I racconti di Satrampa Zeiros – “Il rancore del dio del tuono” di Samuele Baricchi

IL RANCORE DEL DIO DEL TUONO

 CICLO DELLA LOCANDA DEI CANCELLI DELLA NOTTE

 Samuele Baricchi

 

Eravamo seduti in cerchio, attorno al caminetto della locanda. Bevevamo vino e birra, mentre fuori la notte invernale e una tormenta di neve imperversava senza tregua, sferzando gli alberi, diventando sempre più intensa, fulmini dal cielo scuro e dalle profondità della notte, illuminavano l’aria gelida, mentre la neve danzava come se fosse quasi fatta di fuoco, come se fosse un vero e proprio incendio, e non cadeva dall’alto verso il basso, dolcemente, da ogni direzione sembrava provenire, addirittura dal suolo stesso.

Chiusi nella locanda, trascorrevamo la notte, aspettando il tiepido Sole del mattino, distraendoci con storie antiche, intrattenendoci con avventure di vite trascorse anni addietro, di cose antiche e misteriose, di poteri arcaici, mentre la natura stessa, fuori dal nostro piccolo cerchio e dal nostro piccolo momentaneo rifugio, esplicava tutto il suo potere, immutabile, eterno, privo di ogni fondamento razionale che un uomo possa del tutto spiegare.

Forze antiche si muovevano quella notte, e nel profondo delle nostre sensazioni, del nostro istinto, lo sapevamo bene.

Ad un certo punto la conversazione e i reciproci racconti si spensero, lasciandoci con i nostri pensieri, e la tempesta fuori che rumoreggiava con tuoni roboanti, che provenivano dalla profondità più estrema delle nubi violacee, mentre la neve filtrava attraverso la porta, chiusa e serrata da un asse in legno spessa e robusta.

Loyth, il più anziano tra di noi, prese la parola.

“Ora vi racconterò del rancore del dio del tuono” disse.

Tutti noi ci voltammo verso di lui, incuriositi, innanzi tutto perchè aveva rotto il silenzio, che stava mettendo tutti a disagio, era sempre qualcosa di malinconico e in un certo senso triste, confrontarsi con i propri pensieri e con l’immensità della potenza della natura, che ci ricordava la nostra finitezza umana, al di fuori di noi, al di fuori della locanda del Gufo Notturno.

Il dio del tuono era molto deluso dai mortali.

Il dio del tuono un giorno scese in terra, incarnandosi nel corpo di un contadino, il giovane Haymler, che passò alla leggenda.

Haymler guardava il corpo martoriato dei suoi cari, sbranati dai lupi. Si erano spinti oltre il limitare della foresta, addentrandosi nel buio, e un branco di lupi li aveva attaccati, a poco erano serviti i forconi e le vanghe, per difendersi dalla ferocia del branco affamato, da moltissimi anni in quella zona collinare e boscosa, le prede dei lupi avevano migrato lontano, lasciando qualche sparuto esemplare, che era già stato mangiato, spingendo i lupi ad attaccare e sbranare le persone.

Alcuni vociferavano nel villaggio che si trattasse di qualche sortilegio, di qualche stregoneria. Haymler non s’interessava di questo genere di cose, era una persona pratica, legata alla terra, e al ciclo delle stagioni. Sapeva che in Primavera si semina, d’Estate e d’Autunno si raccoglie, e d’Inverno si bada al bestiame. La vera magia, per lui, era il Sole che compiva il suo arco nel cielo azzurro, dall’alba, verso il tramonto, ogni giorno. Le stagioni e le piante e le cose che crescono erano per lui motivo di meraviglia, che poi muoiono, apparentemente, in Inverno, e ritornano rinate e rinvigorite l’anno dopo, in un ciclo eterno, in un tempo che si ripete. Quella era la vera magia.

Stregonerie e negromanti non interessavano al giovane Haymler, che fino ad allora aveva vissuto una vita semplice. Le cose semplici rendono l’uomo semplice, e più sensibile al ciclo sempiterno dell’universo, più allineato e conforme alla natura stessa.

Davanti alla vista dei corpi sbranati e irriconoscibili, se non per qualche macabro dettaglio, dei suoi genitori Haymler per la prima volta nella sua vita mise in dubbio il ritorno delle stagioni, l’arco del Sole nel cielo. Tutto non tornava sempre identico a se stesso, tutto cambiava, e anche brutalmente.

I lupi non avevano avuto la cura e la pietà per i suoi genitori, così come invece Haymler la dimostrava per ogni singola pianta, o frumento, che coltivava. Ogni singola bestia da soma che accudiva, lo faceva sempre con gentilezza, una gentilezza che i lupi non conoscevano. Haymler fu offeso da quel tradimento. La natura stessa, pensò, lo aveva tradito.

Seppellì i suoi genitori, non versando neanche una lacrima, maledicendo il cielo e il Sole stesso.

E poi partì, lasciando sulle loro tombe soltanto una spiga di grano.

Viaggiò a lungo, oltrepassando colline e ponti, fiumi e oceani, montagne e notti tiepide, Estati e Inverni che ritornavano sempre, ma non lenivano la sua rabbia.

Finchè un giorno non incontrò Hefthelian, il monaco.

“Hai lo sguardo perso nel vuoto” gli disse.

“Tu cosa ne sai di me?”

“Hai lo sguardo perso nel vuoto eterno della morte, nel buio della notte più profonda, ma dietro al tuo sguardo, posso scorgere una fiamma, una fiamma eterna, che proviene dai limiti più alti delle nubi di tempesta”

“Taci, ciarlatano, o il mio pugnale t’insegnerà a dosare le parole”

“Chiedo scusa…” il monaco s’inchinò.

Haymler era perplesso, non capiva le intenzioni di quel vecchio, e la cosa lo infastidiva. Era partito per restare solo, nella sua rabbia cieca, eppure qualche essere umano continuava a disturbarlo, e non voleva lasciarlo in pace, il mondo intero, continuava a disturbare la sua tranquilla furia. Una furia che prima o poi, si sarebbe manifestata, in qualche modo, Haymler lo sapeva, ne era certo, avrebbe avuto l’occasione di farsi assoldare come assassino, come mercenario da qualche legione degli Imperi d’Argento, o da qualche signorotto borghese che intendeva eliminare il suo concorrente in affari. Haymler voleva solo uccidere, e uccidere al più presto. Voleva distruggere. La cura e la gentilezza con cui curava il suo campo e i suoi animali erano ormai distanti, epoche fa.

“Mi chiamo Hefthelian” disse il monaco.

“E cosa vuoi da me?”

“So scorgere nelle profondità dell’animo umano, e vedere la definitiva coscienza dell’uomo, senza mai mischiarmene, so che tu hai subito un lutto”

“Sì, ma ormai, sono trascorsi anni”

“Ma la tua furia non si spegne”

Eccola l’occasione giusta, pensò Haymler, quel monaco voleva assoldarlo per un assassinio.

“Sono disposto a uccidere chi vuoi, monaco, taglia corto, ho bisogno di soldi per bere”

“Non voglio che tu uccida nessuno, vieni con me”

Salirono le scalinate di un tempio, tra il verde delle colline in Estate e il cielo azzurro, e il canto degli uccelli e il saltellare dei daini e dei caprioli tra la fitta boscaglia, un falco, lontanissimo nel cielo, in alto sopra di loro, volteggiava leggero.

Haymler entrò nel tempio, la mano sul pugnale, e Hefthelian gli sorrise.

“Io so chi tu sei veramente”

“Cosa vuoi dire? Mi chiamo Haymler, e provengo dalle Piane Sabbiose, nella provincia di Munhir”

“Una regione di immensi prati sterminati e campi coltivati”

“Proprio così”

“Ci sono stato diverse volte”

“E ora dimmi, monaco, cosa vuoi da me?”

“Voglio rivelarti chi sei”

“E come puoi stabilirlo?”

“Io ho visto negli antichi segni che tu sei il dio del tuono, incarnatosi nel corpo di un contadino”

Haymler rise forte.

Il monaco rimase serio.

“E cosa vorresti dimostrare con questa farsa?”

“Io ti sto dicendo la verità, conosco la terra e la magia che permane in essa, divenendo sempre più evidente col passare degli anni, molte cose che sono state dimenticate dai più, io so come interpretarle, le nubi, il canto dei corvi al crepuscolo, e le viscere dei caprioli e dei cinghiali mi dicono che tu sei il dio del tuono, mandato sulla terra per compiere un incarico, che lo stesso dio del tuono aveva dimenticato, fino al momento della tua nascita”

“Supponiamo che ciò che dici sia vero…. quale sarebbe questo incarico?”

“Conosci il negromante Gulchtur, della Foresta Grigia?”

Haymler trasalì, la Foresta Grigia era il luogo dove i suoi genitori avevano perso la vita.

“Conosco la Foresta Grigia, ma non conosco nessun negromante”

“Lui è responsabile della morte dei tuoi genitori”

“Come sai della morte dei miei…”

“Io so moltissime cose, Haymler”

Rimase in silenzio, il giovane contadino, sbigottito, scettico, ma lentamente la verità apparve davanti ai suoi occhi. Le voci sussurrate dagli abitanti del villaggio, un male ancestrale nelle profondità del bosco, uno stregone, un negromante, una maledizione lanciata sulle bestie delle Piane Sabbiose, che le aveva fatte impazzire, lupi e cinghiali che sbranavano bambini, che mai più ritornavano alle loro case. Aquile dagli occhi divenuti rossastri scagliarsi addosso a un contadino ignaro mentre coltivava il suo campo, per strappargli la pelle dal volto, per cibarsi dei suoi occhi, e dilaniare ogni lembo di carne che le aquile affamate, colte da una fame eterna, che le consumava, e le faceva impazzire, riuscivano a cogliere col loro becco ricoperto di sangue.

Quello stregone aveva quindi un nome. Gulchtur.

Il monaco materializzò una spada.

Haymler fece uno scatto all’indietro, estraendo il suo pugnale.

La spada proveniva dal niente, e improvvisamente, con un lieve tintinnio metallico, era comparsa tra le mani del monaco.

“Tieni.”

Haymler impugnò la spada.

Era calda.

“Tu sai dove si trova la Foresta Grigia, va’ e uccidi il negromante”

Colto da una furia cieca, il dio del tuono corse via. Solo l’odio e il rancore guidavano i suoi passi.

Non gli importava di chi o cosa fosse l’incarnazione, o il discendente, o cos’altro, voleva solo uccidere lo stregone.

Forse, voleva solo uccidere.

Haymler correva veloce, attraverso pianure, fiumi, oceani, montagne, mari, roccaforti distrutte, deserti dalla sabbia rossa, e dorata, e violacea, e il cielo correva con lui, divenendo scuro, sempre più scuro, nubi di tormenta s’ammassavano sopra la sua testa, la pioggia, batteva veemente sul suo volto e sui suoi lunghi capelli biondi, color del grano, che si appiccicavano al suo viso, e si destava in lui un certo tipo di saggezza, un sapere, a lungo dimenticato.

Sfoderò la spada che il monaco gli diede, e la alzò verso l’alto.

Con un tuono che proveniva dalle distanze infinite degli ultimi cieli eterni, eterei, distanti, un fulmine colpì la sua spada.

Haymler sapeva che non gli sarebbe successe alcunchè.

La padronanza del fulmine e del tuono divenne una certezza. L’infinito riecheggiare delle tempeste, e delle tormente al di sopra della sua testa, dalla profondità delle nubi, il potere, nien’altro che il potere di un dio, lo pervase. Ogni singolo lembo di pelle e peluria sulle sue braccia lo infusero di una luce oscura, violastra, tendente al blu scuro della notte fonda senza stelle, e seppe, in un’istante, che nient’altro se non lui avrebbe dovuto uccidere Gulchtur, il negromante, lo stregone, l’incantatore.

Si addentrò nella Foresta Grigia, guardando di soppiatto ogni albero e ogni cespuglio, ogni radice, guardingo, aspettandosi da un momento all’altro che lo stregone si manifestasse.

Per giorni e giorni vagò nella notte. Vagò nel buio della foresta, perso. Dimenticandosi il suo nome mortale, dimenticando le ere degli uomini, la storia e le epoche che si dispiegano a spirale verso l’infinito.

Vagabondava tra gli alberi che non sembravano volerlo abbandonare, cullandolo la notte col frusciare delle fronte, la brezza leggera estiva aveva preso il posto della pioggia e della tempesta di fulmini e tuoni.

In una mattina limpida, lo stregone apparve.

Haymler era desto, e stava affilando la sua spada, da molti giorni ormai non mangiava, non ne aveva bisogno, non beveva, non sentiva la sete, non sentiva nulla, soltanto il potere antico ed eterno del fulmine del tuono.

Gulchtur, coperto da una veste scura, con la barba lunghissima e nera, folta, lo guardava con gli occhi dalle pupille verticali, simili a quelle di un serpente, e alzò una mano.

Haymler, con uno scatto velocissimo, gli mozzò la mano destra.

Conficcò senza pensarci due volte la spada a fondo nelle viscere dello stregone, girandola su se stessa di novanta gradi, e poi di centottanta, eseguendo un taglio lungo e profondo nel dorso dello stregone.

Gulchtur si accasciò ai piedi di Haymler, ponendo fine ai suoi giorni in silenzio.

“Eppure quest’incantatore dovrebbe essere potente” pensò Haymler.

Una folla di contadini si era radunata nel bosco, nella radura dove Haymler stava affilando la lama della sua spada, fissando nient’altro che l’acciaio lucente alla luce della Luna, e poi, alla luce del Sole del mattino.

Con orrore e urla tutti lo additavano.

“Haymler il folle” lo chiamavano. “Il contadino che era impazzito” sconvolto, forse, dalla morte dei suoi cari.

Su di un rogo, il dio del tuono, bruciava urlando nella notte, mentre il druido del villaggio, con parole solenni, pronunciava la sua condanna.

“Haymler il folle, dopo aver ucciso i tuoi stessi genitori, hai sentenziato la morte di un contadino tuo pari, si era recato nel bosco, perpetuando un assassinio ingiusto, hai qualcosa da pronunciare in tua difesa?”

“Io sono il dio del tuono” rispose Haymler, mentre il fuoco avvolgeva le sue carni.

Il druido scosse la testa. Fece segno di non tirarlo giù dal rogo, e di lasciarlo lì, a bruciare vivo, per scontare i suoi delitti.

“Io sono il dio del tuono!” urlò Haymler, con un grido quasi bestiale, infernale, demoniaco, e un fulmine discese dalle profondità degli astri e degli universi al di sopra delle Piane Sabbiose, e colpì il rogo.

Haymler scomparve.

La folla, rimase in silenzio.

2 comments

  1. Un racconto intenso, ma che andrebbe un pochino rivisto.
    L’autore abusa delle virgole e ne piazza anche tra soggetto e predicato. Facevo anche io lo stesso errore e dopo anni di studio sono riuscito a eliminarlo quasi del tutto. Ritrovarlo è stato come essere un ex fumatore che entra in un vecchio pub irlandese.
    Ci sono ripetizioni, parecchie, che smorzano la forza della narrazione come l’attacco dei lupi, per esempio, ed errori relativi il comportamento degli stessi. Se le prede se ne vanno i lupi se ne vanno con loro. Il comportamento “anomalo” dei lupi doveva essere in qualche modo mostrato.
    L’arco di trasformazione del personaggio è incompleto: ci sta perché il finale è coerente con questo, ma manca comunque qualcosa che permetta di immedesimarsi nel personaggio. L’incontro col monaco, a mio avviso, doveva trasformarsi in qualcos’altro. Una prova, qualcosa che desse al monaco la conferma che quello era il dio del tuono. Invece c’è una lista della spesa delle cose che il monaco sa fare e in base a questa stabilisce che il protagonista è un dio sotto mentite spoglie… mah. All’uccisione del negromante che tanto contadino non poteva essere, se aveva gli occhi da rettile, ci poteva essere uno scontro succulento a base di spadate e fulmini… e invece niente.
    A mio avviso potrebbe uscire fuori qualcosa di più da questo “racconto a metà”.
    Spero che l’autore ci ripensi.

  2. Grazie per il commento, l’idea era quella di scrivere uno stralcio, nulla di troppo specifico, è comunque una storia raccontata da qualcuno in una taverna, e parla della follia del protagonista, che lui stesso vedeva questo negromante e questo monaco, ed essendo un racconto di follia, la coerenza non era minimamente considerata.

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