; Anadya ne approfittò per sfuggire alle guardie buttandosi in acqua. Le altre imbarcazioni cercarono di allontanarsi prima di trasformarsi in torce e gli equipaggi non fecero caso che alla guida della flotta che stava puntando su di loro c’era l’Afrodite. Quando se ne accorsero era tropo tardi. Fu la stessa Anadya, raccolta dai suoi uomini, a porgere la mano a Euneo che non aveva potuto fare altro che trovare scampo in mare ma che ora, però, stava per affogare tra i flutti.
«Ha bisogno di aiuto, sire?» domandò con un sorriso.
Il sovrano di Lemno era salvo, ma in balia dei pirati.
«È vero che sono una donna, Euneo, ma sono anche la Rossa Signora. Pensavi davvero di potermi giocare con un trucchetto simile? Sapevo che non avresti rinunciato a recuperare di persona il fuoco sacro per riportarlo, con me in catene, a Lemno. Per questo mi ero accordata con altri pirati sciti affinché coprissero le spalle alla mia Afrodite. La tua scorta non esiste più e io sono molto contrariata, non mi piacciono le persone che non mantengono la propria parola. Sono talmente furiosa che potrei decidere di ucciderti, invece che prenderti come ostaggio,» lo minacciò.
«In questo caso non sapresti più dov’è il ragazzino che tu cerchi, quell’Alceno che mi avevi chiesto di consegnarti insieme a Mineo. Come ho già detto ai tuoi messi, io non ce l’ho, ma so dov’è, ero lì quando è stato comprato.»
«Bene, allora, parla se vuoi salva la vita.»
«Alceno è stata acquistato da un emissario del re di Crotone!» riferì.
«Crotone? E dov’è Crotone?»
«Crotone è nella Magna Grecia, una grande terra a ovest di Itaca. Io posso forniti una persona in grado di guidarti là senza farti andare fuori rotta. Se non stai attenta potresti finire nel paese dei Lestrigoni o in bocca a Scilla e Cariddi.»
«Mi sembra il minimo dopo lo scherzo che mi hai combinato,» rispose Anadya «ma non credere comunque di cavartela così a buon mercato; ora, oltre alla restituzione di Mineo, la quantità di oro che devi versarmi è triplicata. Sai, con i nuovi alleati che ho dovuto chiamare, siamo molti di più a spartirci il malloppo,» aggiunse.
La liberazione di Mineo fu molto toccante. Arianna abbracciò il marito e lo baciò a lungo; le loro effusioni furono interrotte da Anadya, che svenne davanti a loro.
«Anadya, stai bene?» domandò preoccupato l’uomo quando questa riprese i sensi.
Arianna fu meno comprensiva:
«Sciagurata che non sei altro, che cosa intendi fare con il bambino?» l’interrogò aspramente.
«Quello che ho fatto con tuo marito. Ora che so dov’è, intendo liberarlo.»
La donna sbatté le palpebre confusa, poi il suo volto si rischiarò:
«Mi stavo riferendo al tuo, sciocchina!» si avvicinò.
«Arianna, devi essere ancora turbata dall’emozione di aver riabbracciato tuo marito.»
«Questo sarà anche vero, ma non cambia il fatto che tu aspetti un figlio!» spiegò mettendole una mano sulla pancia.
Anadya guardò il suo ventre poi la sua amica.
«Sarò anche smemorata, ma sono grande abbastanza per sapere come si fanno i bambini…»
«Non devi negare quello che ti ha fatto quel Lapaxais, ormai non può farti più alcun male, lo hai ucciso: prima lo accetti, prima lo supererai!» si raccomandò Arianna.
«Ma lui non mi ha fatto niente,» obiettò Anadya.
«Hai dimenticato pure quel momento, come tutti quelli che ti hanno procurato dolore,» insistette l’amica.
«No, no, quello me lo ricordo benissimo, e ti posso giurare che lui non può avermi messa incinta.»
Arianna la scrutò ancora per un attimo dubbiosa.
«Forse l’Egiziano allora!»
«Ra?- Anadya si mise a ridere – a Ra non interesso.»
«Non gli interessi? Ma oltre che smemorata sei diventata anche cieca? Non hai visto come ti guarda, per poco non bacia il terreno dove cammini,» le rivelò Arianna.
«Ora non esagerare!»
«Non sei stata forse tu a raccontarmi che è stato proprio lui il primo a riconoscerti come capitana inginocchiandosi e chiamandoti Rossa Signora, epiteto di Sekhmet, dea della guerra della sua terra.»
«Sì, ma si chiama rispetto, non amore,» puntualizzò.
«Certo, come no…» rispose Arianna con un sorriso di scherno.
«Comunque sia, né con lui né con nessun altro della ciurma ho fatto sess…» Anadya improvvisamente s’interruppe guardando Mineo rossa di vergogna.
«No, io non ho fatto niente!» si difese questo mettendo le mani avanti.
«No, non mi riferivo a te, Mineo, mi stavo chiedendo se il mio bambino fosse stato concepito prima. Non a caso sono stata ritrovata nuda.»
«È possibile!» concordò il suo salvatore.
«Non credo proprio, ti abbiamo tirato fuori dal tartaro per la punta dei capelli! Il bambino non sarebbe sopravvissuto,» obiettò Arianna.
«Chiunque sia il padre, ci penseremo dopo, ora dobbiamo liberare Alceno,» annunciò la Rossa Signora cercando di alzarsi.
«Niente affatto, ora dobbiamo pensare al bambino che sta crescendo dentro di te!» la rimise giù Arianna.
«Ma tuo figlio?»
«Quando saremo arrivati a Crotone tu avrai già la pancia e con l’avvicinarsi del tempo, sarai sempre più ingombrante e più goffa, non potrai combattere al meglio. Se muori, non solo io e mio marito non potremo riabbracciare nostro figlio, ma i tuoi uomini ci faranno di nuovo schiavi! Per questo faremo rotta su Samotracia dove sarai accudita dalle nostre sorelle e dai nostri fratelli.»
Anadya cercò di opporsi, ma non ci fu modo. Con Ra dalla loro parte venne portata al santuario. I suoi confratelli le fecero una gran festa al suo arrivo, un nuovo nato era una benedizione della Madre e le sue consorelle la trattarono come una di famiglia. Arianna fu, però, insostituibile, le restò accanto per tutti i mesi della gravidanza e fu la sua mano che strinse con forza al momento del travaglio. Non fu difficile, anche se doloroso: Anadya era una donna forte e nemmeno un mese dopo la nascita del figlio, che aveva chiamato Caistro, stava già navigando con la sua Afrodite e con i suoi cari per riprendere Alceno. Arrivati in vista delle coste della Magna Grecia furono colti da un’improvvisa violenta tempesta che rischiò di travolgerli e, molto probabilmente, se fossero stati a bordo di una nave più piccola non avrebbero avuto scampo. Invece l’Afrodite li tenne al sicuro dalle onde, ma andò fuori rotta attraccando tra le foci di due fiumi. Erano salvi, ma non sapevano dove. Per questo, tranne quelli che erano andati in perlustrazione, ora erano intorno all’altare allestito per l’occasione per ringraziare la Grande Madre con i sacrifici.
«Dovevi lasciarlo a Samotracia, sarebbe stato al sicuro lì. Invece te lo sei portata, da incosciente, a fare una vita non adatta per un bambino così piccolo,» la rimproverò Arianna mentre guardava intenerita l’infante succhiare avidamente dal seno della madre.
«Non potevo lasciare il mio Caistro dai quei sacerdoti.»
«Sono tuoi confratelli.»
«Come quelli che all’uscita del santuario volevano catturarmi. Non sono nulla per lui…»
«Ma di qualcuno il tuo bambino deve pur essere, a meno che non pensi di essere come la potente Era che per fare dispetto a Zeus partorì da sola Efesto.»
«Ormai è certo che sono rimasta incinta durante la mia prigionia nel campo greco. Molto probabilmente questo bambino sarà del primo soldataccio che mi ha messo le mani addosso, non certo di qualche principe….»
«Doveva essere un soldataccio molto capace con le armi, Ra mi ha detto che ha visto pochi guerrieri, anche maschi, battersi con la tua maestria,» intervenne Mineo.
«Ra è innamorato di me, la sua opinione non è molto obiettiva, non è quello che mi avete sempre detto?» ribatté Anadya, ritorcendo contro la coppia una teoria a loro cara.
«Lo so che tu vorresti essere con lui e i tuoi brutti ceffi a perlustrare la zona e a procurarci la cena,» la schernì Arianna.
«Infatti è quello che dovrei fare, loro non conoscono questa terra.»
«Nemmeno tu, ma Ra, a differenza di te, non può allattare tuo figlio, mentre tu sì,» puntualizzò indicando il petto nudo della rossa.
Anadya sbuffò.
«Come darti torto? Vuoi sempre avere ragione come nel caso della costruzione del tempio ad Afrodite Axiara, secondo me è solo una perdita di tempo.»
«Come puoi dire una scemenza del genere? Non troveremo mai Alceno se ci inimicheremo la Grande Madre, lo so io che sono una Mistica e non lo sai tu che hai l’anello di ferro delle Epoptee?» le ricordò.
Stava per risponderle quando una voce decisa, femminile e familiare intimò, «Ridatemi Kaulon, maledetti vigliacchi!»
Anadya affidò il neonato ad Arianna e si girò per affrontare la minaccia, erano circondati da un intero esercito. Comunque sia era pronta a tutto, doveva difendere suo figlio, ma si bloccò davanti alla donna che aveva parlato, una guerriera muscolosa dai capelli grigi tagliati corti, a caschetto, e con il volto solcato da una cicatrice lungo il lato sinistro che ne deturpava i tratti regolari: seppe per istinto che era un’amazzone, l’aveva già vista, anzi la conosceva.
«Non è possibile, per la Grande Madre, sei tu!» esclamò sbigottita quest’ultima, a bocca aperta e si lanciò verso di lei.
Anadya sentendosi minacciata tentò di reagire, ma il suo corpo non rispose.
L’amazzone la strinse in un abbraccio.
«Pentesilea, sei viva, non è possibile, ti credevo morta!»
«Pentesilea?» ripeté confusa.
«Sì, o Pentesilea, regina delle Amazzoni; io sono Cleta, la tua nutrice. Non mi riconosci?»
«No, ho perso la memoria.»
«Caricammo insieme con le nostre Sorelle i Greci respingendoli fino alle navi. Poi tu affrontasti in uno scontro epico Achille. Riuscisti anche a ferirlo, ma lui ti colpì sotto il seno. Agonizzante ti trascinarono per il campo dietro il carro di Diomede fino allo Scamandro dove ti gettarono più morta che viva,» rivelò la guerriera.
Anadya si toccò la cicatrice sul petto e rammentò tutto: « Ho ucciso io mia sorella Ippolita, con la quale ero in disaccordo perché lei era contraria all’alleanza con Priamo, ma è stato un incidente di caccia. Antianara non mi ha creduto e mi ha cacciata. Con le miei fedelissime siamo andate a Troia a combattere per gli assediati. Lì sono stata ferita gravemente per mano di Achille che mi ha spogliato delle mie armi, scoprendo che ero una donna e…oh per la Grande Madre, è stato lui a violentarmi, Caistro è suo, figlio di uno stupro.»
Piangendo ricambiò l’abbraccio della sua nutrice raccontando ad alta voce quella storia, non a Cleta che la sapeva già, ma a se stessa.
«Sì, ma Achille non ti violentò per vendetta, sperava che quell’atto brutale bastasse per appagare la furia dei suoi compagni che volevano fartela pagare per tutti i Greci e gli eroi che avevi ucciso. lnfatti fece di tutto per impedire che Diomede ti uccidesse, ottenendo solo che ti buttasse nel fiume e non in pasto ai cani,» continuò questa
«Che bontà d’animo!» ironizzò Pentesilea, prima di domandare, «E tu come ci sei arrivata fin qui?»
«Io sono una delle poche Amazzoni a essere stata catturata viva. Venni venduta come schiava, risparmiata proprio da Achille. Quando arrivai al mercato conobbi un ragazzino: era muto ma nei suoi occhi aveva la stessa luce che avevi tu da piccola e decisi che l’avrei difeso. Non avevo potuto farlo con te, ma giurai che avrei protetto almeno lui. Così quando l’ambasciatore di Crotone mi comprò per farne il trofeo di una battaglia che non aveva mai né vinto né combattuto, disarmai una guardia e minacciai di uccidermi se anche quel fanciullo non fosse venuto con me. Così insieme a Kaulon (così l’ho chiamato, visto che non sapevo il suo nome) partimmo alla volta di questa terra, ma la nave naufragò e io ne approfittai per ribellarmi insieme agli altri schiavi e mi diedi alla macchia.»
«Allora, come mai Kaulon lo cercavi da me?»
«Perché Il re di Crotone fin dalla mia fuga ha cercato di riprendermi, ma io ho sempre sconfitto i suoi eserciti che ha mandato contro di me arroccandomi a Cleto, la fortezza da me costruita sulle montagne. Tutto è cambiato con l’arrivo dell’acheo Tifone, di ritorno da Troia. Insieme hanno distrutto la mia roccaforte e preso prigioniero Kaulon. Da quel giorno sto inseguendo quel maledetto Greco. Ho attaccato la tua nave pensando che fosse la sua. Ma tu come hai fatto a salvarti?»
Anche Pentesilea le raccontò tutta la sua storia.
«Quindi tu pensi che Kaulon sia in realtà Alceno,» concluse Cleta una volta che la sua figlioccia ebbe terminato.
«Così mi ha detto il re di Lemno.»
«Intanto, che sia Kaulon o Alceno, la priorità è liberarlo.»
L’inseguimento durò per settimane attraverso colline e monti coperti di lecci, abeti, pini e castagni e lungo le spiagge, tra gli agrumeti e la sabbia fine sollevata dai venti salmastri, guadando le fiumare che caratterizzavano quelle terre, ma non si risolse come Pentesilea avrebbe voluto. Raggiunti dai Crotonesi si ritrovarono intrappolati tra loro e i Greci. Riuscirono tuttavia a sfuggire al tentativo di accerchiamento, ma i cacciatori erano diventate le prede.
Finì in una gola dove le truppe di Pentesilea e Cleta aspettarono i loro nemici. Essa formando un imbuto tra due monti consentiva a un piccolo numero di uomini di tenere a bada un esercito molto più numeroso. A decine caddero i loro avversari: la prima li abbatteva facendo roteare la sua Dorylabride, la seconda mulinando la sua spada, il fedele Ra facendo danzare le sue lame mentre gli Sciti che erano venuti con loro avevano negli archi e nelle taglienti scuri le loro armi migliori. Tutti gli altri, schiavi liberati, potevano contare solo sulla loro ferrea determinazione a non essere più proprietà di nessuno.
Tuttavia i soldati di Crotone erano più esperti e meglio equipaggiati. A lungo andare questo vantaggio iniziò a pesare; gli uomini della Rossa Signora e i suoi alleati servili cominciarono a perdere terreno. L’arrivo improvviso degli Achei di Tifone che li attaccarono alle spalle fu il colpo di grazia: erano stati portati fin là da un pastore del luogo che conosceva delle scorciatoie poco battute. Così i Greci avevano aggirato le armate delle due Amazzoni.
Pentesilea in un momento di pausa tra un duello e l’altro, nel suo corpetto di cuoio e nei suoi pantaloni attillati di pelle entrambi rigorosamente rossi, si rivolse ansante a Cleta che stava accanto a lei.
«Dannazione siamo circondati, se non ce la dovessi fare volevo solo dirti che è stato un onore combattere un ultima volta al tuo fianco cara maestra.»
«È ed è sempre stato mio: sia il piacere di insegnare alla futura regina delle Amazzoni sia l’onore di battermi insieme a una grande guerriera. In più, ora che so che sei diventata la Rossa Signora dei mari, sono ancora più orgogliosa di essere stata la tua maestra,» rispose la donna dai capelli grigi nella sua corazza muscolata e nel gonnellino che metteva in mostra le sue atletiche gambe.
« E allora moriamo in un‘ultima, grandiosa carica insieme, come facemmo al campo greco quando riuscimmo a far tremare anche il leggendario Achille,» l’esortò gettandosi contro la calca dei miliziani. In quell’istante il mondo stesso sembrò franare: dalle alture circostanti, infatti, piovvero a valle una valanga di grossi tronchi e pesanti massi. La folla dei Crotonesi fu presa in pieno: racchiusi tra il fiume e le montagne si ostacolarono, calpestarono e uccisero a vicenda nel tentativo di salvarsi. Come spesso succede durante questi eventi, i morti causati dalla paura furono molti di più di quelli attribuibili alla natura.
Le due amazzoni non si fecero scappare l’occasione e, una volta terminata la caduta di pietre e alberi, si gettarono contro i superstiti senza dar loro il tempo di riorganizzarsi. Il piano aveva funzionato, gli schiavi incapaci di usare le armi avevano spinto una valanga di tronchi e massi giù per una montagna, con la forza bruta. La battaglia si trasformò prima in una mattanza e poi in una battuta di caccia contro i fuggitivi.
Purtroppo il greco Tifone era riuscito a squagliarsela portando con sé Alceno. Lo braccarono fino alla nave. Era chiaro che voleva usare l’Afrodite per prendere il largo, invece lì sarebbe finita la sua corsa. Le guardie che Pentesilea aveva lasciato lo avrebbero catturato.
Lei e Cleta, seguite da Ra, salirono quindi di slancio sul ponte. Tifone le aspettava lì, era riuscito a sorprendere le sentinelle e a impadronirsi dell’imbarcazione; teneva ancora Alceno che minacciava con una spada.
Anadya si spaventò: sottocoperta aveva lasciato Arianna con il piccolo Caistro, erano ancora vivi?
«Se non mi lasciate lo uccider… » Tifone non riuscì nemmeno a finire la frase, l’ultima parola affogò nel suo sangue, una lama gli era spuntata dalla gola.
Dei ricci biondi apparvero dietro di lui: Arianna.
«Credevi che fossi solo una contadinotta?… Lo sono, ma aver avuto come “sorella” una regina delle Amazzoni mi ha insegnato qualche trucchetto,» gli ringhiò rigirando l’arma nel corpo dell’uomo.
Quando Tifone cadde a terra morto, il ragazzino si girò per abbracciare la donna. Si ritirò poco dopo guardandosi le mani, spaventato: erano sporche di sangue, la madre era stata colpita.
«Non ti preoccupare amore mio, tuo padre e Anadya si occuperanno di te, » lo accarezzò un’ultima volta prima di cadere a terra senza vita.
«Mamma!» si gettò su di lei piangendo Alceno: aveva ritrovato la voce, ma perso la madre.
Le ceneri di Arianna furono sparse nel tempio che aveva voluto fosse costruito sulla spiaggia, dedicato ad Afrodite Axiera. Tutti avevano posto un oggetto sulla pira che l’aveva bruciata. Pentesilea aveva sacrificato il suo anello di ferro proclamando che il rango di Epoptea se lo era sempre meritato lei.
Intorno a quel santuario col tempo sorse una città voluta da Cleta, di nome Kaulonia. Lì vissero Alceno, Caistro e Mineo, ma non Pentesilea. Lei partì poco dopo.
«Abbiamo vinto insieme; per questo, cara “figlia”, ti chiedo di rimanere con me, accanto a Mineo, ad Alceno e a tuo figlio. Potremmo fare molte cose noi due,» propose Cleta abbracciandola.
«Cleta sarai sempre nel mio cuore e non solo perché a te devo tutto quello che so, ma perché sei stata per me come una seconda madre, però il mio regno non è tra queste montagne, ma sulle acque. Specialmente ora che, come ci hanno detto i soldati di Tifone, Troia è caduta. In questo momento tutti gli eroi Greci, maledetti dagli dei per i sacrilegi commessi durante il saccheggio della città, sono costretti a vagabondare per il mare. Pagheranno per quello che mi hanno fatto e sarà proprio l’Afrodite, la nave reale troiana, il mio strumento. Come tutti gli altri, anche loro tremeranno di fronte alla Rossa Signora dei mari.»
«Tu sarai sempre la mia Pentesilea, il mio orgoglio più grande!» salutò con una carezza e una lacrima la veterana amazzone.
«Quello sempre, che io sia la regina delle Amazzoni, del mare o di qualunque altro regno perduto,» rispose l’altra prendendo la sua mano.
Anche i saluti con Mineo furono molto emozionanti: i due si abbracciarono a lungo e a lui affidò Caistro. Né si dimenticò di Alceno al quale chiese di aiutare Cleta e suo padre. Infine volle stringere a sé ancora una volta il suo piccolo prima di partire promettendo a tutti che ogni anno sarebbe tornata a trascorrere con loro la stagione avversa alla navigazione, quando non si può solcare il mare perché troppo pericoloso.
Non molto tempo dopo l’Amazzone stava a poppa della nave dove ancora salutava i suo cari: la sua maestra, il suo amico e i suoi bambini. Le piangeva il cuore ad abbandonare suo figlio, ma sapeva che non sarebbe potuta essere una buona madre se non avesse chiuso i conti con il passato: suo padre Achille era morto, ma c’erano altri Greci destinati a subire la sua vendetta. Era la scelta giusta, non era più Pentesilea, morta a Troia, e non era nemmeno Anadya, catturata dagli Sciti, ora era la Rossa Signora dei mari.
«Ho sistemato di persona la sciarpa rossa di Arianna sul Pennone della nave, sarà la nostra bandiera come tu desideravi,» la distolse dai suoi pensieri Ra.
Si girò a guardarlo, pensierosa, prima di realizzare: non era più nemmeno solo la feroce pirata, in lei c’erano anche Pentesilea e Anadya, era tutte e tre le donne insieme, era una persona nuova.
«Bene mio caro amico, ora c’è un’ultima cosa in cui mi devi aiutare per onorare il ricordo della mia amica e sorella Arianna,» gli disse infine.
«Qualunque cosa Rossa Signora, sarei pronto ad attraversare anche il Duat, il Tartaro egiziano, per te!»
Pentesilea gli sorrise in modo strano «No, non c’è bisogno di andare così lontano per raggiungere il mio talamo.» affermò facendogli strada.
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