
Quindici anni prima dell’Artus, Steppa a nord
Il carro frantumò la tranquilla monotonia del villaggio.
I cavalli neri che lo trainavano raspavano il terreno, come a richiamare la popolazione verso di loro.
Il cocchiere rimase immobile nella sua corazza di bronzo. L’esperienza gli aveva insegnato che attendere i popolani invece di prendere l’iniziativa aumentava la solennità di quelle occasioni.
La solennità suscitava reverenza.
La reverenza portava maggior mansuetudine.
Una piccola folla si radunò, quello che sembrava il notabile del villaggio si fece avanti.
Solo allora il cocchiere scese dal carro e si levò l’elmo.
«Il Cuore della Montagna ha saputo che una donna del villaggio ha generato due bambini» disse col cimiero sottobraccio.
«Dovete aver ricevuto notizie poco attendibili». Il notabile si strofinò le mani.
«Il Cuore non riceve notizie, Capovillaggio. Il Cuore sa».
Il cocchiere percepì il fremito generale allo scandire di quell’ultima parola.
Il vento soffiava, respinto verso di loro dalle alte montagne all’orizzonte.
Non dovette aspettare molto che uscissero urla e singhiozzi da una capanna, mentre una donna ne usciva con due fagotti.
La donna guardò il notabile, sussurrando un quasi impercettibile Mi dispiace, che fu sentito comunque.
«Ah. Sono i tuoi figli, dunque» disse il cocchiere sorridendo, mentre afferrava i neonati per porli in una cesta nel carro. Il capovillaggio strinse i pugni mentre le urla della donna nella capanna continuavano a levarsi nell’aria.
«Non temere, Capovillaggio. Per i tuoi figli sarà un onore». Il cocchiere si rimise l’elmo, tornando a essere la statua di bronzo di quando era arrivato e salì sul carro. Lo schiocco delle briglie fece da commiato a quella scena.
I cavalli nitrirono e il carro percorse in cerchio la piazza, per dirigersi verso le montagne
Dieci anni dopo l’Artus, Punjab
Il cavallo galoppava nella distesa di campi deserti. Perèndi sentiva il corpo gracile di Wotenòs attaccato al suo, dandogli la sensazione di cavalcare con una bambola. Il guerriero era sicuro che il bambino stesse guardando l’orizzonte, senza davvero vederlo. O, forse, era l’unico in tutto il Punjab a vedere le cose in realtà.
Le acque dell’Iravati scorrevano placide accarezzando i sassi della riva, poco distante dalla strada battuta.
L’Artus non si invoca con leggerezza. Avete mai visto usare un’ascia per uccidere un insetto?
La voce del Maestro sembrava mutuare dallo scrosciare dei flutti. Conoscendolo, Perèndi non si sarebbe stupito di un simile portento.
No, Maestro. Non si eliminano insetti con l’ascia. E, dunque, in quel villaggio devono avere un problema più grosso.
Come se essere l’ultimo avamposto Ario in territorio Melhuka non fosse già un problema per chi li aveva chiamati.
Perèndi tirò le redini e si inerpicò per un sentiero costeggiante una collina. Dopo quelle che sembravano ore, raggiunse il villaggio. Scese da cavallo, portando in groppa il bambino fino al portone sorvegliato.
«Chi siete vo…». La guardia si interruppe guardando il pentagono verde sulla fronte del bambino. Perèndi si tolse l’elmo rivelando lo stesso simbolo sotto la chioma bruna. La guardia subito si prostrò e congiunse le mani a formare un cerchio.
«L-lode all’Artus. Il Capoclan vi aspettava».
«E noi siamo giunti. Portaci dal tuo signore».
La guardia li condusse verso la capanna più grande. Perèndi aiutò il bambino a scendere da cavallo e scostò la pelle in entrata.
Il caldo era quasi soffocante. Pelli erano sparse dappertutto e amuleti erano appesi dovunque potesse appendersi qualcosa. Di fronte a lui era seduto un vecchio rugoso ma ancora dall’aria prestante, un uomo massiccio che trasmetteva autorità. Perèndi passò lo sguardo da colui che era di certo il capo alla sua destra, al ragazzo che ne era la copia con vent’anni di meno sulle spalle.
«Buona vita» disse Perèndi, sedendosi di fronte al Capoclan.
Ma la vita non sembrava affatto buona in quel buco di niente all’ombra della montagna. E, se non fosse intervenuto, tra poco non sarebbe stata nemmeno più vita.
«Buona vita a voi, maghi» disse calcando su quell’ultima parola. «Mi chiamo Ansàn». Il Capoclan congiunse le mani a cerchio, sfiorandosi appena le dita. Accennò solo un rapido sguardo a Wotenòs.
Ci odia. Chissà che sforzo dev’essere stato chiederci aiuto.
Il figlio del Capoclan passò lo sguardo tra Perèndi e suo padre e si prostrò urlando «Io invece sono Anasi! Lode all’Artus!».
Il figlio ha convinto il vecchio a chiamarci, dunque.
Gli Sciamani dell’Artus sono da sempre temuti, ma non altrettanto amati. Il potere non genera questo tipo di sentimenti, come gli ripeteva sempre il Maestro.
Perèndi si voltò verso il bambino.
«Mi chiamo Perèndi e lui si chiama Wotenòs. Noi Sciamani non siamo maghi, come quelli che vi hanno venduto la paccottiglia che vedo appesa qui. Gradirei ci chiamaste coi nostri nomi».
«Non sono come mio figlio, per me rimanete… maghi. Veniamo al nostro problema» rispose brusco Ansan.
«Da quanto tempo va avanti?»
«Troppo». Perèndi intuì che diceva il vero dalle sue costole visibili e dalle sue guance scavate.
«Perché non ve ne andate? Questa terra offre altre possibilità».
«Mio padre strappò questa terra ad Harappa col bronzo e col sangue, non sarò io il capo che ha costretto il proprio villaggio a migrare. E, comunque, ho la sensazione che questa sventura ci seguirebbe».
«Va bene. Ve ne libererò».
«Quale sarà il prezzo?»
«Solo dopo aver compiuto la missione, il prezzo sarà chiaro. Non prima. Conoscete il Codice Artus, qualunque sarà il prezzo, dovrà essere pagato. Senza contestazioni».
«Certo, senza contestazioni» rispose, stringendo gli occhi.
Perèndi si alzò e fece per uscire, ma vide che il bambino non lo seguì.
«Wotenòs, da me».
Il bambino posò lo sguardo vacuo su Perèndi e si alzò, ma all’improvviso corse fuori dalla capanna, come si fosse ricordato di una cosa importante.
L’ombra del monte si estendeva su tutto quell’ammasso di capanne. Perèndi vide Wotenòs correre fuori dal terrapieno che circondava il villaggio, verso quello che una volta doveva essere un campo di frumento. Si piegò per prendere una manciata di terra secca.
Perèndi si precipitò verso di lui un attimo dopo che il bambino ebbe messo il terriccio in bocca. Wotenòs urlò tenendosi le spalle e dondolandosi.
Perèndi si inginocchiò davanti a lui, spostandogli una ciocca di capelli.
«Lo sai che non devi farlo senza il mio controllo! Guardami… guardami!» Lo scosse finché non ne incrociò gli occhi lattei.
«Arido… vita portata via». Wotenòs biascicò poche parole.
«Un Mangiamessi?» domandò Perèndi.
Il bambino si divincolò e gli diede le spalle.
Era stato duro con lui, troppo.
«Sei… stato bravo». Fece per accarezzargli la testa, ma ritrasse la mano.
Un Mangiamessi, qualcosa di ben peggiore della semplice carestia.
Perèndi inspirò profondamente vedendo quella macchia di terra stanca che si estendeva a perdita d’occhio tutto attorno al villaggio. Vuota come le steppe da cui provenivano tutti loro.
Venne raggiunto dal Capoclan.
«Da quando è iniziata?»
«Da almeno sei lune».
«Domani andremo alla vostra necropoli. Scoperchieremo tutte le tombe».
«Ma è… blasfemo!» quasi sputò l’ultima parola. «Se non risolviamo questa carestia, non resterà nessuno a scandalizzarsi per le tombe aperte, ma solo cadaveri utili per riempirle. Io e Wotenòs ci ritiriamo nell’alloggio preparato per noi, il viaggio è stato lungo».
«Vi farò portare del cibo».
«Niente di cotto. Noi ci cuociamo il cibo».
Perèndi prese per mano Wotenòs e si diresse verso la capanna che gli venne indicata.
Il giorno dell’Artus, Cuore della Montagna
«Vieni, lumaca!»
I due bambini si precipitarono giù per le scale del dormitorio, Yarin quasi si schiantò sulla parete rocciosa del pianerottolo, ma con l’elasticità che solo i bambini possiedono scartò a destra, continuando a sfrecciare.
La milza gli faceva male, ma si sentiva libero. Quei momenti erano spiragli di spensieratezza in una sequenza infinita di lezioni e addestramento.
Non sentiva più suo fratello alle spalle, accelerò finché non piombò nel grande salone sotterraneo, correndo a destra e a sinistra per schivare gli altri scolari in meditazione. Il cuore batteva il proprio ritmo come un tamburo di guerra, quando passò l’arcata e scese nel giardino pensile. Si fermò a contemplare quella gemma fertile in mezzo alle montagne, quando Yasha lo raggiunse.
Yarin si specchiò negli occhi identici di suo fratello. Correre con lui gli piaceva, perché aveva sempre l’impressione di andare talmente veloce da sdoppiarsi, lasciandosi dietro per qualche minuto la propria immagine riflessa. Ovvio che non lo avrebbe mai detto a suo fratello, pena il picchiarsi su chi era il gemello più importante, come sempre.
I due ragazzini scesero in giardino a buttarsi sull’erba, il cielo era terso come spesso accadeva tra quelle cime. Ogni tanto si scambiavano uno sguardo e poi osservavano gli altri bambini giocare o riposarsi.
Vedere tutti gli allievi insieme dava un effetto straniante, sembrava che ogni bambino avesse uno specchio, senonché quella che doveva essere il semplice riflesso si muoveva con una volontà propria. Yarin aveva visto questo tutta la vita e non riusciva a immaginare che una persona potesse avere un fratello diverso da lui.
All’improvviso una voce risuonò nel giardino per chiamare i bambini a pranzo.
Tutti si alzarono e si misero in fila indiana verso l’entrata del refettorio.
Le coppie di bambini presero posto alle tavolate che davano su un palco rialzato. Un fratello per ogni coppia si diresse in cucina a preparare il cibo.
«No, tu no». La voce che li aveva chiamati stavolta venne accompagnata da una mano rugosa che bloccò Yarin.
Il ragazzino si voltò a guardare il vecchio volto contornato da una barba bianca e indugiò sulla striscia blu che era tatuata da orecchio a orecchio, giusto sotto gli occhi dorati. Non era increspata come quando il Maestro si arrabbiava, ma non gli fu un conforto.
Se non doveva essere sgridato, poteva essere solo un’altra cosa.
La prova poteva capitare in qualunque momento, gli era stato ripetuto spesso, ma solo allora percepì la permanenza di quella scure che era sempre stata sulla loro testa da quando erano arrivati in fasce una vita fa.
Il bambino si girò verso suo fratello, sgranando gli occhi.
Dieci anni dopo l’Artus, Punjab
Perèndi si svegliò di colpo, come faceva spesso.
Aprì gli occhi giusto in tempo perché lo venissero a chiamare. Svegliò Wotenòs e uscì dalla capanna.
Accompagnato da Ansàn e suo figlio raggiunsero presto la necropoli con altri uomini del villaggio. Monumenti in legno colorato erano disposti quasi a caso su una distesa erbosa, all’ombra della collina. Gli alberi sullo sfondo chiudevano in un abbraccio quello spazio appartato riservato il mondo dei morti.
Le ombre dalla foresta si erano fatte corte quando scoperchiarono l’ultima tomba, senza trovare niente di strano.
«L’origine deve essere in una tomba!» sbottò Perèndi.
«Be’, forse…». Ansàn sembrò incerto. «Quando mio padre giunse qui con il suo clan combatté contro i Melukha che vi abitavano e ne uccise molti. I figli li abbiamo schiavizzati, li hai visti servire al villaggio o li impiegavamo nei campi, quando ancora si poteva coltivare. Mio padre mi raccontò che i morti li buttò in una fossa comune nel bosco».
Il gruppo si inoltrò tra gli alberi. Man mano che avanzarono Perèndi notò che la terra si faceva sempre più scura, finché non li accolse una grande depressione piena di teschi e ossa, che convergeva come un vortice verso una voragine al centro.
«La fossa comune… riaperta!» disse il Capoclan, incredulo.
«Come pensavo. Io e Wotenòs ci caleremo e risolveremo questa situazione una volta per tutte».
Appena scesero nel buco, il buio li avviluppò.
Perèndi acuì i suoi sensi sovrannaturali, prese l’ascia e procedette tenendo per mano Wotenòs.
All’improvviso dei maligni occhi giallastri bucarono l’oscurità.
«Wotenòs, mettiti al riparo!»
Perèndi si trovò di fronte un enorme ratto dagli artigli grondanti pus e umori verdi. Percepì che non stava vedendo che l’appendice disgustosa di qualcosa di gran lunga peggiore, come una radice affiorante di un albero gigantesco.
Ma era una radice che andava comunque tranciata per poter proseguire verso il tronco.
Perèndi si mosse.
Il ratto scattò verso di lui, ma il guerriero scartò a destra e calò l’ascia.
La coda incrostata di una sostanza putrescente più dura del bronzo guizzò a bloccare il colpo. Il mostro balzò su Perèndi avvicinando i denti al suo viso. L’alito sapeva di corpi bisunti e accalcati, lo sciamano lo spinse via con le gambe e si rialzò, scartò di nuovo a destra per evitare le fauci e calò l’ascia.
La coda saettò di nuovo, ma il guerriero la troncò di netto dopo essere rotolato alle spalle della belva. La caverna quasi tremò al grido di dolore del mostro.
Perèndi sollevò il roditore sopra la testa e con i muscoli contratti quasi allo spasmo lo scaraventò su uno spuntone roccioso. Recuperò l’ascia e lo decapitò prima che la belva esalasse l’ultimo respiro.
Sfinito, andò nel buco a recuperare il bambino.
«Dai, andiamo» gli sussurrò prendendogli il viso tra le mani insanguinate.
Il giorno dell’Artus, nel Cuore della Montagna
La sala sotterranea accoglieva i suoi tre ospiti nella propria atterrente immensità.
Solo le torce alle pareti permettevano a Yarin di distinguere suo fratello poco distante da lui e il Maestro davanti a loro che li osservava, con le mani giunte dietro la schiena.
Yarin intravedeva oltre il Maestro un altare che sembrava quasi una massa informe, come fosse stato fuso da qualche fuoco divino. Vi intravedeva un pentagono inciso
«Molto bene. Rimanete qui» disse il Maestro, allontanandosi da loro. Yasha si era immaginato quel momento molto più formale, ma la sua educazione gli frenò la lingua.
I fratelli rimasero inginocchiati per un tempo indefinito. Che la stanza avesse anche il potere di bloccare il flusso del tempo?
«Cosa succederà, Yarin?»
«Non lo so, fratello. Stai attent…». Un ringhio profondo venne da dietro l’altare. Il rumore di artigli che raschiavano la roccia arrivò alle orecchie dei ragazzini e anticipò il volto di una tigre con le zanne snudate.
Il felino uscì dal proprio nascondiglio, la luce delle torce rendeva ancora più spaventosa la sua figura. Yarin sentì l’aria attorno a sé quasi rovente, ma allo stesso tempo voleva liberarsi del freddo glaciale che si era impossessato delle sue mani. Non aveva dubbi che Yasha fosse nella stessa situazione.
La tigre si rivolse a quest’ultimo, avvicinandosi quasi annoiata. Il felino si portò a meno di due dita dal viso di Yasha, che iniziò a recitare sottovoce una litania, strofinando una pietra azzurra tra i palmi.
La tigre interruppe il suo ringhio, odorò l’aria e cambiò direzione, dirigendosi verso Yarin.
Dove ha preso quella pietra? Il ragazzo iniziò a tastare il pavimento attorno a lui e prese con la destra una pietra che immaginò uguale a quella del fratello. Con la sinistra tastò invece un manico.
La tigre giunse davanti a Yarin proprio in quel momento e si sollevò per aggredirlo.
Il ragazzo si abbassò e piantò con un movimento fulmineo l’ascia che aveva trovato nel ventre del felino. Rotolò indietro e si alzò nel tempo di un respiro per decapitarla con un colpo secco.
All’improvviso le torce vomitarono lingue di fuoco immense che rischiararono tutto il salone. L’altare iniziò a pulsare di una luce fosforescente, facendo risaltare il pentagono nero al suo centro.
«Bene. È stato deciso». Il maestro ricomparve nella stessa posa, come non fosse successo nulla.
Guardò quasi con candore il cadavere della tigre.
«Maestro, la nostra educazione è stata improntata alla disciplina e a non fare domande inopportune, ma devo chiederlo: cosa è stato deciso?». Yarin non aveva più resistito dal tacere.
«Ditemi, allievi. Cosa rappresenta il pentagono dell’altare?»
I fratelli ripeterono all’unisono la lezione che avevano imparato a memoria da quando erano abbastanza grandi da apprendere:
Arte della Divinazione, per guardare oltre l’orizzonte.
Arte dei Numeri, perché sono il linguaggio della materia.
Arte delle Parole, perché saper dire una cosa vuol dire aver potere su di lei.
Arte delle Evocazioni, perché non tutto l’aiuto che possiamo ricevere viene da questo mondo.
Arte della Natura e dei Talismani, perché il Piano sensibile può essere la nostra arma.
Queste sono le Cinque Arti Sciamaniche, insegnate a noi Arii dall’alba dei tempi nel Cuore della Montagna, tempio di saggezza.
«Molto bene. Saprete pertanto dirmi perché il pentagono è costituito da cinque asce intrecciate».
«Simboleggiano il nostro addestramento nel combattimento e la nostra profonda conoscenza dell’Arte dell’Ascia Sciamanica» rispose Yasha.
«Esatto. Voi siete stati addestrati in tutte le Arti, siete eccellenti in tutto ma sommi maestri in nulla. Questa prova serviva a capire le vostre inclinazioni e mi sono state mostrate: tu, Yasha, hai usato l’Arte dei Talismani per dissuadere la tigre dall’attaccarti mentre tu, Yarin, hai usato la forza bruta per eliminare il nemico.
Ora, come due pezzi di una gemma perfetta, verrete ricongiunti nell’Artus, la Reciprocità che tutto governa. Venite, figli miei, mettete le mani sul pentagono».
I due ragazzi si avvicinarono. Si guardarono alla luce pulsante dell’altare che trasfigurava la loro espressione di curiosità, mista a paura.
Posero le mani.
Tutto divenne buio.
Yarin riaprì gli occhi, ma fu come se fosse la prima volta in vita sua. Sentiva gli spifferi d’aria nella sala come fossero uragani, le fiamme delle torce lo accecavano come si trattasse del sole.
«Ti ci abituerai, Yarin. Tra un po’ riuscirai a governare i sensi ultra-sviluppati e le capacità fisiche che ti rendono un semidio». La voce del maestro lo ridestò del tutto e Yarin si alzò a sedere.
Subito si voltò verso il fratello ancora svenuto e corse da lui. Yasha aveva sulla fronte un pentagono verde ed era sicuro di avere lo stesso simbolo anche sulla propria. Iniziò a smuoverlo e schiaffeggiarlo per svegliarlo.
Yasha aprì gli occhi, ma era come non ci vedesse.
«Fratello, rispondi! Siamo semidei ora! Alzati».
L’ombra del Maestro coprì i due ragazzi.
«Yarin, hai detto bene, entrambi siete diventati semidei, ma in maniera diversa. Ogni cosa ha un costo. Tu adesso hai la forza di due uomini se non di più, hai i sensi di una belva feroce, crescerai molto presto e vivrai almeno il doppio di una persona normale. Però hai perso qualunque Arte Sciamanica che non sia l’Arte dell’Ascia. Tuo fratello, per contro, non crescerà mai, ha perso qualunque capacità intellettiva che non sia basilare, ma è diventato un catalizzatore di potenza ultraterrena, l’asse portante di tutte e cinque le Arti Sciamaniche. Dovrai occuparti di lui come fosse un eterno bambino, ma ti sarà utile».
Yarin si alzò e sferrò un pugno dove si trovava il Maestro, che lo schivò con tranquillità. Il colpo a vuoto provocò un piccolo cratere sul pavimento.
«AVETE RESO MIO FRATELLO UN POVERO DEMENTE!» urlò ed ebbe l’impressione di far tremare il salone.
«Ho reso tuo fratello uno degli esseri più benedetti del Creato, lontano dai mali del mondo terreno eppure con i poteri per dominarlo, con la tua guida. Ora avverrà la seconda parte del tuo addestramento: ti insegnerò a controllare tuo fratello e a sfruttarne i poteri. Odiami pure, ma non cambierà nulla. Puoi rinunciare e andartene, ma elimineremo tuo fratello perché diventerebbe come una lama sempre sguainata, senza alcun fodero in cui essere riposta. Troppo pericoloso».
Yarin prese il fratello in braccio e si diresse verso l’uscita, non degnò di uno sguardo il Maestro ma sapeva che aveva ragione. Ormai nulla sarebbe cambiato e doveva imparare a convivere con tutto questo.
Quando furono alla porta sentì la voce del Maestro.
«Perèndi e Wotenòs. L’Artus esige che questi siano i vostri nuovi nomi».
Yarin si voltò.
«Così sia».
Dieci anni dopo l’Artus, Punjab
Perèndi e Wotenòs proseguirono per lo stretto passaggio che si inoltrava sempre più in profondità, un freddo innaturale penetrava nelle ossa.
All’improvviso il cunicolo si allargò in una caverna dalla forma circolare. Liquidi maleodoranti macchiavano le pareti. Dall’ammasso di muco verdastro ammassato sul fondo emerse una gigantesca vecchia, dalle cui piaghe aperte uscivano ed entravano topi e scarafaggi. Ratti grandi come cani scorrazzavano lì intorno. Il guerriero notò le lingue di muco limaccioso che collegavano la vecchia al soffitto, come il pupazzo di qualche empio burattinaio. Percepiva l’aria carica di energia bloccata e assorbita dalla Mangiamessi. Avrebbe dovuto liberare quella forza vitale come si sarebbe sbloccato un fiume ostruito.
Perèndi allontanò Wotenòs da lui e si piazzò a gambe larghe con l’ascia in pugno.
La mostruosità mosse i suoi passi con lentezza, come fosse certa dell’esito dello scontro e non volesse affrettarne la fine. Lo Sciamano non era dello stesso avviso e saettò verso la Mangiamessi calando l’ascia dall’alto.
Perèndi si aspettava di sentire il contraccolpo di muscoli tranciati e ossa scheggiate, invece nulla. La lama affondò nell’ ammasso di carne. Staccò l’ascia, ma una mano raggrinzita lo colpì al volto. Perèndi riuscì ad ammortizzare in parte il colpo muovendosi a destra e caracollò vicino a suo fratello, che lo guardava attonito. Si toccò l’elmo ammaccato su cui non sentiva più inciso il simbolo di protezione.
Un altro colpo su questo lato e sono morto.
Guardò Wotenòs, il pentagono verde sulla sua fronte e sospirò.
Si rimise subito in piedi.
«Wotenòs, emergi!»
Il simbolo sulla fronte del ragazzino si espanse, un’ombra calò su di lui. Gli occhi lasciarono spazio a due orbite buie e un ghigno oscuro senza denti e labbra comparì su suo volto.
Una sensazione famigliare di bruciore pervase la fronte di Perèndi. La sua vista si fece ancora più acuta.
L’attivazione del legame Artus gli permise di notare dei simboli cremisi sul collo della megera.
Il guerriero attese che la vecchia si scagliasse su di lui e scartò a destra. Il mostro inciampò sulle ginocchia e Perèndi colpì al collo. Prima che la testa toccasse terra, dei filamenti carnosi serpeggiarono dal moncone a riprenderla per rinsaldarla sul collo. Perèndi Riuscì però a leggere i simboli.
«Fratello! Blocca la Mangiamessi!»
Wòtenos allargò il buco nero che aveva per ghigno e ridendo gettò dei sassi in un cerchio che aveva disegnato.
La terra sembrò liquefarsi sotto i piedi della megera, che inciampò in avanti. Le gambe e le braccia affondarono in sabbie mobili, che ritornarono subito roccia.
Perèndi corse verso suo fratello e scrisse sulla sabbia i simboli che aveva visto incisi sul collo del mostro.
«Decifrali e usali, io nel frattempo la terrò impegnata».
La Mangiamessi urlò e i filamenti di muco che la collegavano al soffitto iniziarono a pompare con forza maggiore il loro nutrimento. Il mostro iniziò a ingrandirsi e strappò via braccia e gambe dalla morsa della terra.
La vecchia provò ad artigliarlo, ma Perèndi si spostò a sinistra per affondare la lama nel suo fianco. Il mostro ingigantito si curava ancora meno di prima delle ferite e lo colpì con l’avanbraccio scaraventandolo al muro.
«Ah! Fratellino, come farai adesso? Hai già usato molte delle mie Arti, il costo sale». La voce metallica di Wotenòs sembrava provenire da ogni angolo e da nessuna parte.
«Wotenòs, Arte della Natura, Legno. E sbrigati a decifrare quei simboli o non ti pagherò». Perèndi si rialzò ignorando la risata melliflua di Wotenòs.
«Trallalalalà grosse ricompense per il possente Wotenòs! Trallalalalà!». Il ragazzino gettò delle schegge di legno nel cerchio.
Una pianta nacque dal suolo avvolgendo la lama dell’ascia per poi sbriciolarsi, una spessa corteccia ricopriva il filo tagliente.
Perèndi corse verso la vecchia e con un movimento fluido le passò in mezzo alle gambe urlando
«Wotenòs! Fuoco!».
Il ragazzino quasi controvoglia buttò dei tizzoni per terra e schioccò le dita. La corteccia sulla lama prese fuoco e Perèndi abbatté come tronchi le grosse ginocchia della megera.
La Mangiamessi crollò su sé stessa, il guerriero balzò con l’ascia fiammeggiante sopra di lei e incenerì i filamenti che la legavano al soffitto.
Come pensavo. Col fuoco a rigenerazione è più lenta.
Perèndi continuò a muoversi sempre più veloce troncando sul nascere ogni tentativo di rigenerazione. La Mangiamessi urlava di esasperazione mentre si faceva sempre più secca a causa del mancato nutrimento dal suolo sovrastante. Provò ad agguantare Perèndi che le tagliò la mano e continuava a danzare sopra di lei bruciando e tranciando.
Iniziò a rallentare il ritmo nonostante la propria forza. Diede un’occhiata a suo fratello che sembrava leggere pergamene invisibili.
Il sudore colava sotto l’elmo di Perèndi che ormai non riusciva più a tenere il passo con la rigenerazione della Mangiamessi. Ormai era tornata a nutrirsi dal suolo e ricominciava a crescere, sebbene ancora senza gambe.
«AH!» Wotenòs si alzò e stese le braccia verso il mostro.
Dei contorni di luce delineavano una pergamena davanti a lui
«Imqut Ul Ustamhir!»
La vecchia marcescente urlò e si sbriciolò, rivelando un lungo verme quasi etereo e la cui fine si perdeva in una specie di nebbia.
Perèndi lo tranciò a metà prima che il Mangiamessi si ritirasse nel suo Piano. Poi cadde a terra ansimante e si tolse l’elmo, guardando suo fratello
Wotenòs lo guardò con tutta la calma del mondo, per quanto quei buchi senza futuro al posto degli occhi potessero guardare.
«Lo sai cosa voglio, fratellino. Mi hai chiesto artifici potenti, pertanto potrei chiedere anche di più, ma mi accontenterò. Giusto perché ti sono affezionato. D’altronde lo avevi avvertito».
I fratelli ripercorsero la strada e uscirono dal buco con l’aiuto degli uomini che lo stavano aspettando.
Perèndi guardò il Capoclan che stava aspettando seduto su una roccia con suo figlio e si diresse da lui con Wotenòs.
«Non c’è più nulla che berrà la fertilità di questa terra. La nostra missione si è compiuta. Porterete una parte del vostro futuro raccolto al Cuore della Montagna, ma ora va pagato il prezzo dell’Artus».
Ansàn fissò Perèndi, evitando di guardare nel buio ghignante del volto di Wotenòs.
«Ve lo avevo detto di parlarci con maggior rispetto». L’ascia saettò decapitando il Capoclan.
«Bravo, fratellino! Il prezzo è pagato». Il volto di Wotenòs trasmutò tornando il ragazzino apatico che tutti avevano visto finora.
Perèndi gettò la testa del capovillaggio a suo figlio, raggelato.
«Congratulazioni, nuovo capo».
I fratelli si diressero verso il loro cavallo.
Ogni cosa ha un costo. Avevi proprio ragione, dannato Maestro.
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