Al cospetto dei Grandi Antichi – Il «blasfemo» in H.P. Lovecraft

«Pensa a ciò che tace.»

(Joë Bousquet, Tradotto dal silenzio)

 

«Ogni definizione della cosa in sé è un attentato contro la realtà»[1], scrivevano ormai sessant’anni fa Pauwels e Bergier, recriminando del linguaggio la struttura binaria e sottolineando l’esigenza di un terzo occhio dell’intelligenza, ovvero di «una nuova struttura mentale capace di percepire come reali gli stati intermedi tra il sì e il no, il positivo e il negativo»[2]; il linguaggio umano, infatti, è speculare a un’intelligenza che si limita alla classificazione, all’esame di strutture che non assimila:

Il nostro linguaggio, come il nostro pensiero, procede dal funzionamento aritmetico, binario, del nostro cervello. Noi classifichiamo con sì, no, positivo, negativo, istituiamo i confronti e deduciamo. Se il linguaggio ci serve a mettere ordine nel nostro pensiero stesso interamente occupato a sistemare, bisogna pure accorgersi che esso non è un elemento creatore esterno, un attributo divino. Non viene ad aggiungere un pensiero al pensiero. Se parlo o scrivo, freno la mia macchina.[3]

Tali riflessioni fanno eco al rammarico espresso da Crowley, allorché lamenta, annotando a piè di pagina la descrizione visionaria di quel mare di liquame dal pus delle cui bolle «si formavano tutte le cose mai conosciute dall’uomo – ognuna di esse distorta, degradata, bestemmiata»[4], dell’insufficienza della parola, riferendosi anch’egli alla sua natura aritmetica:

Siamo in grado di esprimere una nuova idea soltanto combinando una o più idee, o tramite l’uso delle metafore; quindi come qualsiasi numero può essere formato da altri due.[5]

La riflessione di Crowley è estemporanea e proprio per questo risulta interessante, poiché defalcata all’economia di un racconto. Il narratore, impegnato a descrivere qualcosa che Conrad definirebbe «l’orrore», si trova in imbarazzo, e non potrebbe essere diversamente: com’è possibile l’espressione di ciò che trascende le categorie concettuali impiegate come trascendentali dal pensiero per far presa sulla realtà mediante quella stessa struttura logica che da queste categorie deriva, ovvero il linguaggio? Lovecraft, a questo proposito, usa il termine «blasfemo», parola che – come vedremo – si riempie di senso nel momento stesso in cui si svuota di ogni pretesa descrittiva, e mediante l’impiego che ne fa costituisce la blasfemia come un vero e proprio concetto filosofico.

            Abbiamo notato, in Potenza e verità di H.P. Lovecraft, che i racconti del Solitario di Providence non sono che scolî, note a margine di quel testo implicito che è la realtà, e alla luce di ciò è efficace notare il ricorso ad alcuni termini nelle loro diverse declinazioni, come ad esempio «hideous», il più ricorrente, «faint», «nameless» e, ovviamente, «blasphem», che occorre in tutto novantadue volte nei suoi scritti[6]. A differenza che l’orrido o l’orrendo, il blasfemo, nei contesti in cui viene usato, attesta di un’afasia; l’orrendo, infatti, è molto spesso a preludio di una descrizione o interno a essa, mentre «blasfemo», nella maggior parte dei casi, è l’ultima parola, oltre la quale non è possibile andare. Ecco alcuni esempi:

  • «E, su tutto, in questo ripugnante cimitero dell’universo, si ode un sordo e pazzesco rullio di tamburi, un sottile e monotono lamento di flauti blasfemi [monotonous whine of blasphemous flutes] che giungono da stanze inconcepibili, senza luce, di là dal Tempo»[7];
  • «Anche la parte occidentale d’Irlanda era piena di fantastiche voci e dicerie, mentre al Salone di primavera di Parigi del 1926 un pittore visionario di nome Ardois-Bonnot aveva esposto un blasfemo Paesaggio onirico [a blasphemous Dream Landscape]»[8];
  • «A chi apparteneva la mente che aveva tramato quell’orribile vendetta e rintracciato il luogo, evitato per oltre un secolo, in cui erano avvenute le antiche nefandezze [sic] [whose mind had planned the vengeance and rediscovered the shunned seat of elder blasphemies[9];
  • «La chiave che schiude certe blasfeme sfere esterne [the key to such blasphemous outer spheres[10];
  • «Gli esseri empi [sic] che apparivano sulla terra [the blasphemies which appeared on earth] scendevano dal pauroso pianeta Yuggoth, al confine del sistema solare»[11];
  • «Nulla di ciò che avrei potuto immaginare, ammesso pure di prendere alla lettera il racconto pazzesco di Zadok Allen, avrebbe retto il confronto con la realtà mostruosa [sic] e demoniaca [the daemoniac, blasphemous reality] che vidi, o credetti di vedere»[12];
  • «Quel mondo inquietante e maledetto dove vita e morte, spazio e tempo hanno stretto un’oscura e blasfema alleanza [black and blasphemous alliances] fin dall’epoca ignota in cui la materia ha cominciato a strisciare, e a nuotare, sulla superficie appena raffreddata del pianeta»[13];
  • «Una megalopoli che reggeva il confronto con altri orribili [sic] centri preumani [a megalopolis ranking with such whispered pre-human blasphemies] di cui si mormora nelle leggende: Valusia, R’lyeh, Ib nella terra di Mnar e la Città Senza Nome nel deserto arabo»[14];
  • «Gran Dio, quale follia può aver spinto gli Antichi [those blasphemous Old Ones] a servirsi di creature simili, e a immortalarle nelle loro sculture?»[15];
  •  

            Il «blasfemo» non è un punto fermo; piuttosto, esso determina una soglia, oltre la quale non è possibile o raccomandabile inoltrarsi.

            In vari contesti, il termine non viene mantenuto nella traduzione, preferendogli il sinonimo «empio»[16], ma il «blasfemo» si distingue dall’«empio» nella sua prima accezione; il «blasfemo», infatti, è tale per natura, mentre «empi» si diviene, lo si è a seguito di un atto o di una circostanza. In questo senso, se è possibile mantenere nel campo dell’empietà un afflato religioso, ciò ci pare non del tutto necessario e anzi fuorviante nell’impiego del lemma «blasfemo» in Lovecraft. Fuorviante perché la blasfemia non si riferisce mai a situazioni o atti contro la religione ma a favore, a proposito di essa: il «blasfemo» accenna a quelle entità, come i Grandi Antichi, che formano un vero e proprio pantheon e rispetto ai quali nella finzione letteraria (Chiesa della Saggezza Stellare) e non (l’Ordine Esoterico di Dagon) sono nati diversi culti.

            Ne L’orrore di Dunwich, Claudio De Nardi traduce «Necronomicon, that monstrous blasphemy» con «Necronomicon, l’opera empia [sic] e mostruosa»[17], ed è evidente l’opinabilità di tale scelta; l’Al Azif, infatti, non è, a rigore, un’«opera empia»[18] quanto, semmai, una «blasfemia», ed è per questo che di esso Lovecraft non scrive, che dall’opera dell’arabo pazzo cita pochissimo, poiché il suo contenuto, storiografico e ritualistico, trascende il linguaggio[19] così come esso si presenta nell’ordinario.

            Una delle prime occorrenze del termine, nonché tra le più pregnanti, componendo lo sconvolgimento finale, la si ritrova ne La palude della luna, allorché il protagonista-narratore rinviene «un’effigie blasfema di colui che era stato Danys Berry [a blasphemous effigy of him who had been Danys Berry[20]. Il carattere blasfemo dell’effigie definisce al contempo l’afasia e l’impossibilità di qualsiasi descrizione; essa è dunque dissacratoria non della morale o della religione ma della penna che scrive, del linguaggio come doppio, binario, del pensiero. In senso proprio, infatti, l’effigie è dell’ordine del rimando, ma il rimando, in questo caso, è come spezzato, rotto: l’effigie di Danys Berry è blasfema perché non rimanda a Danys Berry, è e al contempo non è un’effigie, ed è in questa comprensione dell’essere e del non-essere, indicibile linguisticamente perché impensabile, che si situa la blasfemia.

            Ancora, ne La paura in agguato Lovecraft scrive di «un’anomalia [sic] uscita dai più profondi crateri dell’inferno [a blasphemous abnormality from hell’s nethermost craters], un abominio informe e senza nome che la mente non può accettare in toto e la penna non può descrivere»[21], e qui, forse, abbiamo la più precisa accezione a ciò che il Solitario di Providence allude quando utilizza il termine «blasfemo». Continua nel capitolo seguente:

Tremavo e tentavo di arrivare a una conclusione su quell’ombra terribile, convinto di aver assistito a uno degli orrori supremi della terra. Apparteneva all’ignoto, era una di quelle minacce senza nome che a volte ci pare di sentir grattare ai confini dello spazio ma da cui, per fortuna, la nostra visuale limitata ci garantisce una misteriosa immunità. Non osavo analizzare o identificare l’ombra che avevo visto, ma sapevo che qualcosa si era frapposto fra me e la finestra e tremavo tutte le volte che non riuscivo a vincere la tentazione di pormi delle domande. Se solo avesse ringhiato, o abbaiato, o riso istericamente, sarebbe stato un sollievo rispetto alla sua totale estraneità.[22]

La blasfemia non è adducibile all’infernale, da cui proviene e da cui quindi si distingue, ma all’inenarrabile. Il «blasfemo» che dice l’investigatore rima con l’alfa privativo di «anomalia» e «abominio», col suffisso «-less» di «senza nome» e «senza forma» e decreta ciò che «nessuna mente può afferrare appieno», quel che «nessuna penna può anche solo in parte descrivere».

            Nell’economia de La paura in agguato, l’utilizzo del termine è particolarmente significativo. A utilizzarlo, infatti, non è Lovecraft, ma il protagonista che fa anche da io narrante, e non è un caso che sia proprio un investigatore dell’occulto a trovare blasfema una manifestazione a prima vista paranormale. Considerato in questi termini, l’uso dell’aggettivo promuove la discriminazione tra due ambienti tra loro effettivamente non comunicanti: l’occultismo e qualcosa che per ora potremmo soltanto definire primitivismo, l’uno essoterico e l’altro esoterico. Sullo sfondo della vicenda, infatti, si trova una «popolazione di disgraziati al limite della degradazione» che vive alle pendici dei monti Catskill, è caratterizzata da «primitive necessità» e, soprattutto, è a conoscenza di ciò che invece l’investigatore inizialmente ignora. I discendenti degli olandesi che per primi si sono insediati a Tempest Mountain, infatti, mantengono forti legami colla terra, cui il «blasfemo» appartiene. Viceversa, per l’investigatore il «blasfemo» appartiene, sì, alla terra, ma a quella sua parte ignota che è l’inferno. Dal canto suo, l’occulto è ancora eccessivamente legato alla terra come realtà fenomenica le cui radici affondano in una nebbia spesso difficile da trafiggere collo sguardo e la conoscenza.

            L’occultismo redime la terra dalla propria innocenza rispetto a forze che, stando alle scienze ufficiali, non la riguardano, e tanto più l’occultismo riesce a intravvedere la realtà di simili forze, il loro schianto col nostro mondo, tanto più esso può assurgere al rango di scienza. Come scienza, l’occultismo funziona, ma, come tutte le scienze, il suo funzionamento ha dei limiti dettati dai suoi stessi assiomi, e l’assioma dell’occultismo è uno: la profondità non è mai assiologica, non c’è verticalismo; ciò che ribolle nel profondo, nonché questo stesso profondo, appartiene a un piano cui noi stessi apparteniamo e che, di tanto in tanto, ospita anche manifestazioni il cui carattere insolito si deve al loro emergere da recessi che non teniamo in considerazione o che, scientificamente, siamo tentati di leggere attraverso una grammatica a essi non idonea. Per l’occultista esiste un solo piano del reale, rispetto al quale il simbolo ha assoluta priorità ermeneutica. Attraverso il simbolo, l’occultista legge il reale nella sua superficie e nelle sue profondità. Per questo è scientifico, per questo funziona, certo, eppure solo fino a un determinato punto. Gli inferi, infatti, non sono che quegli «abissi che si spalancano fra noi e l’ignoto»[23], e quest’ignoto è impossibile da governare così come si governa il noto della superficie. Il simbolo non è abbastanza, perché onnicomprensivo, e bisogna decidersi per il noto o l’ignoto, l’abisso o la superficie, la profondità o la verticalità. Decidersi per l’uno o per l’altro determina, anzitutto, un atteggiamento, e l’atteggiamento nei confronti dell’ignoto è la paura, quella paura che affonda «nella notte del passato ancestrale, o meglio nell’abisso senza fine al di là del tempo»[24], paura che si trova così intrinsecamente legata al «blasfemo»:

La paura era così intimamente mescolata al fascino dell’ignoto e del grottesco da essere una sensazione quasi piacevole. A volte, quando si è nelle spire dell’incubo e poteri invisibili ci trasportano in volo sui tetti di misteriose città morte, verso l’abisso beffardo di Nis, è un sollievo e anche una gioia urlare come pazzi e gettarsi volontariamente, seguendo la corrente del sogno di sventura, nel baratro senza fondo che ci si spalanca davanti.[25]

La paura è il modo di interfacciarsi col «blasfemo» o, ed è lo stesso, la conoscenza del «blasfemo» coincide con la categoria della «paura». La «paura» definisce un legame coll’ignoto, certifica un’esperienza del «blasfemo»:

Il più antico e intenso sentimento umano è la paura, e il genere di paura più antico e potente è il terrore dell’ignoto.[26]

Quando il protagonista rivela la propria «decisione di raggiungere il cuore segreto della paura»[27] sta sostanzialmente ammettendo la propria sete di conoscenza, la volontà cioè di dissipare il «blasfemo» in quanto ignoto. L’occultismo, come scienza, pretende che, attraverso il simbolo, l’ignoto possa essere noto e in ciò è, come le altre discipline positiviste, una dottrina essoterica. Quel che a questo livello possiamo solo etichettare come primitivismo, da cui il silenzio dei discendenti dei coloni olandesi, agisce invece affinché l’ignoto rimanga tale: per loro l’ignoto non è ciò che non è noto ma ciò che lavora per conservarsi tale. Da qui, l’essenza fondamentalmente esoterica del primitivismo. L’ignoto non è ciò che non è ancora noto ma ciò che per proprio principio non potrà mai esserlo.

Ci sono cose cui non si può nemmeno accennare, e del resto la legge punisce atti che a volte vengono commessi a scopo umanitario.[28]

            L’orrore cosmico di Lovecraft è dunque espressione della sua riverenza di fronte al «blasfemo».

            Ogniqualvolta Lovecraft utilizza il termine «blasfemo», egli sta esprimendo la propria afasia, ed è attorno a questo senso di attonimento che si producono i suoi racconti, i quali, a loro volta, sono la verità, nel senso heideggeriano della parola, di quella blasfemia. I racconti, cioè, svelano velando quel «blasfemo» che rimane il loro cuore nero e indicibile, poiché originario. Chiaramente, non si scrive mai del «blasfemo»; il «blasfemo», al massimo, lo si può evocare, e Lovecraft tende a orientare verso di esso, quasi che le sue narrazioni non fossero che descrizioni del bordo – e al bordo – di ciò che non può essere né descritto né narrato.

            Il «blasfemo» non può essere né descritto né narrato perché è all’origine di ciò che si descrive e di cui si narra. In quanto originario, il «blasfemo» non può essere ritrovato se non nelle tracce di ciò che origina, ovverosia il racconto che leggiamo. Più che alla metafora della fonte, dunque, bisognerebbe pensare al «blasfemo» nei termini dell’occhio che, per poter vedere, resta cieco a se stesso: l’istanza che rende possibile la visione resta opaca, e se è il caso di parlare di una vera e propria aporia del «blasfemo» ciò è anzitutto dovuto a quell’indicibile che sta a condizione del dicibile. Il racconto non conserva nelle proprie pieghe che scorci, prospettive, ombre della blasfemia originaria, ma tali ombre appaiono solo nell’incandescenza della parola scritta, la quale più contorna il proprio centro più è costretta ad adombrarsi, rendendo così la pagina sempre meno leggibile:

Viaggi del genere comportavano pericoli incalcolabili a ogni tappa, per non parlare dell’orrore finale che sciorina enigmi al di là dell’universo normale, in una dimensione preclusa perfino ai sogni; quell’amorfa abiezione, quel concentrato di caos abissale che gorgoglia blasfemità al centro dell’infinito [that last amorphous blight of nethermost confusion which blasphemes and bubbles at the centre of all infinity]: Azathoth, il demone-sultano che non conosce limiti e di cui nessuno osa pronunciare il nome ad alta voce, l’affamato che mastica in continuazione dentro oscure e inconcepibili caverne al di là del tempo, cullato dal battito ossessivo di tamburi sordi e dal monotono pigolio di flauti maledetti. E nel mezzo di un tale orribile concerto danzano lenti, assurdi e giganteschi gli dei ulteriori: i ciechi, tenebrosi, muti Alti Dei il cui esponente più illustre è il messaggero Nyarlathotep, il caos strisciante.[29]

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Per poter essere leggibile, la pagina di Lovecraft è costretta a una difficile ginnastica che costringa la gravitazione della parola a una traiettoria ellittica: mai troppo distante dall’innominabile, che la permette, ma nemmeno troppo vicina, poiché allora essa sarebbe ridotta al silenzio. In questo senso, la parola è sempre spuria, perché condizionata da ciò che non può essere nominato, ma l’impurità della parola è, al contempo, ciò che trattiene la parola in un legame, inquietante, con quel «blasfemo» che è, anche, ciò che deve essere taciuto e ciò a partire dal cui silenzio essa è possibile: il racconto non è che il sigillo a questo patto di silenzio col «blasfemo».

            Il «blasfemo» induce al silenzio, e la parola scritta è possibile grazie a questo silenzio. Se Crowley si lamentava dei limiti del linguaggio, Lovecraft limita ulteriormente il linguaggio per poterlo far barcollare su quei limiti, al limite dell’indicibile. Non si tratta di scrivere ciò di cui non si può scrivere, il «blasfemo», ma di abitare il limite, di approcciarsi il più possibile a quel limite oltre il quale il «blasfemo» induce al silenzio. Scrivere ai limiti del linguaggio implica, com’è ovvio, momenti di silenzio e afasia; ma portare il linguaggio ai suoi propri limiti significa anche incoraggiare una prospettiva del mutismo sulla parola. Ciò che non è possibile, ciò di cui Crowley si rammaricava, era che, dato il linguaggio, vi fossero delle zone d’ombra, sentieri non percorribili linguisticamente; per Lovecraft, questo è un problema mal posto: non si tratta di attraversare i sentieri del silenzio col linguaggio ma di far intravvedere come il corso stesso del linguaggio abbia vene di silenzio, mostrare come la parola trattenga un legame, grave e angoscioso, coll’indicibile. Di qui, gli stop, i blocchi e le afasie in cui, spesso, incorre la parola – momenti in cui Lovecraft, semplicemente, chiude la descrizione. È «blasfemo», scrive—e tanto basta.

            D’altro canto, il racconto è, come abbiamo visto, uno scolio di quel testo più ampio che è il reale. Sarebbe superficiale, se non del tutto erroneo, far tuttavia coincidere il «blasfemo» con il reale in toto, e non esiste alcun ciclo onirico nella bibliografia di Lovecraft.

            Il «blasfemo» non è la realtà, ma non per questo è meno reale.

            In Lovecraft, il reale è il testo implicito di cui i suoi racconti non sono che note a margine. Ciò non vuol dire che il reale sia ciò che permetta i racconti, cosa che abbiamo chiarito essere il «blasfemo», ma tra l’uno e l’altro esiste un legame, che Lovecraft tenta in tutti i modi di sciogliere. Questo legame è dello stesso ordine di quello che sussiste tra il pensiero e il linguaggio. È come se il reale fosse il pensiero e il linguaggio il racconto. E, se con Pauwels e Bergier ammettiamo che la struttura binaria del linguaggio è dovuta al fatto di essere, questo, un doppio del pensiero, allora dovremmo chiederci, ora, quale che sia l’equivalente del silenzio per il pensiero. Infatti, se il linguaggio di Lovecraft travalica il bipolarismo, scoprendo che tra il sì e il no, il positivo e il negativo non c’è alcun terzo termine impronunciabile ma esiste, invece, una soglia non assimilabile né all’uno né all’altro e, quindi, nemmeno a una neutralità tra gli opposti, una soglia che è il centro silenzioso e muto attorno al quale, ellitticamente, la parola, coi suoi sì e no, gravita, allora quello che Pauwels e Bergier definiscono come un «terzo occhio dell’intelligenza» non può che trovarsi all’interno della stessa intelligenza, in una frattura da cui, come il sì e il no del linguaggio, si producono tanto il ragionamento logico che quello analogico e che per questo non può essere pensato né logicamente né analogicamente. È l’impensato del pensiero, impensato che è nel pensiero ma – e come ciò – che il pensiero non può pensare. In altri termini, è la realtà del pensiero, momento in cui il pensiero non si trova irrelato al reale. La logica e l’analogia nascono in seguito e solo grazie a ciò, ma per allora il pensiero s’interfaccerà al reale come se questo fosse un a posteriori da leggere, descrivere, classificare. Per Lovecraft, invece, c’è una relazione, tanto profonda quanto impensabile, tra il reale e il pensiero, e proprio per questo il suo stesso cosmicismo non è tale se non a posteriori, e comunque nei termini di una filosofia politica che è in realtà la teologia di una mistica che l’autore assume, nella finzione letteraria, come filosofia della storia.

            Definiamo «blasfemo» tanto il silenzio del linguaggio quanto l’impensato del pensiero, il punto cieco di entrambi e da cui entrambi si originano. La parola che dice il «blasfemo» sta in realtà arretrando di fronte a esso, e il racconto non fa che conservare lo stesso senso di irrequietezza e tentennamento nei confronti di quel testo implicito rispetto al quale esso può farsi (e farsi come nota a margine). C’è del «blasfemo» nei racconti di Lovecraft e c’è del «blasfemo» nel reale, ma né il reale in quanto tale né i racconti di Lovecraft in sé sono blasfemi. Il reale, in quanto ciò che può essere logicamente o analogicamente pensato, non è blasfemo se non prima di rivelarsi tale, nel sonno ancora privo del sogno omniversale di Azathoth.

            Il racconto annota a margine il reale per palesare le sue zone d’ombra, quell’ignoto che dal/nel reale non può emergere. Il weird di Lovecraft narra così di un irreale che può essere evocato sul bordo della sua, cioè del reale, pagina, con un continuo tartagliare del linguaggio. Il linguaggio è il doppio del pensiero, ma c’è dell’impensato nel pensiero che le afasie linguistiche indicano, seppur da lontano, senza farlo affiorare. C’è davvero, come vedremo nel prossimo articolo, dell’irreale nel reale, ma questo non può affiorare nel reale senza disfarsi in quanto tale, cioè come reale. È necessaria la nota a margine, il racconto weird.

            All’ombra del «blasfemo», il racconto e il reale condividono uno stesso piano d’agibilità, si situano su di un medesimo livello, alla cui soglia troviamo tanto l’impensato del pensiero che l’indicibile della parola. Ma che vi sia un unico e solo piano di consistenza e di coesistenza del racconto e del reale implica, da un lato, che il reale e il racconto non siano che modi diversi d’espressione di questo piano, di cui il «blasfemo» è l’origine come condizione di possibilità sia del piano sia del reale e del racconto, e, dall’altro, che ogni pretesa di trascendenza sia abolita.

            L’abolizione della trascendenza caratterizza i racconti di Lovecraft tanto più questi vengano sin da subito resi distanti dalla fantasia di Lord Dunsany. Sebbene i critici siano piuttosto concordi nel definire Lord Dunsany una sorta di padre spirituale di Lovecraft, a questo livello ci pare più che mai inammissibile ricondurre tale pretesta paternità oltre il dato biografico; infatti, se è evidente che le storie di Lord Dunsany abbiano giocano un ruolo decisivo nel muovere Lovecraft dalla saggistica e dal giornalismo amatoriale alla scrittura di finzione, come del resto sottolineato da S.T. Joshi[30], è altrettanto chiaro che, se lo scrittore irlandese si decide per un cosmicismo assoluto, per quello di Providence la prospettiva cosmica non è mai slegata al terreno, al quotidiano. Chiaramente, entrambi scrivono racconti weird in cui altre realtà vengono esplorate, ma nella pagina di Dunsany i mondi non sono solo alieni ma completamente sciolti da legami col nostro, tant’è che, a rigore, nell’assolutizzazione di quel mondo il nostro, sulla sua pagina, manca di qualsiasi probabilità ontologica: è il piano di Pegana. In Lovecraft, invece, c’è una prospettiva cosmica che squaderna la finzione del racconto a mo’ di scolio del reale. Il cosmicismo di Lovecraft non è mai assoluto ma sempre a margine, e la filosofia cosmicista non annienta, come in Dunsany, ciò che noi crediamo reale[31] semplicemente eliminandolo dalla narrazione e, quindi, privandolo di qualsiasi consistenza nell’economia di un racconto che acquista afflati cosmicisti anche, sebbene non solo, grazie a questa espunzione. Dunsany trascende il piano d’immanenza in cui ci troviamo prospettando il cosmo, ma è da questo piano che noi possiamo leggere di Pegana, e il suo cosmicismo si sgonfia non appena lo consideriamo sulla pagina del libro che stiamo leggendo da un mondo tanto inaccessibile a Pegana quanto Pegana gli è inaccessibile. Viceversa, per Lovecraft la trascendenza non è che l’assoluto di quest’immanenza, è l’irreale che si manifesta a bordo del reale, sulla pagina. Il piano è ciò su cui si trovano il reale e il racconto, di cui il pensiero e la parola sono espressioni. Ma, a loro volta, il reale e il racconto non sono in ultima istanza. Loro condizione di possibilità è quel «blasfemo» che fa loro da soglia, che, discriminandoli, li fa coesistere su di un piano la cui consistenza è data dal ritrarsi della soglia rispetto alle categorie del reale e del racconto, incapaci di renderla un punto neutro tra la parola e il pensiero, parola e pensiero che, anzi, scoprono, al limite della soglia, il silenzio e l’impensato. Non Pegana, ma la preistoria… o ancora prima, perché la preistoria stessa non è che il punto finale di una storia di cui da qualche parte, in Antartide, esistono testimonianze scolpite. La preistoria, come preludio alla storia, è la conseguenza di un’altra storia, e in sé la terra stessa e l’universo tutto non sono, nella loro integrità, che riflessi di gole, baratri e abissi che li trascendendono, ed è questa trascendenza a collocarli, la terra e l’universo, nella posizione e nel modo in cui stanno, allocandosi essa stessa ora al loro esterno ora al loro interno, determinandosi cioè come soglia. Yog-Sothoth.

            La trascendenza è la soglia dell’immanenza, il «blasfemo» è da ricercarsi nelle profondità della terra e dell’oceano; in altre dimensioni, certo, ma dimensioni che intersecano le nostre o che per una volta, un tempo e forse ancora, più in là, sono state e saranno tangenti rispetto a quella che ora noi abitiamo e che crediamo essere l’unica e la sola. È la filosofia della storia di Lovecraft, la sua politica. Di questa narrano i racconti, il cui weird snocciola una filosofia della storia al cui cuore si situa un pensiero politico tanto più inquietante tanto più lo si consideri nel suo carattere di avvertimento o avvisaglia per il genere umano di quegli orrori che, sopiti, minacciano di non rimanere tali, di quell’irreale che deve conservarsi a bordo del reale, sulla pagina scritta, perché a farlo traboccare nel reale si sarebbe definita la catastrofe per l’uno o per l’altro o, addirittura, per l’uno e per l’altro, com’è peraltro rischiato di succedere quando, nel cuore dell’Europa, un gruppo prima e un’intera nazione poi tentarono, asservendo la tecnica alla mistica, di risvegliare ciò che da tempo immemore attende sognando; ma, per allora, Lovecraft avrebbe lasciato questo mondo e diversi Stati si sarebbero apprestati a scongiurare, a costo di un’altra guerra mondiale, la minaccia cui stava cospirando l’Ordine Nero nazista.

 

Bibliografia

  • Crowley A., Il testamento di Magdalen Blair, ABEditore, Milano 2018
  • Joshi S.T., Io sono Providence. La vita e i tempi di H.P. Lovecraft, vol. 1: 1890-1920, Providence Press, Bologna 2019
  • Lovecraft H. P., Tutti i racconti, Mondadori, Milano 2015
  • Lovecraft H. P., Teoria dell’orrore. Tutti gli scritti critici, Castelvecchi, Roma 2001
  • Pauwels L. e Bergier J., Il mattino dei maghi. Introduzione al realismo fantastico, Mondadori, Verona 1971

[1]Louis Pauwels e Jacques Bergier, Il mattino dei maghi. Introduzione al realismo fantastico, Mondadori, Verona 1971, p. 172.

[2]Ibid.

[3]Ivi, p. 426.

[4]Aleister Crowley, Il testamento di Magdalen Blair, ABEditore, Milano 2018, p. 64.

[5]Ivi, p. 63.

[6]https://arkhamarchivist.com/wordcount-lovecraft-favorite-words/

[7]Howard Philips Lovecraft, Nyarlathotep, in Id., Tutti i racconti, Mondadori, Milano 2015, p. 118.

[8]Howard Philips Lovecraft, Il richiamo di Cthulhu, op. cit., p. 327.

[9]Howard Philips Lovecraft, Il caso di Charles Dexter Ward, op. cit., p. 530.

[10]Howard Philips Lovecraft, L’orrore di Dunwich, op. cit., p. 610.

[11]Howard Philips Lovecraft, Colui che sussurrava nelle tenebre, op. cit., p. 647.

[12]Howard Philips Lovecraft, La maschera di Innsmouth, op. cit., pp. 810-811.

[13]Howard Philips Lovecraft, Le montagne della follia, op. cit., p. 705.

[14]Ivi, p. 714.

[15]Ivi, p. 753.

[16]Altri termini, come ad esempio «nefando» od «orribile», vengono impiegati in sua vece, ma in questo caso si tratta di una vera e propria infedeltà al testo in sede di traduzione.

[17]Howard Philips Lovecraft, L’orrore di Dunwich, op. cit., p. 613.

[18]Il poeta che la compone non era di fede musulmana, ma adorava entità sconosciute, quali Yog-Sothoth e Cthulhu.

[19]Lo stesso Abdul Alhazred parla il linguaggio analogico della poesia e a Damasco compone lo pseudobiblion in seguito alla visita di Irem, la Città delle Colonne, dove sostiene «di aver trovato sotto le rovine di una sconosciuta metropoli del deserto i segreti e gli annali mostruosi di una razza più antica dell’umanità» (Howard Philips Lovecraft, Storia del Necronomicon, op. cit., p. 590).

[20]Howard Philips Lovecraft, La palude della luna, op. cit., p. 151.

[21]Howard Philips Lovecraft, La paura in agguato, op. cit., p. 213.

[22]Ibid.

[23]Ivi, p. 216.

[24]Ivi, p. 217.

[25]Ivi, p. 221.

[26]Howard Philips Lovecraft, L’orrore sovrannaturale nella letteratura, in Id., Teoria dell’orrore. Tutti gli scritti critici, Castelvecchi, Roma 2001, p. 169

[27]Howard Philips Lovecraft, La paura in agguato, op. cit., p. 223.

[28]Howard Philips Lovecraft, Il colore venuto dallo spazio, op. cit., p. 573.

[29]Howard Philips Lovecraft, Alla ricerca del misterioso Kadath, op. cit., p. 378.

[30]Cfr. S.T. Joshi, Io sono Providence. La vita e i tempi di H.P. Lovecraft, vol. 1: 1890-1920, Providence Press, Bologna 2019, pp. 541-576.

[31]Anche il sogno, in Lovecraft, non è mai realmente slacciato al reale, sia che questo faccia da punto di partenza a quello (Celephaïs) sia che il reale esista a livello meta-onirico (La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath) o viceversa (La stella polare).

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