L’Uroboro, o Oroboro, o Ouroboros, è un simbolo molto antico che rappresenta archetipicamente la condizione primigenia psicologica di un essere umano, prima che sviluppi la personalità.
Troviamo questo simbolo in moltissime culture antiche, viene ripreso da F. W. Nietzsche nel diciannovesimo secolo per indicare la ciclicità del tempo, e l’eterno ritorno dell’uguale.
L’eterno ritorno dell’uguale è una teoria filosofica, più simile a un’oscura profezia, che a una teoria comprovata e dimostrata, secondo la quale tutte le cose devono necessariamente ripetersi nel tempo, sempre identiche, e per raggiungere la condizione di Oltreuomo, “Ubermensch”, il filosofo tedesco scrive che è necessario superare la paura dell’eterno ritorno dell’uguale.
“Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina»? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?” – La Gaia Scienza, F. W. Nietzsche
Ouroboros rappresenta un serpente o un drago o un coccodrillo che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine.
Uroboro deriva dal greco οὐροβόρος / οὐρηβόρος (ὄφις), ourobóros / ourēbóros (óphis) composto di οὐρά (coda) e del suffisso -βόρος, corrispondente al latino -voro; dunque (serpente) che si morde la coda.
Nella prospettiva del pensiero di Nietzsche, la ciclicità del tempo non è qualcosa che deve spaventare, ma qualcosa che bisogna benedire, come in “Così parlò Zarathustra”, nella visione del profeta il “sì” alla vita è fondamentale per raggiungere lo stato di Oltreuomo, e lasciarsi alle spalle la morale e il tipo di esistenza retrogrado e antiquato della cultura occidentale, che Nietzsche definisce decadente.
La raffigurazione più antica dell’Ouroboros è stata trovata nella tomba di Tutankhamon della XVIII dinastia.
Nell’immagine, incisa all’interno del secondo scrigno, che conteneva il Sarcofago del Re, sono rappresentati due serpenti che si mordono la coda e circondano la testa e i piedi di una figura divina mummiforme.
Entrambi i serpenti sono manifestazioni della divinità Mehen, il benefico Dio serpente che protegge la Barca solare di Ra e il cui nome significa “colui che è arrotolato”.
Un’altra famosa immagine è quella che si trova nel Papiro di Dama-Heroub, della XXI dinastia, nella quale si trova Horus bambino, all’interno del Disco Solare, sostenuto dal Leone Akhet (simbolo dell’orizzonte dove il sole sorge e tramonta) e circondato dal dio serpente Mehen, ancora una volta nella forma di un uroboro. Un capitolo a parte va riservato all’interpretazione della figura geroglifica dell’uroboro fatta da Orapollo, scrittore egiziano di Nilopoli, autore di Hieroglyphiká, un’opera in due libri in lingua copta sui geroglifici, non anteriore al sec. IV d.C., scoperta nel 1422 dal viaggiatore Cristoforo Buondelmonti e portata alla corte di Cosimo de’ Medici.
Nel Libro Primo, Capitolo Secondo non viene nominato l’uroboro, ma viene descritto un Serpente che si divora la coda quale simbolo usato dagli antichi Egizi per descrivere il Mondo, l’Universo e l’Unità di tutte le cose.
“Quando vogliono scrivere il Mondo, pingono un Serpente che divora la sua coda, figurato di varie squame, per le quali figurano le Stelle del Mondo. Certamente questo animale è molto grave per la grandezza, si come la terra, è ancora sdruccioloso, perché è simile all’acqua: e muta ogn’anno insieme con la vecchiezza la pelle. Per la qual cosa il tempo faccendo ogn’anno mutamento nel mondo, diviene giovane. Ma perché adopera il suo corpo per il cibo, questo significa tutte le cose, le quali per divina provvidenza son generate nel Mondo, dovere ritornare in quel medesimo.”
Anche nel Libro dei Morti, nel capitolo LXXXVII, vi è una descrizione che sembra corrispondere a quella del serpente che si morde la coda.
“Io sono Sata, allungato dagli anni, io muoio e rinasco ogni giorno, Io sono Sata che abito nelle più remote regioni del mondo.”
Le “più remote regioni del mondo” sono le più remote zone della psiche umana, analizzando l’architettura antica e la mitologia antica e le religioni antiche troviamo il simbolo circolare quasi ovunque, a partire dalla conformazione delle città celtiche, ad arrivare alle mura di Atlantide, cerchie di mura simili ad orbite celesti, e anche le mura di Troia riportano al modello circolare.
Nella fisica e nella chimica moderna, l’atomo di Bohr rimanda esattamente, dal punto di vista simbolico, alla conformazione delle mura di Atlantide e di Troia.
L’universo è strutturato secondo modelli archetipici presenti nella psiche umana, che si esplicano attraverso l’architettura e l’arte.
L’Uroboro è un simbolo mistico antichissimo, un misterioso tempo che si ripete all’infinito.
Guardando tra le sue spire si può percepire il dispiegarsi delle epoche e delle ere degli uomini, e non solo, l’intero universo risuona e riecheggia nella prospettiva infinita del tempo circolare, anche nel simbolo del Taijitu, la raffigurazione taoista del dualismo yin / yang.
Lo yin e lo yang si completano l’un l’altro, formando l’unità. Secondo questa prospettiva, l’esperienza umana tutta si configura nell’esperienza della dualità, per poi scoprire, tramite un’attenta percezione e meditazione sull’universo stesso, e sulla profondità e immensità dei cieli, che la dualità non esiste, e tutto è uno.
Nietzsche, nella teoria dell’eterno ritorno dell’uguale, e nel superamento di esso, propone una prospettiva di “illuminazione” filosofica e spirituale secondo la quale l’Oltreuomo, l’essere umano che è andato oltre, non ha paura del tempo, ma dice di “sì”, infinitamente “sì”, passando dall’ “io devo” all’ “io voglio”, “Ich Will”, attraverso la volontà di potenza.
“Vidi un giovane pastore che si contorceva soffocato, col volto contratto; e dalla bocca gli pendeva un grosso serpente nero.
Quando già avevo io veduto un’immagine di così triste ribrezzo e di si livido orrore in un volto umano?
Forse egli dormiva, e il serpente gli si era cacciato nella gola, attaccandovisi coi denti?
La mia mano afferrò il serpente e lo tirò a sè — invano! Non riuscii a strapparlo dalla gola. Allora involontariamente gridai: «Mordi con tutta forza: Mordi!
«Stacca coi denti la testa! Mordi con forza», così gridava qualche cosa in me; il mio orrore, il mio odio, il mio ribrezzo, la mia pietà, tutto il bene e tutto il male in me s’unirono in un sol grido.
O voi arditi, a me dintorno! Voi cercatori, voi tentatori, e voi tutti che con accorte vele v’imbarcate per mari inesplorati! Oh voi tutti che amate gli enigmi!
Sciogliete l’enigma, ch’io intravvidi allora: interpretatemi la visione del solitario tra i solitari!
Poichè quell’era una visione e una previsione: — che cosa io vidi allora in una parabola? E chi è colui che deve venire un giorno?
Chi è il pastore, nella cui gola si cacciò il serpente? Chi è l’uomo, nella cui gola entrerà tutto ciò che è più pesante e più nero?
Ma il pastore morse, come gli aveva consigliato il mio grido: egli morse per bene! Lontano da sè egli rigettò la testa del serpente: — e sorse in piedi.
Non più un pastore, non più un uomo — ma un rinnovato, un illuminato, che rideva!
Non mai ancora sulla terra uomo rise al pari di lui!” – Così parlò Zarathustra, F. W. Nietzsche
Non più un pastore, non più un uomo, ma un rinnovato, un illuminato, che rideva, non mai ancora sulla terra un uomo rise al pari di lui.
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