
Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare Bellard Richmont, autore emergente che ci propone “Relicta-Il Pastore dei Morti”, racconto grimdark fantasy di circa 25.000 battute.
Autore
Laureatosi con tesi “Simbolismo e Contemporaneità di Tolkien” alla Statale di Milano, conserva dall’adolescenza la passione per scrittura, gamedesign e fantastico; ma solo verso i trent’anni decide di metterla professionalmente in pratica. Nel 2017 pubblica in selfpublishing un’antologia grimdark intitolata “Luna di Sangue”.
Nel 2018 inizia il progetto di gamedesign Arcamundi con l’illustratore Matteo Di Domenico e in ottobre 2019 firma il primo contratto con l’Editore I.D.E.A. – Immagina di Essere Altro, per il romanzo dark fantasy “RevenHunt”, la cui pubblicazione è prevista per il 2020.
Gestisce la pagina “Bellard Richmont scrive cose”, sulla quale pubblica contenuti vari, estratti, work in progress, racconti e recensioni.
Relicta
Il Pastore dei Morti
di Bellard Richmont
Il Becchino in Attesa
Il becchino smosse le braci del suo bivacco modesto, frugale, in cerca di dettagli per le sue memorie spezzate. Sperava che le timide lingue di fuoco portassero a galla i frammenti del suo passato dal ribollente nulla dell’oblio.
Non era così e sapeva, in fondo, che nessuno avrebbe mai potuto restituirgli ciò che il trapasso gli aveva tolto per sempre: era un becchino e certe speranze erano pericolose da tener vicino al cuore inerte; fosse stato ancora un novellino, avrebbe udito proprio questi insegnamenti.
Eppure, in quelle snervanti attese, senza nemmeno fame o sete a distrarlo, le pulsioni della vita mortale lo spingevano a distogliere lo sguardo dalla retta via.
In quei momenti, stringeva ancor più forte i grani del suo ossario e intonava preghiere sommesse per scacciare i rimorsi e le tentazioni.
Le dita ossute, foderate dai guanti, tuttavia si accorsero ora di ghermire ben altro che il monile di legno consunto, e quando aprì la mano la fioca luminescenza del cristallo tinse di verde acido le estremità arcigne della sua maschera a becco.
Un obolo. L’obolo che portava con sé.
Attraverso i fori, gli occhi spenti osservavano il piccolo oggetto che chiedeva di essere assimilato, donando così forse un’ombra di umanità a quel che restava di lui, dopo anni di militanza al Confine.
Non è per me, ragionò riponendo l’obolo nella scarsella, e per ritrovare la compostezza mentale e la disciplina.
Non è per me, si ripeté; si rimproverava: è per i morti che rischiano l’oblio totale, che rischiano di diventare divoratori.
Proprio nell’indurirsi della volontà contro la tentazione, lo scricchiolio di una carrozza e il vociare distratto di uomini preannunciava la fine della sua attesa.
Badò per l’ultima volta alle tenebre vomitate dal passo montano alle sue spalle: l’unica strada nel raggio di chilometri in grado di tagliare attraverso i Monti del Re. L’unico sentiero sicuro, se così si poteva azzardare parola, per portare i nuovi morti verso la Terra Maledetta.
Il sole terminò il suo corso oltre le creste umbratili velate di bruma, e con il tramonto giunsero i suoi nuovi discepoli.
Andranno istruiti.
Andranno consolati.
Andranno condotti verso la nuova esistenza.
«Non meritiamo il Riposo, Dolce Signora, perché siamo peccatori» sussurrò assorto in preghiera prima di rimettersi in piedi.
***
«Tu. Lì» intimò una guardia a uno dei quattro non-morti appena scesi. Sembravano strappati dalla quotidianità, con ancora indosso gli abiti legati al lavoro che praticavano in vita. I tessuti e la fattura delle loro vesti erano però incupite da strappi e sporco. Uno solo tra essi si era salvato dalla decomposizione, e Padre Zacari subito lo individuò con interesse.
Allo stesso tempo, però, dovette concentrarsi su quello che più era stato rovinato dalla decomposizione, ossia quel che per lui era un bisognoso, uno a cui prestare aiuto.
«Forza!» esortò l’altra guardia di Ran spingendo i poveracci, ammutoliti dallo sgomento e la paura. Usava una verga di legno, stretta in vecchie garze, per dirigere i cadaveri ambulanti scesi dalla carrozza.
Uno a uno si lasciarono guidare per poi allinearsi di fronte alle fessure della maschera corvina che li osservava, senza proferire parola.
«Sono tutti qui, Padre. Nuovi nuovi, pronti per essere condotti a miglior vita.» Quello che pareva il capo, dei due soldati, masticava le parole assieme a un bastoncino di liquirizia.
L’altro passeggiava alle spalle dei morti e scrutava il panorama notturno; a ogni passo, la cotta di maglia tintinnava sotto il corpetto di cuoio. La sua mano stringeva nervosamente l’impugnatura della spada, infilata nella cintura alla meglio e senza fodero. Strappati e abbandonati alle folate passeggere del vento, alcuni gagliardetti di tessuto leggero identificavano la fedeltà al Ducato di Ran.
Dopo un passo avanti, il becchino piegò la testa squadrando il prigioniero di fronte, per poi estrarre dalla scarsella un piccolo oggetto radiante luce verde. Lo serrò in pugno, facendo lamentare il cuoio dei guanti, per poi protendere la mano verso la persona, fonte della sua attenzione.
Non era come gli altri, quel non-morto: era consumato già dalla decomposizione, e tutti quelli in grado di percepire odori comprendevano quanto il tempo, per un defunto, potesse essere crudele. Era a dir poco repellente, orribile e con piccole creature a brulicare tra le viscere, parte delle quali era stata già disseminata nello scendere dalla carrozza.
Aprendo la mano, mostrò allo sventurato il cristallo: «Ti serve. Nutriti.»
Tutti, soprattutto l’imputato, erano rapiti dal prodigio, dal frammento di anima che giaceva placido sul palmo del becchino.
Dalla più spenta alla più viva, ogni pupilla imprigionò il riflesso di quel cristallo, quasi trattenendo negli occhi un piccolo fuoco fatuo. Ma non era altro che brama, e ogni non-morto desiderava quel che il sacerdote offriva a uno solo di loro.
Volevano quel dannato obolo.
«No. Non è per te.» Il guardiano mascherato si pronunciò tempestivo, all’accorgersi di un mezzo passo da parte di uno dei quattro attirato dalla fame, il quale tornò subito dopo nei ranghi.
«Fai quel che dice il Padre» ordinò una guardia, così questi afferrò l’oggetto portandolo a sé, al petto; la luminescenza passò attraverso le carni sottili, mettendo in evidenza ogni osso della mano in controluce.
In quel che forse un tempo era un sospiro, il morto si abbandonò in un’espressione di godimento, di pace e l’energia dell’obolo si spense piano. Al riaprirsi della mano, il prigioniero non aveva più il cristallo, ma tutti erano meravigliati dalla carne che lentamente riprendeva colorito e rigenerava le parti deteriorate. Il grigiore e il verdastro della decomposizione tornarono a un colorito albino, più vicino alla vita di quanto non fosse prima; alla stessa maniera l’odoraccio insostenibile era rientrato nel sopportabile.
«Direi che abbiamo finito» concluse il capo dei due soldati, indifferente a quel che sicuramente aveva già visto centinaia di volte.
«Non volete restare per la notte? Partirete domani mattina» rispose il becchino con voce gentile.
«No, padre.» Questi si voltò, con un piede già sulla pedana della carrozza, pronto a salire: «Il Confine mi mette paura, lo lascio ai morti.»
«Buona vita» salutò quindi, pacifico, il becchino.
«Buon riposo, Padre.»
Verso la Torre
I toni aranciati del sole, prossimo al tramonto, accompagnavano i volti dei pellegrini non-morti, in cerca di una nuova vita oltre la morte. Ed era la Morte che spesso Padre Zacari implorava; la implorava per un ritorno, un perdono verso tutti gli uomini.
Pregava, e lo faceva stringendo il suo ossario fino a far scricchiolare le falangi consunte delle mani. Lo faceva camminando curvo sotto il peso della sua borsa da viaggio, il cui contenuto era ignoto al gregge che lo seguiva. Lo faceva creando un dolce mugugnare del cuoio indossato per proteggersi.
La spada batteva sulla sua gamba a ogni passo.
Poi, quando le ultime lame solari penetrarono la prima bruma, ombre di alberi sostennero la volta di una macchia boschiva nella steppa. In tutto questo, tra i sussurri delle esperienze passate, Padre Zacari vide un rifugio per la notte.
«Perché ci fermiamo?» chiese Frehus, il primo della fila, osservando la sacca da viaggio lasciata cadere dalla guida.
«Abbiamo bisogno di riposare» il becchino rispose scrutando le selve che li circondava.
Avvicinandosi, lo zotico si fece minaccioso mentre gli altri tre raggiunsero la sosta: «Hai parlato di una torre e che mancava poco ad arrivarci.»
Il Padre allora si voltò, incrociando il pallore delle iridi con quelle del non-morto scavato dal trapasso: «Alek è l’unico ad aver conservato la propria umanità, per questo abbisogna di rifocillarsi e dormire.»
«Peggio per lui» ghignò il rozzo, cercando con lo sguardo nervoso i fratelli Rob e Norb, i quali si scambiarono intesa: «anzi, può dividere qualche obolo con noi, così si alleggerisce della sua fame e del sonno.»
Silenzio.
Sentendosi minacciato, Alek fece un passo indietro.
Due scatti meccanici, improvvisi e ravvicinati gelarono l’aria: «No» sentenziò Padre Zacari laconico.
E tutti porsero attenzione alla canna della spingarda, a meno di una spanna dalla fronte di Frehus. S’impietrì.
«Farete quel che vi dico, e vi dico di sedervi. Aspetteremo l’indomani per raggiungere la torre» dichiarò il becchino.
«Sei tu il capo.» Rabbia e paura accesero gli occhi del non-morto sotto tiro.
«Lo so» concluse Padre Zacari e si rivolse ad Alek: «Prendi la tua roba e mettiti vicino a me.»
***
Dall’orizzonte d’erba sorsero ombre oscure e cariche di pioggia; tra esse, una spiccava nel paesaggio emergendo dalla terra: una torre, una zanna erosa dagli elementi che ancora sfidava il passare del tempo.
Concentrandocisi bene, era forse possibile scorgere il baluginare di remote fonti di luce, incastonate nella figura un tempo, simbolo del dominio dei vivi e ora abitata da morti erranti.
Ma tutto decadeva a Relicta, proprio come quella fortificazione, senza però lasciare la terra, e Padre Zacari lo sapeva bene: nulla lasciava Relicta.
Nulla aveva il permesso di abbandonare la terra.
D’un tratto sollevò la mano: «State giù.» Fece un passo estraendo la spingarda: «vado io.»
I quattro non poterono far altro che obbedire, divisi tra la paura verso il becchino e l’ignoto che…
Un gemito.
Il verso di un neonato divertito anticipò un movimento rapido tra l’erba, mentre ogni membro del gruppetto, rannicchiato, non poteva far altro che attendere, cercando risposte nella somatica silente di quello di fronte.
I passi pesanti di Padre Zacari si distinguevano chiaramente dagli scatti della cosa che ridacchiava ancora, emulando un bimbo di pochi mesi di vita.
«Un bambino…» accennò piano Norb poco prima di uno scoppio, e il tanfo di polvere nera che zittì il creato disperse volatili nel cielo plumbeo.
Silenzio.
Nessuno di loro osò chiedere, fiatare, muoversi.
«Statemi bene a sentire» irruppe nella quiete Padre Zacari mentre tutti si alzavano «girate largo e seguite la direzione della torre; mi occupo di questa…» sguardo basso «… faccenda e vi raggiungo.»
Silenzio.
I quattro non si mossero ancora.
«Cosa non vi è chiaro di quello che ho detto? Muovetevi.»
L’ora a seguire fu ubriaca di quiete, corrotta solo da versi di dolore e urla disperate che facevano capolino dall’ignoto: il mistero di una terra mai esplorata appieno e che ospitava cadaveri animati da quando l’uomo aveva memoria.
Bestie selvagge correvano qui e là, ove le tenebre ammantavano il panorama fuggiasco dal giorno.
E la luce moriva piano.
La torre si faceva sempre più titanica nell’avvicinarsi del gruppo.
La Torre Diroccata
Come l’aspetto di una zanna cariata, la torre dominava la cima di una collinetta, interrotta bruscamente da una parete di dura roccia a strapiombo.
La costruzione era raggiungibile attraverso una vecchia, vecchissima strada, le cui origini potevano essere scorte dalle porzioni di pavimentazione raniana; buona parte era mancante, distrutta dal tempo o chissà cosa.
Decine di tende ospitavano viandanti da ogni dove, e questi dove potevano essere notati dalle gestualità, dagli abiti, dai simboli e gli accenti; ogni dettaglio riconduceva una mente viaggiatrice a un luogo o una persona incontrata in vita, se ancora aveva il ricordo.
Padre Zacari passeggiava con la mano sollevata, pronta a cogliere i saluti dei volti pallidi che sorgevano dalle cerate o dalle mancanze alle pareti, di cui la torre non era di certo manchevole.
Timorosi, i quattro con lui si strinsero nell’ultimo tratto di strada, come impauriti dalle orbite vuote o chiare dei cadaveri incuriositi.
«Non avete di che temere» annunciò il becchino «molte di queste anime perdute sono in debito con me, e chi è in debito con me lo è anche con la Chiesa.»
«Ma Padre» rispose Alek il quasi vivo «ho visto dei domiti. Ho sentito storie terribili sul loro conto.»
«Ai cadaveri come noi non è concesso il lusso d’esser schizzinosi. E non esistono stranieri nella Terra Maledetta» spiegò con tono fermo e sicuro, senza degnare dello sguardo.
«Mio nonno venne ucciso da un fottuto domita, becchino», intervenne Frehus.
«Probabilmente tuo nonno nemmeno se lo ricorda; potresti riabbracciarlo con un colpo di fortuna.» Si girò, puntando Frehus con le orbite di cuoio della maschera.
Per la prima volta, la faccia grigio-verde non-morto ostile incontrò una luce di speme; se la godette, e mostrò un briciolo di sorriso con l’angolo della bocca.
Improvvisamente la guida si fermò, con sorpresa dei quattro con lui e di tutto il pubblico attirato dai nuovi arrivi: «Dimenticare la vita è un peccato mortale. Ma danzare con la Morte è un pregio degli eletti. Seguite i dettami della Signora, fedeli, e questa Terra sarà solo un nuovo percorso.» La voce del becchino si fece meno severa, e per il suo gregge significò sentirsi toccare i cuori spenti.
«Ora seguitemi. Cercheremo un posto per passare la notte. Ragazzo! Ragazzo, dove sei?» urlò al vento in cerca di qualche servo.
***
Le bettole frequentate dai morti sono più chiassose di quelle dei vivi, in quanto pochi si conciliano al sonno, e ancora meno occupano la bocca per masticare; perciò, tutti parlano, guardando con invidia chi può ancora bagnare le labbra e assaporare gli spiriti.
Le notti, in queste grottesche rovine occupate, sono veglie costellate di racconti: parole nostalgiche afferrate dai cocci della propria anima.
E questa era una di quelle notti. I pellegrini novizi sedevano in disparte, ascoltando le avventure e le bizzarre notizie provenienti dalle necropoli più vicine.
«Chiedi a Sarìf, se non mi credi» sfidò Karl, omone orbo dalla pelle sottile, grigiastra «è un divoratore delle sue terre.» Indicò il maradiano a pochi metri da lui.
«Una leggenda delle sue terre» precisò invece un benestante diffidente, pallido come la luna e i capelli corti biondo cenere.
«Più di una leggenda» rispose infine il maradiano, dopo lunghe ore di silenzio immerse nell’oppio; questi pareva mantenere perfettamente la propria umanità, e infatti accompagnava le sue parole con un morso di carne essiccata; «la Vipera Morta esiste» distorceva la lingua locale, trascinando malamente le vocali verso la propria lingua madre.
Il brusio delle ciance non toccava però la concentrazione di Padre Zacari, in piedi, poggiato alla parete della torre a fissare un braciere.
«Padre» chiamò Alek che raramente si allontanava dal becchino. «Padre, di che parlano?»
«Non hai sentito? Parlano di un divoratore.»
«La Vipera Morta?»
«Sì, ci sono divoratori così antichi da diventar leggende; ma le parole spesso allungano la minestra. Non so se mi spiego.»
«Il maradiano…»
«I maradiani sono più strani dei domiti, e pericolosi quanto loro. Sussurrano superstizioni all’orecchio destro e brontolano anatemi a quello sinistro. Non so niente di questa Vipera Morta, ma dammi retta, se dovessimo incontrarla ci sarebbe poco da preoccuparsi.»
Alek sorrise e si scosse la paura di dosso: «Bene.»
«Sì, è un bene trapassare rapidamente» concluse, lasciando spaesato il ragazzo.
Egli non poté giurarlo né provarlo, ma era pronto a sostenere che ci fosse un mezzo sorriso sotto la maschera del becchino.
***
Da una placenta di nebbia il sole s’innalzò lento tra due monti lontani e piano carezzò la torre. La costruzione, devastata dal lento martellare degli anni, ritrovò un cenno della maestosità antica, quando i primi fasci solari la sfiorarono destando così dal sonno anche i non-morti ancora capaci di dormire.
Tra loro, Alek aprì gli occhi cercando subito il becchino rimasto accanto al suo giaciglio tutta la notte; egli aveva vegliato così sulla sua umanità residua, intrappolata in quei pochi ricordi ancora incastonati nella carne ad alimentarne la non-vita.
Padre Zacari puzzava; puzzava di cadavere, oggi più di ieri e più dei giorni precedenti. Alek lo sapeva perché non si allontanava mai dal pastore dei morti, in quanto unica egida contro l’avidità dei cadaveri in cerca di nuovi ricordi con cui ritrovare il brivido della mortalità.
Quando si alzò, scuotendosi il freddo di dosso, raggiunse il becchino e lo chiamò toccando la spalla, giusto in tempo perché questo si voltasse di scatto e gli afferrasse il polso: attraverso il cuoio dei guanti la presa era dura proprio come le ossa che tenevano assieme la mano decomposta. Dalle orbite della maschera corvina, ora gli occhi evocavano un senso di inquietudine; minacciavano il giovane che rimase paralizzato dal dolore e dalla paura.
Così alzò l’altra mano per presentare immediatamente la bandiera bianca di chi non voleva offendere, e soprattutto di chi non avrebbe potuto nulla contro un sacerdote combattente della sua risma. Nonostante non avesse mai visto cosa era in grado di fare, ricordava bene la freddezza con cui aveva affrontato la creatura all’imbrunire di ieri: l’essere che emetteva le risa di un neonato demoniaco, di un bambino traviato da chissà quale forza aliena, maligna.
«Non farlo mai più» comandò Padre Zacari, e Alek non disse nulla, non fece nulla se non attendere che il polso venisse rilasciato dalla presa. Questi tornò così a parlare con il proprietario della Locanda, il cui nome non era dato sapere a un novellino come lui. Avrebbe potuto chiedere, ma la verità era che non aveva il coraggio di parlare con nessuno dei presenti alla lunga serata trascorsa
Aveva cercato quindi un sonno profondo, nonostante le urla e gli schiamazzi degli astanti. Ma a malapena chiuse occhio.
Con un gesto furtivo, Zacari fece scivolare qualcosa sul bancone e l’oste lo accolse con altrettanta discrezione sotto il palmo; fece un cenno e se lo infilò in tasca più veloce che poté, ma non abbastanza da combattere la giovane curiosità di Alek che rimase affascinato.
«Ehi!» l’oste lo riportò alla realtà: «Fatti gli affari tuoi.»
Il giovane obbedì e cercò altro da guardare: il camino acceso poteva andar bene in attesa che il becchino gli riferisse il da farsi.
Ma accadde qualcosa d’insolito: entro pochi istanti Padre Zacari gli si affiancò: «Scusa, prima di partire spalmerò un unguento profumato su tutto il mio corpo, così il mio odore sarà più gradevole.»
Senza dire nulla, Alek fece “sì” con la testa e mascherò l’imbarazzo con un sorriso di circostanza.
«Vorresti sapere cosa ho consegnato all’oste, vero?»
«Io…»
«Non dire niente; ti capisco. Accadono molte cose attorno a te e non intendi molto di quel che vedi, odori o ascolti. Sai come funziona il corpo di un non-morto?»
Alek non rispose. Scosse la testa.
«Beh, come sai, tutti siamo destinati al trapasso ma non siamo meritevoli di incontrare la Dolce Signora» spiegò.
«La Morte?»
«Sì» la mano guantata del becchino si poggiò sulla spalla del pellegrino «l’uomo è destinato a diventare come noi; chi ancora vivente nel corpo, come te, chi come me o…» cercò con lo sguardo gli altri tre del gruppo con cui erano giunti «… come loro. Destinati a marcire. Quel che ci separa non è altro che…» afferrò qualcosa dalla tasca «questo». E mostrò un cristallo verde luminescente.
«Un obolo. Non ne avevo mai visto uno prima. Lo deste a uno di noi…»
«Sì, per evitare che abbracciasse l’oblio.»
«L’oblio?» chiede Alek, stranito.
«Già, più oboli possediamo più ci avviciniamo alla vita, senza ovviamente mai poterla abbracciare. Alla stessa maniera, meno oboli un non-morto conserva nel suo organismo, più il suo aspetto è cadaverico.» Si indicò il petto con una mano: «come il mio.»
«Ma… cosa sono questi… oboli, questi cristalli?» Fece per avvicinare una mano al monile ma il becchino subito lo ritrasse e lo ripose in una tasca del giaccone.
«Ricordi. L’unica cosa che ci tiene stretti alla vita. Ecco cosa sono.»
«Ma quello che deste all’oste non brillava.» Gli occhi del giovane si spalancarono avidi di conoscenza.
«Perché era vuoto, privo di memorie. Lo presi alla creatura che uccisi ieri.» Il becchino cercò nell’aria i ricordi del misfatto.
«Ma… ma cos’era?»
«Un neonato. Un neonato ceduto all’oblio. Un gremlin, un neonato diventato divoratore. I bambini non fanno in tempo ad accumulare ricordi, per questo il loro obolo è vuoto.»
L’apprendista
«Io…» Padre Zacari si accorse di essere entrato nell’ennesima galleria che collegava un vecchio presente con un nuovo presente; un’altra ruota aveva fatto il suo giro e altri morti ora erano pronti per prendere il loro cammino.
I nuovi cadaveri nella Terra Maledetta, soprattutto Alek il più giovane e dall’aspetto umano, lo guardavano con occhi rinnovati, con espressioni di rispetto a coprire, cancellare quelle che prima potevano comunicare invece distacco e avversione. «Io…» cercò ancora le parole giuste, costatando che era sempre difficile lasciar andare le anime spezzate.
«Siamo arrivati fin qui, ognuno con i propri fardelli, e nonostante tutto, nonostante le occhiate torve e le mura di diffidenza, posso solo augurarvi il meglio per quel che verrà dal vostro futuro.»
Anche i più duri non poterono far altro che lasciar intravedere un sorriso, mascherato subito in un ghigno quasi a vergognarsi dello scorcio d’affetto verso la loro guida severa. Severa e allo stesso tempo… buona.
«Ma badate…» il vento e il vociare dell’accampamento improvvisamente vennero annegati dal tono di voce, che si rese siderale. Freddo. E tutti e quattro avvertirono le loro volontà congelate, interrompendo qualsiasi gesto o parola: «Badate a quel che vi sto per dire, perché riguarderà il vostro futuro ma solo se prenderete…» allungò la mano oltre la Torre, verso le terre dalle quali erano giunti «… quella strada. Quel cammino è per voi vietato. Io e i miei fratelli dell’Ordine impediremo a qualunque di voi di attraversare il Confine e di tornare nella Terra dei Vivi, nel Regno di Randomar.»
Gelo. Nessuno osò fiatare, ipnotizzato dagli occhi pallidi, morti, che divoravano qualsiasi elemento di distrazione, attraverso le orbite di cuoio della maschera nera.
«Qualcuno forse se l’è perso col trapasso, ma voglio rinnovare in voi il ricordo della Dottrina, ed essa, per conto del Primo Re Kain Randomar, e del Metropolita, Harab Wal-Tarasj, impedisce a tutti i morti di varcare il Confine e di tornare tra i Vivi. Non c’è niente per voi, oltre quel Confine. Voglio che lo teniate bene a mente, perché dobbiamo provare alla Signora, alla Morte, che possiamo rimediare ai nostri errori e meritiamo il suo bacio. Solo così avremo diritto alla pace eterna.»
Silenzio.
«Andate in pace.»
Tutti voltarono le spalle e ripresero a sistemare i bagagli, le borse, le sacche e le armi semplici che erano riusciti a racimolare durante la notte.
A parte Alek. Alek mantenne la posizione, tenendo gli occhi fissi sul becchino, anch’egli, di rimando, rapito da qualcosa in lui: una voglia, una determinazione diversa dagli altri. «Sappi che non c’è nulla di speciale in quel che ora vuoi, e non ti condurrà a nulla di prezioso o di eroico.» Il pastore dei morti aveva ben inteso cosa passasse nella mente del giovane.
Alek non rispose e fece un passo verso Padre Zacari.
«Non siamo cavalieri. Non salviamo dame. Non cavalchiamo verso il tramonto con i villici che esultano alle nostre gesta.»
Alek non rispose e fece un altro passo verso Padre Zacari.
«La via che tu stai prendendo è trafitta da rinunce, figliolo. Rinuncerai al tuo nome, alla tua stirpe, ai tuoi averi.»
Alek non rispose e arrivò a fronteggiare il becchino.
«Sarai nessuno. Perché i cadaveri non sono altro che questo. Non sono niente. Io non sono niente. Sono solo una voce, una guida.»
«Vorrei…» distolse lo sguardo, Alek, per cercare le parole giuste «… vorrei potervi dire, Padre, che voglio venire con voi perché non ho niente da perdere, e so già di essere quel che voi mi avete detto. So di essere niente. Ma vedo qualcosa, ho visto qualcosa nel vostro agire, una speranza che mi ha risollevato dalla mestizia che mi trascinava a fondo.»
«In vita cos’eri?» chiese Padre Zacari incuriosito dal linguaggio forbito e la logica fina.
«Ricordo scritti, pergamene… ricordo la ricerca, qualcosa di molto simile alla vostra, quella che ho scorto nelle vostre mire silenziose. Credo di esser stato un… un compositore. Forse un poeta.» Sorrise e una lacrima calò piano dallo zigomo; Zacari ci si specchiò, quasi lavandocisi l’anima.
Per la prima volta sciolse la sua compostezza, e una mano si congiunse all’altra; sfilò piano un guanto, mostrando l’orrore della putrefazione che ne aveva scavato le forme consunte, rattrappite. La mosse fino ad afferrare con gentilezza la spalla di Alek, che resistette con tutte le forze all’urto di vomito, evocato dal tanfo di marcio. «Alek, sei un cadavere con un dono immenso. Se la Morte vorrà, di te non rimarrà che polvere, ma i tuoi scritti saranno immortali. Vieni, altri morti ci attendono al Confine.»