I racconti di Satrampa Zeiros – “Occhi chiusi” di Ambra Stancampiano

Sono nato in una terra incantata pregna di fuoco, di aria e di odori.

Qui un antico dio greco ha stabilito la sua fucina e si incontrano due mari di correnti vorticose e tonalità cristalline. La mia isola e le sue sorelle portano il nome del vento, e danzano nel mare vestite di rocce muscose e sabbie multicolori.

La luce di paesaggi verdi, azzurri e gialli ha cresciuto i miei occhi, la melodia dello scrosciare delle onde e del frinire dei grilli ha addestrato le mie orecchie, spiagge fine e pietrose hanno carezzato le mie mani di bambino e sorretto le mie gambe fin dai primi passi incerti di neonato; il mio naso,  da quando ho memoria, indaga i sentori aspri del mare, del mirto e delle scogliere.

 

Vivo nella casa più vicina al vulcano nero, lontano dalle casette bianche riunite in un paese come un gruppo sparuto di comari che cuttigghiano intorno alla piazza. 

 

Mia madre lavora alla cava di pomice dell’isola più grande assieme ad altri confinati. Parte ogni mattina quando l’aria è ancora nera della notte e attraversa l’isola in silenzio, mentre i primi raggi violacei dell’alba giocano a nascondino con la bocca del vulcano. Ogni tanto sospira, guardando verso l’orizzonte; lo so perché un paio di volte l’ho accompagnata alla barca che porta lei e gli altri a lavorare, col signore vestito di nero che li insulta urlando di far presto. 

Torna ogni sera, tutta bianca come una statua, quando il sole si è già tuffato nell’acqua, rossa per quell’abbraccio che avviene ogni giorno ma sembra sempre imbarazzarla.

 

Mio padre non c’è. In paese dicono che è andato alla guerra e che è un grande onore, ma mamma non sembra contenta. L’unica cosa che conosco di lui è la faccia, dalla fotografia ingiallita sul tavolino accanto al lettone in cui lei mi accoccola ogni sera: i capelli impomatati, lo sguardo fiero, un cappello da carabiniere col pennacchio ritto in pompa. Mamma passa intere notti a scrivere davanti a lui, consumando candele su candele in grosse lacrime di cera, che mia nonna la mattina rimescola in un pentolone per restituirle a nuova vita.

È l’unica fotografia che abbiamo in casa, e una volta le ho chiesto perché non ce ne sia neanche una in cui sono insieme, magari al loro matrimonio. Lei è arrossita, ha balbettato che ci sono cose più importanti dei matrimoni, che la guerra è un mostro fatto di piombo che si mangia il tempo, e a volte è meglio essere felici e basta. La nonna le ha indirizzato un’occhiata piena di rimprovero e lei ha subito smesso di parlare.

 

 

Mia nonna non ha mai impugnato una penna né scritto niente, e scuote la testa guardando quell’unica figlia che si consuma come un mozzicone di candela appresso a quei serpenti d’inchiostro che lei non è in grado di decifrare. Ogni sera, borbotta come la caffettiera che le prepara per il mattino di questi giovani moderni che mettono le idee davanti ai sacri doveri della casa, ma quando mia madre crolla con la testa sul tavolaccio di legno duro, gliela accomoda con dolcezza su un cuscino morbido, imbastito con vecchi abiti smessi.

In paese si dice che nonna Santuzza sia una mavàra, e le comari sputano sulla strada polverosa dopo che lei passa; ogni tanto, però, vengono a trovarci con la faccia grigia e lo sguardo sconfitto, portano regali e la trattano con rispetto, come fanno con padre Fazio.

Nonna le apostrofa con una battuta ma non porta loro rancore, e ascolta sempre tutto quello che hanno da dirle davanti a una tazza di caffè e a qualche pastina di mandorla prima di chiudersi nella sua stanza a bisbigliare insieme a loro cose che mi è vietato ascoltare.

 

Quel giorno il vulcano si era svegliato di malumore e brontolava cupo; sembrava aver trasmesso quelle sue intenzioni rabbiose anche al cielo plumbeo e al mare, che gli rispondeva dappresso con un ribollire di ruggiti liquidi. È arrivata una lettera, ma non è stato il solito postino a consegnarcela; un carabiniere in divisa scura si è spinto fino alla nostra porta e l’ha gettata in malo modo tra le mani della nonna:

«Mi pare giusto che lo sappiate pure voi.»

Ha detto sprezzante, fissandomi con occhi incarogniti. La busta era già strappata, il foglio spiegazzato. Cattive notizie.

Ci siamo guardati impotenti, di fronte a quel pezzo di carta che ci nascondeva qualcosa. Abbiamo aspettato la mamma fino al tramonto, sbirciando con ansia verso i fogli bianchi posati sul tavolo.

 

Mamma è tornata che era quasi buio, con la faccia tutta sporca di pomice. Si è irrigidita sulla porta, fissando la macchia bianca sul tavolo. Piangeva ancor prima di aprirla: l’esercito non scrive mai per dare buone notizie. Ha aperto la busta ed è caduta in ginocchio, sussurrando la parola «Disperso…»

La nonna le ha messo una mano sulla spalla e le ha detto che le cose scritte non sanno niente, e che avrebbe chiesto la verità a San Giorgio.

Mamma ha alzato la testa e l’ha guardata confusa, nonna l’ha trascinata nella sua stanza e ha chiuso la porta. Mi sono messo a origliare ma non capivo nulla.

 

Per otto giorni la nonna ha smesso di fare caso a me e a tutte le cose di questo mondo, mormorando una nenia ad occhi chiusi mentre si dedicava alle sue solite faccende avanzando come una cieca, a tentoni. Ogni volta che mamma ritornava dalla cava, la trascinava con sé nella sua stanza e io dovevo andare a letto da solo, senza baci sulla fronte e orfano di quella tazza di latte caldo che m’imponevano di bere per crescere grande e forte.

La nona sera mi sono arrabbiato, ho piagnucolato che non riuscivo a dormire bene, privo di quelle attenzioni. Mamma mi ha gettato addosso uno sguardo umido, nonna l’ha tratta via come se fossi una zanzara fastidiosa. Si sono chiuse ancora nella stanza che mi è vietata. Allora, indispettito, mi sono appoggiato all’uscio che ha ceduto sotto il mio peso di bambino e si è spalancato.

Non me l’aspettavo, sono inciampato nei miei stessi piedi.

 

Mamma si è arrabbiata:

«Che ci fai qui? Fila via!»

La nonna l’ha guardata e ha detto, con la voce sottile come uno spillo:

«Be’, è suo padre. E tu hai rinnegato i sacramenti per quello schifìo di comunismo, non è tuo marito. Se c’è qualcuno che merita davvero di sapere in questa casa, non sei tu.»

Avevo già richiuso la porta alle mie spalle e stavo andando verso il letto con la coda tra le gambe, la nonna l’ha riaperta leggermente e ha mormorato:

«Puoi entrare, ma devi promettermi che resterai a occhi chiusi. Qualsiasi cosa tu senta.»

Le ha risposto il vulcano, borbottando dalle viscere del mare ai nostri piedi. L’aria puzzava di zolfo.

 

Al centro della stanza bruciava una candela grossa e bianca, come quelle che si mettono al cimitero. Mamma stava seduta per terra, singhiozzava; si è interrotta, mi ha guardato, poi ha fissato la nonna con rimprovero ma non ha detto nulla.

La nonna si è seduta, ha chiuso gli occhi e ha cominciato a recitare, muovendo la testa avanti e indietro:

«San Giorgio Cavaleri, vui siti a cavaddru e io sugnu a pedi, pi la vostra santità puttatimi insonnu a virità.»

La candela profumava di chiesa. la mamma ha smesso di singhiozzare, ha tirato su col naso in un modo buffo, cercava di non fare rumore; la nonna ha ripetuto la nenia altre sei volte, poi è rimasta in silenzio.

 

È arrivata la notte, potevo sentirla scendere come una coperta umida sulle mie spalle; tutto intorno, uno strano silenzio: anche i grilli hanno smesso di cantare. Il vulcano continuava a borbottare, ma adesso sembrava di sentire un leone fare le fusa, lontano. La nonna ha ripetuto la nenia un’altra volta, ho sentito gli zoccoli di un cavallo avvicinarsi.

«San Giorgiu cavaleri…»

Il rumore del cavallo si avvicinava sempre di più, la nonna ha finito di recitare; in quello stesso momento il vulcano ha emesso un boato, il terreno vibrava, la porta della stanza si è aperta e richiusa sbattendo dietro la spinta di un improvviso vento fortissimo e caldo.

Un nitrito ha abbattuto il portone d’ingresso, due paia di zoccoli si sono fatti strada –clop clop… clop clop – come se nell’ingresso della nostra umile casetta non ci fossero mobili a sbarrare il percorso; il cavallo ha attraversato la casa – clop clop… clop clop… clop clop… clop clop – fin dietro la porta della nostra stanza. Si è fermato. Ho sentito un piccolo sbuffo. Qualcuno ha bussato, tre colpi sordi che venivano dalla porta, dal soffitto, dalle persiane sprangate, dal pavimento di battuto su cui stavamo seduti, aggrappati al fumo della candela come tre naufraghi in quel mare di buio. Nessuno ha chiesto “Chi è?”

Una voce che sembrava vibrare dalle pareti stesse ha detto:

«Spe gaudentes in tribulatione patientes, orationi instantes.»

Qualcosa mi tremava dentro, all’altezza dello stomaco. Avevo voglia di piangere.

Nonna ha risposto, sottovoce come se stesse ancora pregando, da un angolo della stanza che mi sembrava lontanissimo:

«Necessitatibus sanctorum communicantes, hospitalitatem sectantes.»

La porta si è aperta da sola, senza neanche un filo di vento. Il cavallo è entrato – clop clop… clop clop – ha fatto un giro su sé stesso – clop clop… clop clop… clop clop… clop clop – si è fermato proprio accanto a me, ha sbuffato di nuovo. Il pavimento e le mura vibravano al ritmo dei suoi zoccoli.

Sentivo la sua presenza a un passo dalla mia nuca come se due occhi roventi mi stessero fissando, un respiro ritmico e infuocato batteva il tempo del mio cuore atterrito. Puzzava come tutti gli altri cavalli, era davvero il cavallo di San Giorgio? Possibile che un essere così rumoroso e graveolente venisse dal cielo? E se veniva dal cielo, come padre Fazio diceva dei santi, come aveva fatto a planare sulle nuvole e arrivare fino alla nostra casa?

Tutte queste domande, urlate dentro la mia mente, si sono perse nel silenzio della notte. La nonna si è schiarita la voce, il cavallo ha avuto un fremito, ho sentito un tonfo sordo proprio accanto alla mia faccia. Un nitrito nervoso, un alito cattivo proprio sul mio orecchio. Uno schiocco della lingua, uno scatto di dentatura.

 

Ho aperto gli occhi in un sussulto e mi sono ritrovato davanti un cavallo di un bianco accecante, sembrava fatto di luce. I suoi muscoli asciutti erano terreni, reali. Fremevano di rabbia, pronti a caricare un nemico invisibile che forse si trovava alle mie spalle. Il cavaliere che lo montava era avvolto in un’armatura dorata in cui poteva specchiarsi il mondo intero, lo teneva per le briglie con una mano sola, senza mostrare nessuna fatica; l’altra mano impugnava una lancia insanguinata, che rimandava la luce guizzante di mille fulmini. Mi ha guardato con occhi fiammeggianti e poi ha detto, con una voce cavernosa che dalle sue labbra rimbombava nelle mura:

«Chi osa guardare un santo non ha più diritto alla vista!»

Mi ha colpito sulla faccia con la sua lancia. Sono caduto, mia madre gridava.

 

Mi sono staccato dal mio corpo. Galleggiavo vicino al soffitto e nulla mi sembrava più importante, vedevo tutto ma non sentivo alcun rumore. Mia madre avanzava a tentoni verso di me con gli occhi ancora chiusi, ha travolto la candela, che si è spenta sul pavimento; mi ha preso tra le sue braccia, mi stringeva e strattonava senza che io potessi sentire il suo tocco disperato. Il cavaliere dorato è ripartito al galoppo, ha attraversato il muro. Un vento rabbioso ha travolto la nostra casa, sbattendo le porte e scompigliando i capelli della mamma, le erbe della nonna appese a disseccare, le tende ricamate alle finestre.

La nonna ha aperto gli occhi di scatto, come se l’avesse sentito passare, e mi è corsa accanto; ha preso due grosse monete d’argento da una tasca e me le ha messe sugli occhi mormorando qualcosa che non riuscivo a sentire. La faccia ha cominciato a bruciarmi, sono tornato indietro.

In tutto quel bailamme, prima di scomparire, San Giorgio ha detto qualcosa che ho sentito vibrarmi dentro, ma mamma urlava e nonna, che non ne parla volentieri, sostiene di non essere riuscita a sentire il responso dell’oracolo.

 

È passato tanto tempo e non ci vedo più. La gente mi evita, si dice che chi viene toccato da un santo ci lasci il senno. Quei pochi amici con cui correvo tra le spiagge di pietra e la macchia odorosa sul fianco del vulcano, adesso mi prendono in giro per il bastone con cui sono costretto a orientarmi.

Io però non sono triste: la nonna mi ha detto che quelli come me hanno il dono di sentire le cose che stanno tra cielo e inferno perché non sono distratti dai colori e dalle forme, e che se sarò paziente mi insegnerà ad ascoltare.

Forse così troverò mio padre.

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