I racconti di Satrampa Zeiros – “Sia quel che deve essere” di Domenico Mortellaro

Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare Domenico Mortellaro, autore emergente e vincitore della IV Edizione del Concorso Thoth-Amon, che ci propone “Sia quel che deve essere”, racconto di fantasia eroica mediterranea ambientato nella Puglia (nel periodo precedente alla conquista romana) di circa 24.000 battute.

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Autore

Domenico Mortellaro, classe 1979, è un criminologo e sociologo del crimine e della devianza. Nella vita scrive, scrive, scrive. All’attivo, pubblicazioni accademiche sui temi dell’omicidio seriale e su quelle dei sistemi criminali. Collabora con settimanali e quotidiani, nazionali e locali. Gestisce ed anima un blog di approfondimento sui temi della Camorra barese. In corso di edizione, per i tipi della Radici Future, il volume storico “Bari Cal.9 – Storia della Camorra barese”. Accanto alla passione per la criminologia, quella per la letteratura e le culture dell’inquietudine. Ha un thriller in corso di edizione per una CE di cui – per scaramanzia – in pubblico non farebbe nome nemmeno sotto tortura. Ha pubblicato numerosi racconti, alcuni ospitati in antologie nazionali con lo pseudonimo di Aleks Kuntz e alcuni e-book autoprodotti col suo nome. Ha partecipato con tre racconti all’antologia “Thanatolia”. Innamorato della sua terra, lavora da tempo a racconti che sposino i dogmi del fantasy ai grandi misteri attorno alle popolazioni pugliesi di epoca preromana – Peuceti su tutti. Stregato come tutti i sociologi dalla lettura del presente e dalla scommessa sui futuri possibili, si occupa anche di fantascienza sociale e di distopie – non solo dal punto di vista squisitamente romanzesco. 


Sia quel che deve essere

 Domenico Mortellaro

 

 

Un colpo secco.

Dritto, dietro la  schiena.

In basso, nelle reni, a spezzare il respiro.

Sussulto. Apro gli occhi nella tenebra della notte. Nelle narici, l’odore acre del pagliericcio. In bocca il resto di una spiga e qualche pelo di volpe caduto dal vello.

Resto immobile, tengo il fiato.

Lo spavento del soprassalto mi morde i nervi, il colpo basso mi taglia il respiro.

Nel buio della stanza, un rifiatare rauco, da qualche parte sopra la mia testa.

Oltre, perso nel nero denso e senza luce, il suono leggero, quasi soffocato, di una litania che non riesco a capire.

Mia madre: riconosco la voce. È sveglia; prega.

Marso, mio padre, in piedi dietro di me, mi stampa a casaccio una seconda pedata; non si è accorto che sono già sveglio.

Serro i denti, poggio i palmi e mi faccio forza.

Gli occhi si abituano all’oscurità.

La sagoma enorme di quell’uomo comincia a definirsi, contro il chiarore timido che passa dalla porta. Sono notti di falce, in cielo; una lama appena accennata. Una luna che non vale a far luce nelle tenebre.

– Muoviti, piglia il sacco, il ferro e il bastone.

Il silenzio, fuori, non aiuta a capire, non sussurra indizi. La mano di Marso se ne frega delle domande che non ho il tempo di dire. Mi acchiappa dal braccio, precisa, decisa, salda.

Ha occhi abituati alle tenebre, mio padre. Mi scuote forte fino a incollarmi l’orecchio alle sue labbra.

– Ancora dormi?! Piglia tutto! E metti i calzari che si va lontano…

Nemmeno ha finito di ringhiare che mi spinge via, verso l’angolo della stanza dove teniamo i fagotti e le lame. Il rombo della voce mi tuona ancora nelle ossa; meglio fare presto.

Mentre stringo gli ultimi giri di cuoio attorno al polpaccio, lo vedo sfilarsi oltre la tenda senza nemmeno degnare mia madre di uno sguardo. Non che sia una novità, per mio padre, trattarla anche tra queste mura come una bestia. Ultimamente, però, ha smesso anche di abbaiarle contro. Quelle che mi ha digrignato prima sono le prime parole che gli sento dire da quando sono arrivate le nevi. Come se la voce gli si fosse ghiacciata e adesso, col nuovo tepore, fosse tornata a sciogliersi.

Prima di buttarmi fuori da casa, cerco la sagoma di mia madre, nel buio. Provo a chiamarla appena, con un filo di voce.

– Muoviti, va! Sennò torna e ti spacca la schiena, lo sai.

I campanacci delle bestie, più vicini, cominciano a suggerirmi qualcosa.

Di biada ne abbiamo ancora, ma deve aver deciso che è di nuovo tempo di pascolarle le vacche, evidentemente. Vederlo trafficare col recinto, per lasciarci chiusi dentro i due tori, è la conferma che volevo.

Quando Marso butta l’ultima occhiata indietro, per vedere se sono pronto, faccio in modo di farmi già trovare col bastone pronto a colpire. Apre sempre lui, la fila; a me lascia condurre da dietro. Così, se qualcosa scappa o rompe la riga, ha sempre qualcuno da incolpare.

Molliamo il paese che il sole dorme ancora.

Senza aver nemmeno chiesto a Murajo di indovinarci il futuro e implorare Cerere di averci a cuore, durante il cammino.

Senza aver nemmeno annunciato a Parise, il signore, quanto staremo via.

Nè chiesto agli altri maschi, attorno al fuoco sacro, se la nostra assenza avrebbe portato pericoli.

Mio padre, Marso, dell’etichetta se n’è sempre infischiato.

Scalpicciamo via in silenzio, quasi di nascosto.

L’unico suono, oltre la ghiaia che scrocchia sotto i calzari, è il muggito che qualche vitello sbuffa via. Tira dritto, mio padre. Non getta nemmeno uno sguardo indietro, per vedere se tutto va come deve. Non alza nemmeno gli occhi per guardarsi intorno, indovinare tra le cime innevate il percorso dove i rigagnoli si stiano già sciogliendo.

È come se la prima neve caduta abbia coperto e ghiacciato tutto quello che gli interessava, lì fuori. È come se ne fosse caduta così tanta da velargli gli occhi e impedirgli di sentire che è di nuovo primavera. Si muove in silenzio, senza fare un fiato. Come se ubbidisse a ordini che nessun altro può sentire.

Al primo crocicchio, Marso, invece di tirare dritto come sempre, si ferma. Mette il bastone, da sinistra, sotto la giogaia della vacca che apre il corteo e blocca le prime giovenche. M’affretto al mezzo della fila, ficcando la testa del margiale tra i garretti delle altre bestie, provando a trattenerle.

Alzo gli occhi, nell’alba che comincia a far luce intorno.

Vedo mio padre inginocchiarsi dove le strade si biforcano. Raccoglie qualche sasso, senza nemmeno star lì a guardare. Li solleva sopra la testa, se li passa tra le mani. Li sfrega e li sbatte tra loro, per farli suonare. Li poggia attorno al ginocchio e resta immobile il tempo di qualche respiro. Prega Ecate per un cammino sereno, senza intoppi. E di colpo mi sono chiare le sue parole sui calzari e sul sacco: non sono i pascoli attorno alle nostre terre, quelli dove vuole portare le vacche. Punta lontano.

Quando si solleva, piglia la via mancina che costeggia la groppa del colle Busso e s’infila oltre, verso le foreste degli Irpini e le gole dei loro monti. E così riesco a spiegarmi anche il ferro, la roncola che mi ha ordinato di portarmi dietro.

Bestemmio a denti stretti: oltre che muto, l’inverno deve averlo pure fatto ammattire. Perché per quanto non ne abbia così tanti di rivali tra tutti i Lucani, nel pestare e fare strage, siamo sempre e solo in due. E pascoliamo due dozzine di vacche che sfamerebbero un villaggio per un’anno intero. Pazzo incosciente!

Del resto, mi dico ripigliando il bastone e liberando il passo alle bestie, se non è mai diventato un capo di guerra è perché gli è sempre difettata la strategia, l’astuzia. Perché spezzare le schiene e spargere le viscere non è la sola cosa che un condottiero debba saper fare. E se Mamerte non l’ha scelto perché fosse un Signore è perché non basta la ferocia in battaglia per comandare le genti. Ci vuole la maniera della politica, ci vuole equilibrio, ci vuole visione: tutte cose che Marso non ha mai conosciuto.

Però, c’è da riconoscerlo: ammazza come il figlio della Guerra, fiuta i pascoli peggio dei lupi e indovina i ruscelli e i rivi meglio di una capra. Per questo ha sempre seduto attorno al fuoco delle adunanze pur avendo un solo figlio.

Torno a scalpicciargli dietro.

Mentre aspetto che il gregge mi sfili davanti per chiudere il corteo, mi chiedo se davvero sia solo stata la neve a fargli ghiacciare il cuore. Se non ci sia un sortilegio o l’ira di Cerere e Mamerte, dietro questo suo cambiamento. Perché sembra quasi che non gli importi più nulla. Nulla di nulla.

*

Nemmeno col sole tiepido e alto in cielo riusciamo a scambiare mezza parola. Marso tira dritto a testa bassa. E se le bestie si attardano, fiutano una pozza o provano a fermarsi per strappare il verde nuovo alla terra, corre rapido col bastone a rimetterle in riga. Le spinge avanti.

– Hanno sete, padre. Camminiamo dalla notte…

Si volta.

Sul viso nemmeno una ruga.

Bastano gli occhi con cui mi fulmina a convincermi che non è il caso di aprire bocca. In quello sguardo c’è la furia che conosco, ma è come se tutto il resto, il suo corpo, pezzi interi del suo cuore, la sua testa, non fossero più con lui.

– Alla prossima che scarta, ti lascio morto ai corvi…

Anche la voce, adesso, sembra esserglisi congelata.

Camminiamo ancora, un altro breve tratto. Poi, di colpo, senza che nessun segno lo facesse prevedere, si blocca. Sbarra il passo alle vacche e le spinge brusco oltre il sentiero. Si volta verso di me e senza dire una parola punta la testa del legno verso un piano al limitare del bosco, ai piedi del Monte-Che-Dorme.

Non m’azzardo nemmeno a dire mezza parola.

La testa, però, mi ritrovo a scuoterla.

Mi chiedo cosa si sia messo in testa. Tutti i boschi attorno a quella montagna sono terre di caccia degli Irpini. E le genti dei lupi, di questo periodo, sono bestie smagrite dalla fame dell’inverno. Si riversano a frotte nel folto di quelle foreste. Stragi di cervi, stragi di capre. Certe volte, di quello che cacciano, lasciano appena le ossa d’omaggio a Bendì dei boschi.

Quanto ci metteranno a fiutare la cloaca del gregge?

Crede davvero che la fame non affili le orecchie di quelle belve degli Irpini per sentire i campanacci appena avremo poggiato la schiena al primo di quegli alberi?

Spingo le ultime giovenche che s’attardano all’erba del fosso e mi chiedo perché abbia deciso che dobbiamo rischiare così tanto. Cos’è che gli fa desiderare così forte di sfidare la morte, proprio oggi? E perché m’ha trascinato dietro, se ha in testa di farsi ammazzare?

Quando la foresta ci si schiaccia davanti, dietro una delle spalle del monte, mi trovo sotto gli occhi la rinfusa di macigni di un vecchio luogo sacro.

Di quelli più antichi delle genti.

Lasciato lì perché nessuno ha coraggio a muovere uno solo di quei sassi; perché nessuno ha nemmeno il coraggio di scoprire come si chiamino gli dei che abitano quei posti. Tra i massi giganteschi c’è acceso un fuocherello. Chi lo ha acceso e ci si sta scaldando ci da le spalle. E sembra non gli importi nemmeno di vedere chi accompagna quel corteo di campanacci, fino al limitare della foresta.

Marso si ferma, si volta indietro e mi fa cenno di lasciare libere le vacche. Lo guardo varcare il cerchio e buttare di lato, oltre le spalle del viandante, il bastone e la sacca. Non si cura di vedere che strada prendano le bestie, una volta libere. Sembra non gli importi nemmeno di dove sia io, di cosa stia facendo. Si lascia quasi cadere, seduto, di fronte a quel viandante, dall’altra parte del fuoco.

Prima di raggiungerlo, perdo ancora qualche istante a guardare la distesa verde. Scruto i confini del bosco, in cerca di segnali di pericolo. Cerco volute di fumo, nel cielo, per indovinare accampamenti, bivacchi.

Nuvole e azzurro terso; null’altro.

Riconto le bestie: sono tutte. Solo allora mi muovo verso i macigni e il fuoco. Quando anch’io varco le pietre e mi faccio vicino ai due, cercando un posto dove sedere, solo allora il viandante si gira e getta uno sguardo distratto.

Ha il viso scavato, la faccia della fame più feroce, della fame più nera. Ha occhi grigi: tutti e due sono morti. Ha la pelle macchiata dai morsi del tempo, avvizzita da anni di una esistenza raminga a cavallo tra questo cielo, questa terra e tutto quello che non si vede. Come Murajo, il vecchio del villaggio; la voglia di vedere oltre, di sognare gli dei e di maneggiare cose che non sono di questo mondo finisce per consumarti la carne.

Avrà anche occhi morti, ma sembra mi veda perfettamente. Perché non mi stacca il viso di dosso. E segue i miei movimenti senza smettere di tormentarsi i ciuffi lerci di barba che gli scendono come una chioma rada sul petto.

– Tuo figlio, vero Signore delle greggi?

Marso gli risponde dopo aver tirato un bel sorso da un coccio fumante che deve aver accettato da quel vecchio.

– Chi ti sibila all’orecchio ci vede bene. Si chiama Vurro. Vurro di Marso, dei Lucani.

Il viandante annuisce. Poggia i palmi delle mani a terra e sposta il cumulo di ossa gracchianti che nasconde sotto la veste. Si fa vicino al fuoco e libera spazio per farmi posto.

– Siedi qui, Vurro di Marso. Siedi qui…

M’attardo con lo sguardo verso la foresta. Mi scopro con le dita che trafficano sulla cinghia della roncola per slacciarla dalla cintura, mentre la voce gracchiante di quell’anziano torna a rompere il silenzio.

– Non temere: è ancora presto. Gli Irpini ci metteranno ancora qualche giorno ad uscire dalle foreste…

Capisce che le sue parole non devono avermi convinto, perchè rincara.

– Credi che me ne starei qui da solo, se sapessi che quelle bestie possono uscire e razziare da un momento all’altro? Quanto ci metterebbero a sbattermi su quel fuoco da vivo e spartirsi la poca carne che ho addosso?

È troppo vecchio per essere della nostra gente.

I Vecchi delle nostre genti non vanno raminghi, non quando sono così avanti con gli anni. Hanno già girato questo mondo e quell’altro quando fanno ritorno a casa e offrono il sapere ai loro villaggi.

Dauno? Figlio del Sannio? O peggio… Mandriano?

– Fammi compagnia, come tuo padre. Versati la zidera che è rimasta. E siediti tranquillo.

Ecco, appunto: un Mandriano!

Solo quelle bestie randagie possono bere l’acqua bollita con quelle erbe di fosso. Bollente come ferro fuso e aspra come veleno. Guardo Marso, incerto. È la prima volta che mi trovo a bivaccare con un estraneo, per giunta Mandriano. E corre voce che siano belve suscettibili, con tutta una serie di maniere e di superstizioni. A mio padre, però, sembra non interessare molto di quello che io voglia fare. Manda giù ancora un sorso, poi acchiappa la roncola e infila la curva della lama nella brace, oltre le fiamme, per rimestare i carboni.

– Dì, Vecchio… Non hai sentito niente, quando ti sei seduto proprio su quel sasso? Non ci vedi niente?

Il viandante soffia fuori un sorriso. Una vipera che minaccia il morso.

– Ho sentito le grida di un uomo. Grida antiche, grige come i miei capelli.

Marso sbuffa per trattenere una risata. Annuisce. Alza gli occhi e li mette nei miei. No; i suoi non sono occhi che ridono.

– Ci senti ancora bene, Vecchio…

Prima di continuare si limita a spicciarmi in faccia solo un cenno con la fronte. Punta al macigno su cui il viandante ha fatto posto. Vuole che mi sieda? Vuole che beva?

– E dimmi… Adesso? Adesso che ci hai visto?

Il viandante mi porge un coccio. Dentro galleggiano due o tre ciuffi di sambuco e fuma una brodaglia scura.

– Ho visto sangue. Tanto sangue.

Marso non ride più. Mi pianta gli occhi addosso nemmeno fossero chiodi. Non si perde nemmeno uno dei miei movimenti. E quando indugio con il coccio a due dita dalle labbra, arriccia il naso in una smorfia che mi mette paura. Prima che ricominci a parlare, ho già ingollato mezza tazza di quella brodaglia disgustosa.

Fuoco. Un fuoco amaro, disgustoso. Strizzo gli occhi mentre mi metto a sedere, lasciando scivolare la roncola lungo la gamba.

– Che dici, Vecchio? Credi che Vurro, lì, sarebbe capace di fare lo stesso?

Il viandante non parla. Si limita a sollevare le mani, palmi aperti rivolti verso mio padre.

Una neutralità che mi mette in allarme.

Quanto la testa, che comincia piano a farsi pesante.

Quanto le ginocchia, che cominciano a sbattere tra loro senza che nemmeno me ne accorga.

Quanto la voce di Marso, che si fa roca, si fa bassa, che sempre più sembra arrivare da molto più lontano di quel fuoco che ci divide.

– Io no. Io non credo che avrebbe il braccio fermo e il cuore feroce abbastanza per scannare così un uomo. Senza averlo mai conosciuto. Senza avere nessuna ragione. Solo con la scusa di poter dire di averlo fatto.

Il coccio mi sfugge di mano al secondo sorso. La destra prova a poggiarsi. Le dita provano ad aggrapparsi a qualcosa, fosse anche la pezza lercia che copre il Viandante.

Nulla: solo la luce che comincia a scappare, il buio che incombe, le parole di Marso che rimbombano ancora più feroci, ancora più lontane, mentre tutto sfuma via.

– Su quella pietra. Avevo gli stessi giorni che oggi ha mio figlio. Quel Mandriano lo scannai perchè solo così sarei diventato uomo. Solo col sangue di un altro uomo sulle mani. Solo così avrei fatto davvero paura. Vurro no; Vurro non ci sarebbe riuscito. Vurro non sarà mai un guerriero.

C’è qualcosa che mi punge ancora più forte il ventre, come un tizzone inferocito di fiamma. L’ultima frase che scivola di bocca a Marso; l’ultima che sento.

– Non so nemmeno se sarà mai uomo, Vurro…  

*

Precipito.

Un attimo che sembra un’eternità.

Precipito. Volo giù, risucchiato da una forza indicibile che mi agguanta forte dai fianchi e mi tira in fondo. Senza che io possa liberarmi dalla morsa. Senza che abbia il tempo di trovare un appiglio cui artigliare unghie e dita. Senza nemmeno che io faccia in tempo a prendere un respiro.

Perché quell’attimo sembra un eternità, ma è solo un battito del cuore.

Precipito e mi schianto.

Di colpo. E lo spavento mi fa rimbalzare. E riesco a malapena a piantare a terra i palmi delle mani che mi scopro a boccheggiare con le labbra impastate di terra umida e qualche ciuffo d’erba ferrigna.

Ogni respiro solleva polvere e me la caccia nel naso.

Brucia.

Faccio forza, provo a rialzarmi.

La testa sembra un macigno impiccato attorno al collo.

Stringo i denti e mi metto in ginocchio.

Il fuoco, di fronte, s’è ridotto ad una brace scura che sbuffa. Ho il fiato corto; non basta nemmeno a far rivivere i tizzoni, a farli respirare.

Dal buio, oltre il poco fumo che si alza, i contorni difficili di qualcosa che si muove solo impercettibilmente. Col ritmo lento dei respiri di una belva.

– Bentronata cagna.

I suoni oltre il cerchio del fuoco sono un rantolo di catarro e perfidia. Chi si nasconde lì dietro, nell’ombra, ha la voce di un uomo. Più lo guardo, più provo a studiarne forma e contorni, più sospetto che sia solo la voce ad essere rimasta umana, in quell’essere.

Striscio il ginocchio in avanti. Getto indietro lo sguardo quel tanto che basta a ritrovare il manico della roncola.

Il mostro, lì davanti, appoggia quelle che sembrano zampe più che mani sulle ginocchia e si solleva. Piano, con una indolenza che ha del volgare. Con uno sbuffo che sa di provocazione e di rispetto da ciancicare sotto i calzari.

– Tranquilla cagnetta: ci metterò poco, promesso!

La risata che scoppia subito dopo quelle parole spazza via in un soffio tutta la lascivia volgare della frase appena sussurrata. La sagoma si solleva; me la ritrovo davanti imponente a nascondere i profili accennati della foresta. L’abominio muove alcuni passi, calpesta il braciere e solleva entrambe le braccia incrociandole sul petto con uno scrocchio d’ossa e uno scatto di tendini.

Contro il velo scuro del cielo, schiarito appena dalla falce di luna, l’essere svela le corna torte e nodose di un ariete; gli avvolgono mezza spira ciascuna attorno alla testa, come fossero tutt’uno con le mascelle. Solo il tempo di qualche altro passo, e quello che ho davanti è il suo grugno. E sento di colpo vacillare le gambe e sudare i palmi così tanto che serro le dita più forte, attorno al manico della roncola, per non farla scivolare.

Puzza di sangue quella creatura d’incubo.

Puzza di sangue e di sterco.

Negli occhi, incendiati di furia e fame, la stessa luce folle e disperata di Marso. Nient’altro, in quel muso, è rimasto umano. Le ossa robuste sotto la gobba adunca del naso sono quelle di un muflone; pelo, zanne, orecchie, sono quelle di un lupo.

Eppure, è quella di Marso, lì dentro, la voce.

– Forza cagnetta, avanti!

Scarto col tallone di un palmo indietro; è enorme, quell’abominio.

Tanto grosso da sovrastarmi. Tanto imponente da scoraggiare qualsiasi sortita.

È la bestia, allora, a lanciarsi contro di me. Tanto spavalda da allargare le braccia e sollevare i pugni furiosi oltre la testa, oltre il giro delle corna. La ferocia di quei colpi mi piove addosso con lo schianto del tuono. Il sinistro, che sollevo a scudo, crolla come staccato dalla spalla. È pura fortuna, istinto, se appena un attimo prima ho frustato col collo a destra per evitare l’impatto. La roncola mi resta in mano solo perchè appena l’ho avuta tra le mani, ho ricordato di allacciare il cuoio al polso. La presa, però, è persa; la lama penzola impazzita raschiandomi la coscia.

Il mostro mi spinge indietro, schiantandomi contro le pietre del cerchio. Torna ad avanzarmi davanti, più lento. Il ghigno con cui pregusta il sangue mi raggela.

– Che ti dicevo? Non sarai mai un guerriero. E non sarai mai un uomo.

Gli artigli, le dita, le mani possenti, si sollevano e mi puntano collo e stomaco.

Chiudo gli occhi.

Prego che la bestia la smetta di giocare. Prego che faccia subito quello che deve.

E quando riapro gli occhi, dopo attimi che sembrano eterni, me la ritrovo di fronte.

Schiuma bile, sputa bestemmie. Eppure… Eppure ancora una volta, invece di colpire duro e mettere fine al gioco, schianta una manata che mi travolge come il vento dei monti. Mi sbalza di lato, barcollo. E mi ritrovo bocconi. La roncola… La roncola è tornata a portata di mano. E quando di nuovo i passi di quel mostro tornano a farsi vicini, quando la voce di Marso ricomincia a insultarmi e provocare, mi rendo conto che se proprio si deve morire, tanto vale provare.

Serro le dita attorno all’arma, la strofino per terra fino a ritrovarmela di fianco.

Il dolore lancinante al fianco è lo zoccolo che mi investe sotto il costato e mi ribalta con la faccia sotto il cielo.

– Vali niente, cagna!

Quella forma spaventosa che avvolge Marso mi si lancia addosso col balzo di una bestia della foresta. Non ho nemmeno idea di quale sia la forza che mi ispira la mano. So solo che la destra m’impazzisce. Si inerpica in uno scatto violento. Ed ‘è un battito solo di ciglia, forse nemmeno quello, e finalmente il contraccolpo del peso di quell’abominio mi schiaccia la spalla a terra. La lama affonda, buca la carne e sfrega tra muscoli e budella, friggendo contro una vertebra.

L’urlo folle di quell’orrore mi scoppia contro i timpani, mentre il polso finisce per annegare nello strappo. Sangue che puzza, sangue rivoltante, una cloaca che mi piove addosso.

E quando mi ritrovo quel muso storpiato dal dolore a un palmo dal viso, di colpo il pelo è come caduto via. S’è rifatto barba: la stessa barba rada di Marso.

Non ha più mascelle squadrate, muscoli forti ad incorniciare il viso. Quelli che si contraggono folli di dolore, poco oltre le orecchie, sono quelli che ho visto pulsare mille e mille volte sulla faccia di mio padre.

In bocca, però, ora sento un sapore ferroso diverso. E sento caldo, sul viso, sul collo, oltre la bocca dello stomaco.

*

Il corpo di Marso mi rantola addosso.

Sento il peso comprimermi il costato, rubarmi il respiro. Ho la bocca schiacciata sulla sua pelle sporca. Ho i denti che crocchiano tutti contro la sua carne.

Nella sua carne.

Ho il naso schiacciato sulla gola di Marso.

Sto mordendo. Sto bevendo. E quello che ingoio è il suo sangue. Lo stesso che mi lorda la destra, fino al gomito. Lo stesso che mi inzuppa i vestiti spruzzando fuori dallo squarcio. Lo stesso che mi riscalda il braccio, lì dentro, nel corpo che ho strappato.

Quando me ne rendo conto, provo a sollevarlo.

Impossibile.

Provo a sfilarmi di sotto. Mollo la roncola, sguscio fuori col braccio.

Mollo la morsa ferina sul collo e cerco di ribaltarlo.

Ma Marso pesa.

E morto com’è, ormai, il suo ingombro è doppio, perchè nemmeno uno dei suoi muscoli ne vuol sapere di collaborare.

Ribaltarlo non mi riesce. L’unica è sfilarmici di sotto.

Mi accascio di fianco. Di fianco a mio padre che nemmeno rantola più

Ruggisco un conato, come se la disperazione volesse risputare fuori quel che è successo. Il sangue di mio padre bevuto.

Nulla.

Non mi sembra nemmeno di riuscire a sentire nient’altro che quel sapore disgustoso in bocca e il calore denso e vischioso addosso.

Sangue; nient’altro che sangue.

E la mano ossuta, gelida, di quel vecchio. Che avevo dimenticato e con quel contatto decide di tornare a parlarmi.

– Ogni storia, per restare scritta meglio, ha bisogno del sangue, Vurro di Marso, Signore di genti…”

Faccio in tempo appena a sentire quelle parole, a sollevare lo sguardo, che il viandante ha già superato i megaliti. Vedo la pezza che lo avvolge, nell’alba livida del mattino, sfilare in mezzo alle giovenche addormentate.

Provo ad urlare, ma non ho voce.

Crollo, in ginocchio, di nuovo.

In faccia al grugno di dolore di Marso.

Occhi persi, spenti. Gli stessi che usava da un po’ per guardare il mondo.

Come se qualcuno gli avesse detto che era tempo di farsi da parte.

Nell’unico modo che certi dei antichi avrebbero accettato.

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