I racconti di Satrampa Zeiros – “L’azzannasonno” di Mirko Sgarbossa

Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare Mirko Sgarbossa, che ci propone “L’azzannasonno”, racconto fantasy di circa 25.000 battute.

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Autore

Mirko Sgarbossa nasce a Cittadella, in provincia di Padova, il 23 luglio 1991. Dopo aver conseguito la maturità scientifica, nel 2016 si è laureato in giurisprudenza e attualmente lavora presso una cooperativa che si occupa di inserimento lavorativo di persone svantaggiate.

Sin dalla tenera età sviluppa una grande passione per la lettura, a cui si aggiunge con l’andar degli anni l’amore per il cinema, le serie tv, i fumetti e l’animazione.

Nel 2013 conosce la Torre Nera di Stephen King che lo convince a scrivere. Qualche anno più tardi conosce Howard che invece lo indirizza verso quale genere provare ad affrontare.


L’azzannasonno

Mirko Sgarbossa

 

L’ascia compì una parabola perfetta, violentando il cranio dell’uomo inginocchiato.

I muscoli di Dumezìl si gonfiarono, le occhiaie svanirono e una nuova freschezza ne pervase il volto.

Finalmente. Fece un lungo sospiro prima di disincastrare la lama dalla testa del cadavere e fissò l’occhio giallo sulla lama. Il nero di quell’iride lo inquietava ogni volta.

Dumezìl si sgranchì le braccia guardando la carneficina attorno a lui, le interiora insudiciavano il terreno. Caricò il piccolo forziere sul cavallo e si diresse verso la città.

Dovette bussare più volte prima che la guardia aprisse l’accesso del muraglione. Percorse le vie piene di baracche fino a quando giunse a una grande costruzione in legno, entrò e una voce ruppe quel silenzio quasi religioso.

«Ah, Dumezìl Senza Palpebre non si smentisce mai.» Il doppio-mento del grassone a capotavola vibrò di soddisfazione mentre Dumezìl sbatteva il forziere sul tavolo.

«Ecco la refurtiva, Grao. Hai riavuto ciò che era tuo. Ora dammi il mio compenso.»

«Ah, non credo proprio. Ho amici che pagherebbero oro per la tua testa. Bindo?»

Un gigantesco guerriero fuoriuscì dall’ombra con una spada sguainata. Dumezìl scartò a destra schivando il fendente. Si abbassò e agganciò la caviglia del nero con la punta inferiore della lama. Mentre cadeva a terra, Dumezìl gli piantò l’ascia nel petto. Subito dopo, l’urlo del mercante venne strozzato da un colpo secco che gli tranciò la testa.

Quelle morti lo rinvigorirono e sentì svanire la stanchezza dovuta alla cavalcata notturna. Il Senza Palpebre avrebbe tenuto gli occhi vigili ancora per un po’.

Sei sempre stato irruento… non solo con le armi. Dumezìl sentì un tocco delicato sulla patta dei calzari.

Ho ricambiato solo la gentilezza. Riconobbe gli occhi che lo fissavano a mezz’aria, una vaga fisionomia prendeva corpo e si appannava nell’aere. Si sfregò gli occhi e lei era già scomparsa.

Dumezìl raccolse il ciondolo che era caduto dal collo mozzato del mercante. Osservò la sfera nera nel liquido arancione battere contro il vetro, verso est. Guardò fuori dalla finestra, ghignando.

Risalì in groppa e seguì il ciondolo per due giorni senza mai fermarsi, fino a che la bestia non si rifiutò di proseguire. Di fronte a lui un sentiero si inerpicava su per una collina boscosa e Dumezìl lasciò libero il cavallo. Il ciondolo quasi lo strozzava da quanto si muoveva. Il Senza Palpebre risalì lo stretto sentiero un passo alla volta, il terriccio umido si attaccava agli stivali e i rami sembravano quasi voler abbracciarlo.

Mamma?

Dumezìl si voltò e vide un bimbo impiccato, la fiamma verde di una candela a terra ballava al dondolio di quel corpicino.

Mamma? Il bambino con un rumore d’ossa rotte disarticolò la mandibola e i denti gli esplosero nel vomitare un grosso serpente cremisi che si lanciò contro Dumezìl. Il guerriero ruotò sul busto e tagliò di traverso il mostro schizzando di rosso l’albero dove un secondo prima c’era l’impiccato.

L’occhio dell’ascia si muoveva in maniera frenetica mentre Dumezìl ansimava per prendere fiato.

Un bambino impiccato. Povertà, depressione… e un serpente. Aggressività depressa? Voleva scoparsi un ragazzino? Magari suo figlio?

Dumezìl scosse la testa e proseguì. Ormai aveva rinunciato a interpretare gli incubi che assorbiva dai poveracci che ammazzava, ma a volte si chiedeva di chi fossero le visioni che aveva. Ripensò al disgraziato a cui aveva spaccato la testa per conto di Grao, magari il bambino era il suo o magari era lui stesso. Ma non era quella la sua principale preoccupazione.

Mai avute visioni così… reali. Dev’essere qui.

Svoltò per un altro tornante, ma all’improvviso sentì il vuoto sotto di lui e precipitò. Dumezìl si aggrappò a una rientranza nella roccia e notò che ce n’erano altre. Iniziò a risalire, ma ritirò subito la mano da uno dei buchi. Erano comparsi dei volti macilenti dagli occhi vitrei che esondavano sangue da gengive sdentate, rendendo scivolosa la presa. Li ignorò, arrivando persino ad affondare le dita in quelle maschere putrefatte pur di risalire e con un ultimo sforzo si gettò oltre il ciglio.

Dumezìl continuò non sapendo cosa aspettarsi, le visioni generate dalla sua Azzannasonno si facevano sempre più pericolose.

Svoltò dietro un crinale e trattene il fiato. Due enormi occhi senza pupille lo fissavano nel buio e gli vennero incontro. La luce della luna rivelò un abominio. Dumezìl contemplò un ammasso contorto con due teste, retto da quattro chele di granchio. Un disgustoso liquido giallastro copriva la creatura, rendendola quasi lucida. La bestia si alzò su due zampe, una testa ruggì mentre l’altra restava a penzoloni, ruotando in tutte le direzioni.

Dumezìl gettò la sacca coi viveri da un lato e impugnò l’Azzannasonno. Leccò la lama e ne percepì il freddo vivo sulla lingua.

Come risvegliatasi dal torpore, la bestia balzò su Dumezìl che schivò a destra calando l’ascia su una delle zampe. Il pezzo mozzato volò via mentre la seconda testa iniziò a spruzzare ghiaccio verso Dumezìl, che sentì la gamba congelarsi. Ignorò il bruciore del gelo e tentò di colpire il mostro che però si scostò, ruotando come un acrobata nonostante il moncherino. Dumezìl lo inseguì e in risposta delle fiamme esondarono dalla testa superiore. Il guerriero ruotò in avanti passando sotto la lingua di fuoco e nel risalire gli piantò l’ascia nel ventre.

Il mostro stramazzò e scomparve come non fosse mai esistito.

Dumezìl seguì il ciondolo che ormai quasi si sollevava dal petto nell’indicare un vecchio albero cavo. Vi rovistò e ne estrasse un elmo sormontato da ali arrugginite di pipistrello.

Un secondo prima di indossare il cimiero una voce lo bloccò.

Dumezìl, amore mio.

Il guerriero sospirò e posò l’elmo per terra. Quella terra doveva essere davvero intrisa dalla malignità di quella Reliquia dell’Incubo.

Si voltò e la vide.

Malena gli stava di fronte, le labbra rosse e gli occhi a goccia. I capelli raccolti rivelavano l’ovale perfetto del viso, i seni devastati da squarci profondi. L’aveva sempre intravista, come un fantasma, ma adesso era sicuro che avrebbe potuto toccarla… accarezzarla… forse persino baciarla.

Ricordava ancora il momento della sua morte.

Come ricordava altrettanto bene il giorno in cui tutto era iniziato. I vecchi attorno al fuoco ambientavano sempre storie del genere in notti piovose, ma era una tranquilla giornata di sole quando qualcuno bussò alla porta.

Dumezìl smise di intagliare un pezzo di legno e vide sua moglie aprire a un mendicante. Il mantello verdastro copriva una figura ingobbita e una barba sporca si intravedeva sotto al cappuccio calato sul viso.

«Salve, mi chiamo Agugio. Secondo gli antichi usi dell’ospitalità, imploro cibo e acqua.»

«Salve, vecchio. Quello è il pane e questo è il vino» rispose Dumezìl in tono brusco.

Il vecchio si sedette e abbassò il cappuccio, rivelando oltre alla barba un cespuglio di capelli grigi e due spesse sopracciglia dello stesso colore. Trangugiò pane e vino fin quasi a strozzarsi.

«Grazie. Permettetemi di ringraziarvi.»

«Non occorre, vecchio.»

«Insisto.» Il mendicante tirò fuori un melograno maturo e lo posò sul tavolo, dopodiché uscì continuando a ringraziare e baciò la mano di Malena.

Nella notte Dumezìl sentì la moglie mugugnare e ansimare. Si svegliò e vide un piccolo serpente strusciarsi sulla donna. Il guerriero lo prese e lo gettò in un angolo della camera, dove crebbe fino a diventare un enorme figura candida con due occhi fiammeggianti. Il fumo si espandeva nella piccola capanna, i maiali che dormivano lì vicino iniziarono a grugnire di agitazione.

«Ti ricoprirò d’oro, fattore, se mi concederai tua moglie.»

Dumezìl prese l’ascia da taglialegna e la lanciò. Il demone rise nel vedere la lama attraversarlo come nebbia.

«Tu osi colpire Ammundari, signore di sogni e incubi, pellegrino del dormiveglia. In questo mondo non posso uccidervi, ma ti giuro, lercio bifolco, che appena chiuderete gli occhi per la stanchezza…» il demone scomparve.

Dumezìl pianse nel ricordare lui e Malena fuggire spaventati, il loro peregrinare per giorni non chiudendo occhio. Versò lacrime nel rivedersi mentre aiutava la moglie, stremata, a sedersi, raccomandandole di non dormire mentre cercava del cibo. Solchi oscuri segnavano gli occhi di entrambi, ma Dumezìl pensò che quelli di Malena restavano stupendi. Aveva ancora davanti quell’immagine, quando urlò di dolore nel ritrovare la moglie stesa immobile sull’erba, con le mani ormai rigide nel trattenere a sé come un amante una strana ascia che le squarciava il petto. Il sangue che continuava a sgorgare, inondando un formicaio lì vicino.

Dumezìl le aprì le braccia e strappò via l’ascia, l’occhio sulla lama iniziò a fissarlo. Tutta la stanchezza accumulata in giorni scomparve e di colpo si sentì riposato.

Azzannasonno. Quella parola gli venne naturale, come la consapevolezza che quell’arma non era del mondo terreno.

Anni dopo, in quella foresta maledetta, Dumezìl stava fissando quella stessa donna da cui aveva preso la sua fidata ascia.

«Tu non sei Malena, tu sei un tentativo disperato di fermarmi.»

Il guerriero indossò l’elmo. Le ali sul cimiero si ripiegarono e gli coprirono gli occhi. Dumezìl entrò in un mondo diverso, nell’ universo d’ombra di Ammundari. Nebbia violastra gli copriva le gambe fino al ginocchio. Dumezìl avanzò in mezzo a tumuli neri e sterpaglie bruciate. Solo al rumore di un ramo spezzato si voltò in alto, su una roccia sporgente.

Ammundari senza occhi,

Ti ammansisce coi suoi trucchi.

Ammundari coi suoi modi,

Ti promette il gran bengodi.

Ammundari Re dei sogni,

Un Re dolce come miele,

Ma tu dagli ciò che vuole,

O morrai assaggiando fiele.

La filastrocca che aveva imparato da bambino gli rimbombava in testa mentre fissava la figura emaciata su quell’altura, la pittura bianca cozzava con la pelle bruna e l’oscurità delle orbite vuote. Dalla testa rasata partiva una lunga coda di cavallo che quasi lo avvolgeva.

«Dunque sei giunto, alla fine.» Il buco senza labbra di Ammundari si muoveva, ma la voce sembra alzarsi quasi dal terreno.

«Così pare.»

«Quella è mia.» Indicò l’ascia.

«Quale miglior modo di morire che non con una tua arma.»

Ammundari sospirò, come indeciso se parlare ancora.

«Non ho mai voluto ucciderla, mi sarebbe bastato mi si concedesse almeno una notte.»

«Sono sicuro che se potesse, sceglierebbe la morte di nuovo.»

«Be’, visto che sei qui, immagino tu condivida la sua scelta.»

Ammundari balzò facendo comparire un’ascia da una nuvola di fumo, Dumezìl saltò indietro e contrattaccò, ma nell’altro braccio del demone comparve uno scudo. L’Azzannasonno rimbalzò sulla protezione di Ammundari e quest’ultimo rispose, ma Dumezìl uscì fuori dalla sua portata. I due si studiavano, girando in tondo.

L’Azzannasonno scattò di nuovo impattando ancora lo scudo di Ammundari. In risposta l’ascia del demone incontrò la lama di Dumezìl. La danza omicida continuò nella sua eleganza colpo su colpo. Le asce erano amanti sempre sul punto di baciarsi.

«Anni, Dumezìl. Anni che non dormi, alimentato dal sonno che hai rubato ai miserabili che hai ammazzato, grazie a un’arma non tua! Non sei diverso da me. Sei solo un bifolco coi poteri di un dio!»

«Forse sarò un bifolco, ma non ero io a bramare qualcosa che non potevo avere!»

All’improvviso Dumezìl agganciò l’ascia di Ammundari con la sua e gliela strappò dalle mani, gettandola lontano, per poi piantargli con un colpo fluido l’Azzannasonno nel petto.

Ammundari cadde senza un lamento.

Dumezìl lasciò il mondo degli incubi e scese la collina. Cavalcò per giorni, finché non arrivò vicino a una pietra. Scese da cavallo, stese una coperta sull’erba, vi mise sopra la sua sacca e si distese. Prima di chiudere gli occhi, lesse la scritta incisa sulla pietra vicino a lui.

Qui dorme Malena. Mie labbra, mio cuore, mio amore.

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