Al cospetto dei Grandi Antichi – Potenza e verità di H.P. Lovecraft

«Noi non cerchiamo di disorientare, non esploriamo i lontani sobborghi della realtà; al contrario, tentiamo di collocarci  al centro. Noi pensiamo che proprio al centro della realtà l’intelligenza, per poco che sia iperattivata, scopre il fantastico. Un fantastico che non invita all’evasione,  ma  piuttosto ad una  più profonda adesione.»

(Pauwels & Bergier, Il mattino dei maghi)

 

  1. Note a margine di un testo esplicito.

Lo pseudobiblion di recente pubblicazione presso i tipi di Moscabianca Edizioni, Il codice delle creature estinte. L’opera perduta del dottor Spencer Black[1], scritto e illustrato da E. B. Hudspeth, ci permette di tornare ad analizzare l’opera del Solitario di Providence da una prospettiva diversa, forse eretica. Senza nulla togliere allo spessore del testo di Hudspeth, che certamente merita un’analisi a sé, riteniamo sia interessante porlo in confronto con i testi di Lovecraft: confronto che, naturalmente, non può prescindere da una messa in relazione che è, in automatico, una disposizione su di un medesimo piano – e questa è la più grande concessione che lasciamo all’artista del New Jersey.

La graphic novel, se così possiamo definirla, è divisa in due parti, La vita del dottor Spencer Black e il Codex extinctorum animalium. La prima si presenta come il racconto biografico di Black, mentre la seconda è il magnum opus dello scienziato, in cui egli illustra i suoi studi, attraverso bozze, note e disegni anatomici, su animali quali ad esempio la Chimæra incendiaria, il Pegasus gorgoneus, l’Harpya erinys ecc.

La vita del dottor Spencer Black. — (Seconda metà del XIX secolo) Spencer Black è figlio del dottor Gregory, un professore di anatomia che, per condurre le proprie ricerche, è costretto ad affidarsi ai resurrezionisti, ovvero a coloro che trafugano salme dai cimiteri col fine di rivenderle alle scuole di medicina; a volte, tuttavia, data l’indisponibilità del mercato, è lo stesso docente a disseppellire i cadaveri coll’aiuto dei figli Bernard e Spencer, il quale si ritrova così a confrontarsi col sacrilegio e con la morte ovvero con l’assoluta assenza di Dio, quel Dio il cui braccio, nell’immaginario del bambino, «era sempre teso e pronto a colpire».

Alla morte del padre, sopraggiunta nel 1868 a causa del vaiolo, Spencer prende la decisione di studiare medicina e, in pochi anni, diventa uno degli studenti più brillanti della facoltà, tanto che viene reclutato all’interno del Progetto C, un programma chirurgico dedicato all’analisi e alla correzione dei difetti di nascita operabili. Una nota di Black, scritta in questo periodo nel proprio diario, è particolarmente significativa:

Non ho mai creduto alla concezione secondo la quale Dio e la natura rispetterebbero soltanto alcune leggi, tra cui quella della funzionalità. Ho dovuto lottare contro l’idea che quel congegno perfetto che è il nostro corpo sia in grado di fallire. Com’è possibile che un organismo muti e abbandoni uno dei suoi compiti specifici senza sostituirlo con nessun altro? Si tratta di principi fondamentali che non possono essere ignorati per poi ricorrere a parole barbare come “deforme” o “malato”. Limitarsi ad affermare che un soggetto è disfunzionale significa negargli i vantaggi di una nuova identità. D’ora in poi analizzerò le origini profonde del dubbio che mi tormenta: perché il corpo può avere forme diverse?[2]

Come si vede, la teoria di Black è, in nuce, quella che sarà poi sviluppata da Georges Canguilheim sulla normatività del normale e del patologico:

Nessun fatto definito normale, in quanto divenuto tale, può usurpare il prestigio della norma di cui esso è espressione a partire dal momento in cui le condizioni nelle quali esso è stato riferito alla norma non sono più date. Non esistono fatti normali o patologici in sé. L’anomalia o la mutazione non sono in se stesse patologiche. Esse esprimono altre possibili norme di vita. Se queste norme sono inferiori, quanto a stabilità, fecondità, a variabilità della vita, alle norme specifiche precedenti, esse verranno dette patologiche. Se eventualmente queste norme si rivelano, nello stesso ambiente, equivalenti, o in un altro ambiente superiori, verranno dette normali. Esse trarranno la propria normalità dalla propria normatività. Il patologico non è l’assenza di norma biologica, bensì una norma altra ma respinta per comparazione dalla vita.[3]

A questa concezione, però. In Black si accompagna l’idea che l’uomo sia la somma delle proprie componenti evolutive, espressa nell’articolo L’essere umano perfetto, di cui l’autore della biografia ci dà un riassunto:

Secondo lui, l’anatomia umana per come la conosciamo era stata “assemblata” nel corso del tempo attraverso l’aggiunta occasionale di alcuni pezzi e, soprattutto, la perdita di altri. Scostandosi dalle teorie consolidate sull’evoluzione e sulla selezione naturale, la visione di Black non considerava le malformazioni alla stregua di incidenti, bensì come un tentativo del corpo di ricreare elementi presenti migliaia di anni prima. Secondo Black si trattava dell’unica risposta plausibile ai dilemmi della teratologia.[4]

Di qui, la convinzione secondo cui «le cosiddette creature mitologiche fossero state un tempo delle specie a tutti gli effetti», tracce delle quali «si manifestavano a volte attraverso tratti latenti, ovvero in determinate malformazioni congenite» (ivi). Il Codex extinctorum animalium dà atto, con puntuali studi anatomici, di questa teoria, e in sé tutta la vita di Black non sarà che un lungo, tragico tentativo di dar ragione di essa.

Ma fermiamoci qui.

  1. Lovecraft, scoliaste.

A livello strettamente narrativo, il libro di Hudspeth non sembra avere nulla a che fare con Lovecraft, eccetto – si direbbe – che per la messa in reale di un’origine fantastica: se qui l’uomo discende da specie, ora estinte, di cui non rimane traccia che negli almanacchi e nei bestiari del fantasy, lì la creazione dell’universo si deve ad Azathoth, che è appunto detto essere il «Signore di Tutte le Cose»[5]. Ma è, effettivamente, poca cosa, specie considerando l’enorme mole di scritti che, allora, potrebbero essere messi in relazione a partire da un espediente tutto sommato frequente, noto, nella letteratura del fantastico. Tuttavia, proprio la lettura del libro di Hudspeth ci ha portati a considerare diversamente i racconti di Lovecraft, e ciò, almeno in un primo momento, grazie a una sensazione di mancanza, di estasi interrotta. Infatti, Il codice delle creature estinte. L’opera perduta del dottor Spencer Black si presenta già come pseudobiblion, è confezionato come tale, sicché la finzione, sia pur presa per vera, attutisce quel «sense of wonder», che pure s’innesca, specie nella seconda parte, ma non detona. In Lovecraft, invece, avviene esattamente il contrario: anziché comporre il Necronomicon, egli vi scrive fiumi di parole attorno, ed è da qui che deriva la potenza echeggiante dei suoi racconti, i quali, a loro volta, devono essere considerati come brandelli, tasselli di un mosaico la cui totalità non viene mai a darsi.

Com’è stato più volte ribadito, molto del successo di HPL è dovuto alla composizione di un ciclo, quindi a una rete che non si limita ai singoli brani ma questi si compiono nell’espressione della propria incompiutezza, un’incompiutezza che, loro intrinseca, permette e, anzi, costringe a continui rimandi, relazioni e allacciamenti, definendo così un paesaggio, se non addirittura un panorama, nel quale sono variabilmente inquadrati e che è impossibile abbracciare nella sua totalità. Meglio ancora, in HPL non si dà una totalità: la totalità è tolta a favore di tracce che, senz’altro, rinviano a qualcosa di ulteriore ma di cui non è mai data, né definita, alcuna compiutezza. A questo proposito, siamo del parere che molte delle suggestioni che si ricavano dai suoi racconti siano dovute a quella strana, inquietante sensazione che Lovecraft sappia più di quanto dica, descriva solo brani, porzioni di qualcosa che deborda dalla pagina.

Non vogliamo, in questa sede, entrare nella vexata quæstio delle influenze lovecraftiane, ma è giusto essere precisi e, visto che il contesto lo permette e, quasi, invita a farlo, dare un paio di coordinate dell’altezza in cui ci troviamo con questo scritto nell’arco dell’annoso problema.

Com’è noto, due[6] sono le correnti di pensiero circa le influenze lovecraftiane. La prima, forse la più ovvia, di sicuro quella più comunemente accettata, è che esse non siano altro che frutto di un’immaginazione vivida e che quindi il Solitario di Providence sia (soltanto) uno scrittore dell’orrore; la seconda, più ardita, vede Lovecraft come una sorta di «mago inconscio», il che significa che i suoi testi siano stati influenzati, a livello inconscio, da entità altre[7].

In questo quadro, la sensazione che qualcosa debordi dalla pagina può essere spiegata dalla maestria visionaria dell’autore, che, da buon scrittore, immagina uno spazio-tempo complesso di cui non restituisce che un pezzo (l’azione del racconto), il quale è tanto più potente tanto più non è esaustivo ma va a inserirsi in una cornice più ampia, che penetra e da cui è compenetrato – cornice che, facendogli da sfondo, dà realtà o quantomeno verosimiglianza allo stesso; oppure, quella percezione rinvia a un sistema eterogeneo: che qualcosa debordi dalla pagina implica che la finzione, contenuta nella pagina, si esplichi oltre il suo spazio bianco, che, quindi, la finzione intersechi la realtà, vuoi perché sia la realtà a invocarla (tesi del mago inconscio) o per una qualche, inquietante, necessità della finzione di divenire reale (ipotesi di Cerchi), se non addirittura di produrla, la realtà (hyperstition[8]).

Qualcosa deborda dalla pagina. Cosa deborda dalla pagina? Banalmente, un profluvio di pseudo-Necronomicon, la cui realtà, effettiva e incontrovertibile, è quella finanziaria delle case editrici; ma debordano anche le sette, gli ordini e i rituali occulti che, improvvisamente, proliferano. E, se è davvero inquietante constatare come dalla stessa fonte si originino gli elementi più antitetici, ciò è dovuto, a nostro avviso, dalla posizione di un falso problema o, meglio ancora, dalla messa in atto di un dispositivo nel modo sbagliato. Indubbiamente, la finzione lovecraftiana è efficace, producendo essa degli effetti concreti nella realtà, ma di questo si può dire di tante altre opere, letterarie e non. Ciò che è peculiare di Lovecraft è come questo avvenga. Infatti, posto che la condizione di possibilità della realtà sia la finzione, bisogna anzitutto chiedersi come mai ciò avvenga—e ciò avviene perché Lovecraft, di suo, non facesse altro che opera di scoliaste.

  1. Afasia, hyperstition, e «una qualità positiva del buio».

La potenza dei racconti del Ciclo, come abbiamo visto, è da ricercare nei loro rinvii, nei continui rimandi, singhiozzi, afasie che ne contestualizzano un panorama ulteriore, di cui il racconto, al massimo, non offre che una prospettiva. Una tra le tante. Tale paesaggio, comunque, non viene mai, definitivamente, a darsi; lo sfondo che perennemente si ritrae per lasciar spazio a ciò cui fa dà sfondo, l’azione del racconto, è qualcosa d’inagibile, ma proprio questa inagibilità rende possibile il racconto, la finzione. Il che fa dello sfondo la realtà? Non necessariamente, e comunque non importa (almeno, non qui). Quel che importa è come Lovecraft mantenga questo sfondo—e lo mantiene fino alla fine. Tutti i suoi racconti non sono che scolî, note a margine di quel che Dávila direbbe un testo implicito. In questo senso, l’afasia prodotta dal «sense of wonder» della loro lettura e i discorsi scaturiti da archeologie e genealogie condotte su di essi sono direttamente proporzionali, anzi sono gemelli: entrambi si ricavano da quell’implicito di cui Lovecraft non riporta che brandelli, di quel testo realmente esoterico che il Solitario di Providence si limita, per necessità o meno, ad annotare a margine.

Lovecraft come Dávila, dunque. Ma di cosa sono scolî, i suoi racconti? qual è il testo implicito? Il Necronomicon, si direbbe. Ma non basta. Perché in quanto pseudobiblion, il Necronomicon ha una sua propria realtà esplicita, sia questa dell’ordine della finzione. In realtà, di tale testo è impossibile dire; anche il motivo testuale non è che un’ipotesi, se non quando una metafora. Ed è questa, a nostro avviso, la potenza di Lovecraft, vale a dire la sua verità. Una verità, sia quella dello scrittore o, anche, del «mago inconscio», che è anzitutto dell’ordine della potenza, dell’evocativo, quindi di una verità asintotica, probabilmente occulta, ma la cui occultazione non si esprime che in quella potenza, indefinita, che sono i suoi scolio-racconti, i quali, esplicandosi, conservano l’implicito di quella stessa verità, che fa loro da sfondo e che li orienta gli uni con gli altri.

Ecco, senza nulla togliere al bel libro di Hudspert, la differenza tra lui e HPL, ed ecco anche il motivo per cui siamo partiti, prendendolo a esempio, da Il codice delle creature estinte; come il Necronomicon, anch’esso è uno pseudobiblion, ma, se il testo di di Abdul Alhazred, non è che parte di uno sfondo, matrice quindi dell’intessersi dei fili da cui poi quello sfondo, coll’azione che gli è propria, si ritrae, originando gli stessi, Hudspert dice tutto, e la sua è una finzione che, purtroppo, finisce per risultare inefficace perché reale in quanto tale, cioè finzione – finzione fine a se stessa.

Ed ecco anche, se si vuole e comunque a postilla di tutto ciò, l’assurda, fragile, romantica banalità di una theory fiction che prescinda dall’hyperstition.

 

Bibliografia

  • Canguilhem G., Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998
  • CCRU, Writings 1997-2003, Urbanomic, UK 2017
  • Cerchi A., HP Lovecraft: Il Culto Segreto Aradia Edizioni, Cosenza 2015
  • Hudspeth E. B., Il codice delle creature estinte. L’opera perduta del dottor Spencer Black, Moscabianca Edizioni, Serbia 2019
  • Lovecraft H. P., Tutti i racconti, Mondadori, Milano 2019

[1]    E. B. Hudspeth, Il codice delle creature estinte. L’opera perduta del dottor Spencer Black, Moscabianca Edizioni, Serbia 2019.

[2]    Ivi, p. 21.

[3]    Georges Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998, p. 114.

[4]    E. B. Hudspeth, op. cit., pp. 22-23

[5]    Howard Phillips Lovecraft, L’abitatore del buio, in Id, Tutti i racconti, Mondadori, Milano 2019, p. 943.

[6]    C’è, in realtà, una terza via, proposta da Angelo Cerchi in HP Lovecraft: Il Culto Segreto (Aradia Edizioni, Cosenza 2015). Secondo Cerchi, Lovecraft non sarebbe soltanto un buono scrittore né un mago inconscio; i racconti del Ciclo, infatti, sarebbero la messa in prosa di credenze, culti e sette realmente esistenti, che lo stesso Lovecraft ha conosciuto e che, dato presumibilmente il loro afflato massonico, ha dovuto nascondere nelle pieghe della fiction.

[7]    Ciò spiegherebbe l’influenza di Lovecraft – anomala per un semplice scrittore dell’orrore, specie se si pensa a quanti altri autori abbiano avuto la stessa incidenza – nel mondo dell’occulto (alcuni rituali di Anton Szador LaVey, autore de La Bibbia di Satana e fondatore della chiesa satanica, nonché altri dell’Ordine della Stella d’Oro scritti da Frank G. Ripel, per non parlare delle opere dedicategli da Kenneth Grant o della Congrega in suo nome istituita dal fondatore de La Couleuvre Noire, Michel Bertiaux), o, più drasticamente, dimostrerebbe la sostanziale fallacia, l’ingenua fantasia di tali credenze.

[8]    Ecco allora una quarta via, all’origine del Cthulhu Club: «The interest in Lovecraft’s fiction was motivated by its exemplification of the practice of hyperstition, a concept that had been elaborated and keenly debated since the inception of the Cthulhu Club. Loosely defined, the coinage refers to “fictions that make themselves real”. […] Fiction is not opposed to the real. Rather, reality is understood to be composed of fictions–consistent semiotic terrains that condition perceptual, affective, and behaviorial responses» (CCRU, Writings 1997-2003, Urbanomic, UK 2017, p. 35).

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