I racconti di Satrampa Zeiros – “La battaglia di Shinyako” di caterina Franciosi

Hirata del clan Haruhiko camminava a passo svelto lungo la strada. I tuoni rotolavano in lontananza, oltre le nuvole scure e compatte che si avvicinavano sospinte dalle ali del vento. L’aria era già carica dell’odore della pioggia e le chiome degli alberi erano scosse dalle folate improvvise.

Il giovane accelerò l’andatura, la katana che gli dondolava al fianco seguendo i suoi movimenti. Si era attardato troppo a casa di Hinako, la sua promessa sposa, ma le occasioni per andare a trovarla erano molto rare, e quel giorno Hirata doveva portare un’importante notizia: il daimyo aveva dato il suo permesso per celebrare le nozze tanto attese. Hirata era corso ad avvertire la famiglia di Hinako, recando con sé la propria spada: il padre della giovane non sembrava ancora approvare del tutto il matrimonio, così Hirata aveva pronunciato un solenne giuramento. Sotto agli occhi sospettosi del vecchio, aveva promesso sulla sua katana di proteggere e onorare la bella Hinako per sempre, finché i grandi kami protettori glielo avessero concesso. Suo padre era rimasto sinceramente sorpreso dal gesto di Hirata e qualcosa sembrava essersi finalmente mosso in lui. Per la prima volta, il suo sguardo aveva perso la consueta severità e un sorriso spontaneo si era aperto sul suo viso coperto di rughe. Per questo Hirata non si era preoccupato troppo del temporale in arrivo. Dopo quanto era accaduto, il suo cuore era leggero e nulla avrebbe potuto turbarlo.

Il vento si alzò di nuovo. Sollevò i lembi del kimono di Hirata e al samurai parve di udire uno strano suono alle sue spalle. Si fermò e tese le orecchie, ma riuscì a sentire soltanto lo scrosciare del fiume poco più avanti. Riprese a camminare in mezzo al turbinio delle foglie, cercando di non prestare troppa attenzione all’inquietudine che gli si era appena aggrappata allo stomaco.

Aiuto…

Dunque Hirata non si era sbagliato. C’era qualcuno lì. Si voltò, portando la mano sulla katana senza neppure accorgersene, ma la strada era vuota. Solo foglie e polvere danzanti.

Riprese a camminare, tenendosi vicino al margine della strada. Il fiume scorreva lì in basso, le orecchie di Hirata erano piene del fragore scrosciante dell’acqua. La luce intorno a lui era sempre più bassa, il buio del temporale aveva inghiottito anche gli ultimi raggi del sole. Proprio in quel momento, il vento girò. Divenne freddo e umido e le prime gocce di pioggia cominciarono a chiazzare la terra e a schizzare i sandali di Hirata.

Aiutatemi, vi prego…

“Dove siete?”

Hirata aguzzò lo sguardo nel buio, senza scorgere nessuno. Riprese a camminare a passo sostenuto, con le ombre degli alberi del bosco che si allungavano come dita oscure nel tentativo di ghermirlo. Un fulmine cadde poco più avanti, tra gli alberi, illuminando a giorno le tenebre. Hirata trasalì, mentre un tuono faceva tremare la terra. Fu sotto quello squarcio luminoso che il samurai scorse la figura striminzita accovacciata a bordo strada.

Da dove era arrivata? Hirata era certo che fino a qualche momento la via fosse deserta.

“State bene?”

Hirata si avvicinò. Sembrava una donna coperta di stracci. Lunghe ciocche nere e grigie le cadevano in disordine sulla schiena.

“State bene?” ripeté Hirata.

Forse era sorda. Le posò una mano sulla spalla e la scosse gentilmente. Allora la donna si voltò e il samurai fece un salto all’indietro, cadendo nel fango con un grido strozzato.

Un volto glabro e liscio, fatto di sola pelle, galleggiò sopra di lui. Laddove ci sarebbero dovuti essere gli occhi c’erano soltanto due cavità appena accennate. Il naso e la bocca erano del tutto inesistenti, così come le orecchie. I capelli scivolarono dalla testa del demone, rivelando il pallido cranio.

No!” Hirata indietreggiò carponi, senza alcuna dignità. “Non farmi del male!

Lo spirito senza volto ridacchiò e inclinò il capo di lato, quasi lo stesse osservando incuriosito.

Da quali labbra fuoriusciva quella risata? Hirata non perse tempo a domandarselo. Si rialzò e scappò via alla cieca in direzione del bosco, con i sandali che scivolavano sul fango.

Un altro fulmine illuminò a giorno l’oscurità e Hirata non riuscì a trattenere un urlo. Non sapeva quanta distanza avesse messo fra sé e il demone senza volto, ma ormai gli alberi erano fitti attorno a lui e il rombo del fiume era stato inghiottito dal frastuono della tempesta. Il samurai si fermò. Si portò una mano al petto e respirò a fondo. Sotto la pioggia scrosciante, cercò di calmare il suo spirito inquieto. Si voltò, scrutando nella direzione in cui era venuto. Non c’era traccia dello spirito. Si era forse nascosto da qualche parte, pronto a coglierlo impreparato una seconda volta?

Hirata non lo sapeva. E, guardandosi intorno, si rese conto di non sapere neppure dove si trovasse. La foresta lo avvolgeva come un labirinto di scheletriche ombre. Ogni sentiero sembrava uguale all’altro e Hirata capì di essersi perso.

Ma com’era possibile? Non era la prima volta che percorreva la strada vicino al fiume per tornare a casa, ma in effetti non si era mai spinto così a fondo tra il folto degli alberi. Alzò lo sguardo al cielo e pesanti gocce di pioggia gli schiaffeggiarono le guance e la fronte. Chiuse gli occhi, mano alla spada e, proprio come il suo Maestro gli aveva insegnato, cercò di abbandonare ogni preoccupazione e di ritrovare la calma. Il momento presente. La Via.

“Nobile samurai?”

Hirata si voltò, sguainando la spada e impugnandola a due mani dinanzi a sé. Un uomo vestito di ocra, con la veste appesantita dalla pioggia e gocce lucide che gli scivolavano dalla testa rasata fin sulla spalla nuda, lo fissava con un sorriso sereno, quasi non si fosse trovato nel bel mezzo di un temporale.

“Chi siete?”

Hirata riconobbe in lui un bonzo e rinfoderò la katana. Il monaco fece un piccolo inchino.

“I miei fratelli mi chiamano Yoichi, nobile signore.”

“Io sono Hirata, del clan Haruhiko. Dove mi trovo?”

“Nella foresta di Shinyako, nobile Hirata.”

Il samurai non aveva mai sentito quel nome, ma Yoichi chinò il capo e continuò a parlare.

“I miei fratelli hanno avvertito la vostra presenza e mi hanno chiesto di chiesto di venire ad aiutarvi. Se vorrete seguirmi al monastero troverete cibo e abiti asciutti pronti per voi.”

Hirata rinfoderò la katana, ma la sua fronte si aggrottò.

“Mi stavate aspettando?”

“No, nobile samurai.” Yoichi scosse il capo fradicio di pioggia. “Ma abbiamo percepito la vostra paura e il vostro affanno e siamo accorsi in vostro aiuto.”

“Vi ringrazio, dunque,” annuì Hirata.

Il monaco tese una mano.

“Se volete seguirmi, vi condurrò al monastero.”

I due uomini si incamminarono, fianco a fianco, prete e guerriero. Hirata si guardava attorno meravigliato, curandosi a malapena della pioggia che ora si era intensificata e scrosciava senza pietà dal cielo. Anche sforzandosi, non ricordava affatto quella parte della foresta, né tantomeno quel sentiero costeggiato dalle due file parallele di lanterne basse e tozze.

Da quando c’era un monastero in quella zona? Una strana sensazione si abbatté su Hirata non appena posò il sandalo sulle pietre del giardino. Man mano che si avvicinava all’edificio dai tetti aguzzi e si lasciava la foresta alle spalle, tutto il resto del mondo sembrò perdersi nell’oblio.

Le lanterne del porticato dondolavano mosse dal vento. Yoichi sorpassò il samurai e si avvicinò al grande portone di legno. Allungò una mano verso la campana all’ingresso, ma la porta si aprì prima che il monaco potesse suonarla. Dallo spiraglio tra i legni scheggiati comparve la figura pallida e vestita di rosso di un altro gonzo.

“Osada,” lo ringraziò Yoichi chinando il capo.

“Bene arrivati.”

I tre si scambiarono un breve inchino di circostanza, poi Osada si scostò per permettere al confratello e al samurai di entrare.

“Per favore, Yoichi, conduci il nostro onorevole ospite nella stanza che gli abbiamo destinato, così che possa cambiarsi.”

Le parole di Osada si persero lungo i corridoi foderati di legno e statue del Buddha. Yoichi annuì e indicò a Hirata un punto vicino alla porta.

“Lasciate pure qui i vostri sandali.”

Il samurai obbedì. Sciolse i legacci e depose le proprie calzature accanto a quelle fradice che Yoichi si era appena levato. I due proseguirono scalzi sulle assi lisce del pavimento, i loro passi che rimbombavano appena. Una luce gialla e soffusa si diffondeva dalle lanterne attraverso le sottili pareti di carta degli shoji. Solo lo scrosciare della pioggia ricordava a Hirata dell’esistenza del mondo esterno.

“È molto silenzioso qui,” mormorò Hirata. 

“Sì,” annuì Yoichi. “Il monastero è luogo di meditazione e preghiera. Cerchiamo di tenere ogni affanno lontano da qui.”

“Capisco.”

Yoichi si fermò e fece scorrere un fusuma come tanti altri.

“Eccoci,” disse, indicando la stanzetta raccolta nascosta al di là della parete. “Potete cambiarvi e raggiungerci nella sala comune per mangiare con noi.”

“Grazie.”

Yoichi si inchinò e si allontanò lungo il corridoio.

 

Hirata impiegò un po’ di tempo a cambiarsi e a trovare il corridoio giusto verso la sala comune. Era più stanco di quanto pensasse. Doveva essere colpa delle troppe emozioni della giornata. I monaci erano già raccolti attorno ai tavoli, in silenzio. Qualche testa si sollevò curiosa quando il samurai entrò. Yoichi lo stava aspettando e, con un cenno della mano, lo invitò ad accomodarsi accanto a lui e a Osada. Una ciotola di riso fumante era già pronta al suo posto.

“Grazie,” mormorò Hirata, inginocchiandosi a terra. “Per il vostro aiuto e per la vostra ospitalità.”

“Siamo tutti fratelli dinanzi alla necessità,” rispose Osada. “Diteci, piuttosto… Come mai vi trovavate nel bosco?”

“Ho incontrato uno spirito senza volto. Pensavo volesse attaccarmi. Mi sono spaventato e sono scappato,” rispose Hirata a capo chino.

Anche se i monaci non fecero commenti, Hirata sapeva che non era onorevole per un samurai cedere alle emozioni in quel modo. Il suo maestro non sarebbe affatto stato orgoglioso di lui. Se fosse stato ancora vivo, lo avrebbe battuto con il bastone finché Hirata non avesse imparato la lezione. I suoi pensieri corsero ai lunghi anni di addestramento samurai, ma prima che le memorie potessero catturarlo, il suono malinconico di un biwa lo riportò nella sala comune del monastero. In fondo, in un angolo della sala, seduto a terra accanto agli shoji, un monaco dagli occhi lattiginosi aveva intonato una melodia lenta e cadenzata. Un antico canto fluì dalle sue labbra, al ritmo della pioggia.

“Che storia sta raccontando?” domandò Hirata.

“La storia che affligge il nostro monastero,” rispose Yoichi con un sospiro.

Il samurai lo guardò senza capire.

“Spiriti inquieti tormentano questo luogo,” spiegò Osada. “E il noppera-bo che avete incontrato ne è una prova. Persino gli esseri minori come quello che vi ha spaventato percepiscono la crudeltà che è stata perpetrata qui e ne vengono attratti loro malgrado.”

“Cosa volete dire?” insistette Hirata.

“Secoli fa, una sanguinosa battaglia è stata combattuta qui, una battaglia passata alla storia come la battaglia di Shinyako. Il clan invasore Heiji scese da nord e sterminò senza pietà quello di Yasutake, che viveva qui in pace da generazioni. Heiji vinse, ma una donna di Yasutake lo maledì: per la brutalità delle sue azioni, per il male annidato nel suo spirito, la donna condannò il samurai Heiji e tutti i suoi uomini a restare legati a questo mondo. Così, ogni notte di luna piena come questa, gli spiriti tornano a tormentare questi luoghi. Il monastero ha la sfortuna di trovarsi vicino al campo di battaglia, così i morti ci chiamano, ci sfidano. Cercano la guerra. L’antica vendetta.”

Osada fece una pausa e Yoichi continuò al suo posto.

“Solo una spada onorevole può battere il clan dei morti e spezzare la maledizione, tagliando la testa al samurai nero.”

Hirata soppesò le parole dei monaci per un lungo istante. Ora capiva che il suo arrivo lì non era stato casuale. Doveva essere stato un segnale degli spiriti, l’ennesima prova a cui il karma aveva deciso di sottoporlo prima di sposare Hinako.

Hitsuzen. L’inevitabile.

“Per sdebitarmi dell’aiuto ricevuto porrò la mia spada al vostro servizio,” si offrì Hirata. “Ditemi dove si trovano questi spiriti e li affronterò per voi.”

Osada e Yoichi gli fecero un sorriso grato.

“La vostra benevolenza ci onora, nobile samurai,” disse Osada. “Vi condurremo nei pressi dell’antico campo di battaglia. Yoichi vi accompagnerà, tuttavia prima apporremo la nostra protezione su di voi.”

 

Protetti da sutra magici vergati da Osada in persona su ogni parte del loro corpo, Hirata e Yoichi si addentrarono nel cuore della foresta. Grazie agli incantesimi sarebbero stati celati alla vista degli spiriti. Solo la lama della katana di Hirata ne era rimasta priva, in quanto avrebbe dovuto conservare la propria purezza nello scontro.

“Siamo arrivati,” annunciò Yoichi.

Hirata si fermò e si guardò intorno.

“Sembra una radura come tante altre,” commentò con le mani posate sull’impugnatura della spada. “Cosa facciamo?”

“Ci sediamo e aspettiamo,” rispose Yoichi, accomodandosi a terra a gambe incrociate. “Gli spiriti verranno a chiamarci, ma ricordate di ignorare le voci minori. Vorranno solo distrarvi. Rispondete solo al samurai Heiji. È lui che dovete sconfiggere per spezzare la maledizione.”

Sedettero sull’erba fredda e umida e il bonzo iniziò a recitare una litania di preghiere. Sopra di loro, tra le nubi che si andavano sfilacciando, comparve il timido volto della luna piena. Una brezza si levò fra gli alberi, proprio come quella che aveva preannunciato l’arrivo del noppera-bo.

Pur senza vederli, gli spiriti percepirono la loro presenza. Decine di voci sottili corsero tra le foglie degli alberi. Invocavano i loro nomi, li chiamavano, chiedevano il loro aiuto. Ma il monaco e il samurai rimasero immobili e sordi alle loro preghiere. A occhi serrati, sentivano le dita fredde e sfuggenti degli spiriti tentare di toccarli. Di trovarli. Ma le preghiere magiche li tenevano celati nell’oscurità.

Quando le nuvole liberarono la luna e le permisero di riversare la propria luce sulla radura, una voce si levò più forte delle altre.

“Vieni da me. So che sei qui. Affrontami, se ne hai il coraggio.”

Yoichi e Hirata si scambiarono un’occhiata.

“È lui, Heiji,” sussurrò nel buio il bonzo. “Andate da lui, io resterò qui a proteggervi.”

La litania riprese a fluire dalle sue labbra mentre Hirata si alzava e si muoveva in direzione della voce. Le sue mani erano posate sulla katana, pronte a scattare. Il suo respiro era corto e rapido.

“Dove sei?” Il sussurro gli strisciò addosso, facendolo rabbrividire. “Non ti vedo. Mostrati.”

Hirata non rispose e rimase in silenzio. Si mosse piano nella radura, cercando con gli occhi l’ombra del samurai maledetto.

“Ti sento… Dove sei?”

Eccolo.

Hirata scorse una figura massiccia al centro della radura. Sembrava accucciata, con un ginocchio piegato a terra.

In attesa.

Heiji si mosse e Hirata poté distinguere le corna uncinate del suo elmo inarcarsi verso l’alto. La sua armatura era di un nero compatto, eppure Hirata scorse alcune imperfezioni tra le piastre, dove antichi colpi erano affondati.

Heiji alzò la testa e annusò l’aria come un cane. Lembi di carne putrida gli pendevano dalle ossa del volto. I suoi occhi erano vuoti, oscure cavità colme d’odio. Il samurai faceva ruotare la testa tutto attorno nel tentativo di individuare l’intruso. Sebbene sapesse di essere celato alla sua vista, Hirata non riuscì a trattenere un brivido.

Heiji si alzò e tese le braccia all’infuori, afferrando l’aria attorno a sé.

“Ti troverò… Non potrai sfuggirmi per sempre…”

Hirata gli girò attorno, sfuggendo al suo campo visivo. Doveva prenderlo alle spalle. Si spostò, acquattato tra l’erba alta, e lo raggiunse senza fare scatti bruschi. Solo quando fu abbastanza vicino da distinguere ogni buco della sua armatura, si alzò e sguainò la katana. La lama si abbatté con un sibilo sinistro alla base del collo del samurai nero, ma il colpo non arrivò a fondo. La katana si incastrò contro le piastre dell’armatura e Hirata fu costretto a ritrarsi in fretta.

Fu allora che Heiji si voltò e mise a fuoco la spada del suo avversario.

“Eccoti, dunque, codardo che non sei altro!”

Il samurai maledetto sfoderò la propria arma e la calò su Hirata, che fece appena in tempo ad intercettare il colpo e a respingerlo con tutta la forza che aveva in corpo. Lo spirito gli fu di nuovo addosso. Digrignò i denti marci e la sua bocca esalò un alito fetido e pestilenziale che costrinse Hirata ad allontanarsi in preda ai conati.

“Chi sei, tu che osi sfidarmi?” ululò lo spirito, facendo vorticare la katana sopra la testa. “Colui che non ha il coraggio di mostrare il proprio volto e mi attacca alle spalle?”

“Non ti interessi conoscere il mio nome!” gridò Hirata di rimando. “Sappi solo che io sono colui che porrà fine alla tua esistenza dannata!”.

“Mai!”

Heiji scoppiò a ridere, una risata lugubre e cupa che raggelò l’intera radura. Hirata scappò dietro agli alberi, celando la katana alla vista del samurai nero. Non udiva più nemmeno il mormorio delle preghiere di Yoichi e si augurò che il bonzo fosse ancora vivo. Ma non poteva preoccuparsi per lui, ora. L’ombra dello spirito incombeva su di lui, decisa ad annientarlo.

“Sei uno sciocco, non hai idea di chi io sia,” continuò Heiji. “Interi clan si sono piegati al mio cospetto e il glorioso nome di guerrieri invincibili è stato distrutto dalla mia katana. Oblio e distruzione sono miei alleati e non sarà di certo un samurai sconosciuto a battermi.”

“Parli di gloria e vanti vittorie?” gli domandò Hirata, nascosto dietro un tronco nodoso. “Tu, che sei stato sconfitto dalle parole di una donna?”

Heiji lasciò andare un muggito furioso.

“Non una donna,” tuonò. “Magia. Antica e oscura. Non sarebbe dovuta morire, l’avrei voluta tra le mie fila, al mio fianco. Avrei fatto di lei una regina, l’imperatrice di tutte le terre su cui il sole splende. Ma quella sciocca non ha voluto. Ha preferito nascondersi al monastero, cercare l’aiuto dei bonzi, solo per poi trovare la morte sotto la mia lama, abbracciata al corpo di suo marito e di suo figlio. Un vero peccato, ma non sarebbe stata degna dell’onore che avevo deciso di offrirle.”

“È il tuo animo ad essere nero,” ribatté Hirata, spostandosi dietro gli alberi nel tentativo di distrarre lo spirito. “Il male che alberga in te ti ha reso ciò che sei ora.”

“Io non ho paura di mostrare il mio volto, a differenza di quanto stai facendo tu,” rise sguaiato Heiji. “Ti nascondi dietro le preghiere dei monaci… Sciocco! Anche loro alla fine hanno assaggiato il metallo delle nostre spade!”

Ma cosa stava dicendo? I monaci del monastero uccisi? Sciocchezze, aveva parlato e cenato con loro e Osada e Yoichi gli avevano raccontato una storia molto diversa. Il samurai nero voleva di certo ingannarlo…

Hirata si fermò e si accucciò in un piccolo avvallamento del terreno. Heiji gli dava nuovamente le spalle: doveva approfittare di quel momento. Uscì allo scoperto e caricò lo spirito per la seconda volta. La katana catturava i riflessi della luna piena ad ogni suo movimento. Con un fischio sordo, la lama di Hirata calò su Heiji, di nuovo all’altezza del collo, ma prima che potesse toccarlo, lo spirito si voltò con un grido rabbioso. Individuò la spada del suo avversario e cominciò a colpirla senza pietà. Hirata resisteva a fatica, sentendo rimbombare nelle ossa delle braccia ogni scudisciata. Più di una volta cedette e si sentì sfiorare il viso dal metallo gelido. Alto, basso, destra, sinistra. Lama contro lama, la potenza dei morti contro quella dei vivi. I guerrieri si muovevano uno intorno all’altro in una danza letale, roteando le spade e menando colpi all’impazzata, alla ricerca di ogni punto debole su cui poter infierire.

Quando Hirata sentì il bruciore sul braccio, capì che l’ennesimo colpo di Heiji era andato a segno. Si piegò con un rantolo, ma non cedette di un passo: sarebbe stata la fine. Il samurai fantasma lasciò andare una risata gorgogliante e si preparò a colpire di nuovo. Hirata parò l’assalto a fatica, con le braccia che gli tremavano. Sentiva il sangue gocciolare dall’incavo del gomito fino a terra, inzuppando il kimono.

Non poteva continuare così. Doveva…

“Ora incontrerai la stessa fine di tutti coloro che hanno avuto la sciagurata idea di opporsi a me,” ruggì Heiji.

Mai!

Hirata ammorbidì la presa sull’impugnatura della katana. Prese un respiro profondo e lasciò che il suo cuore ritrovasse la calma. C’era troppo impeto nei suoi gesti, troppa paura nei suoi movimenti.

Il samurai cammina accanto alla morte ogni giorno. Affrontala con onore ed eroico coraggio. Che la tua lama sia portatrice di lealtà e compassione. Che i tuoi passi siano saldi mentre combatti il nemico. Che il tuo spirito sia sempre sereno.

Le parole del maestro risuonarono nella mente di Hirata. Anche se la tempesta gli infuriava intorno, la sua mente e il suo cuore dovevano ritrovare il proprio equilibrio. Il samurai chiuse gli occhi, cercando di rallentare i battiti impazziti e il respiro affannoso. Percepiva l’ombra di Heiji allungarsi su di lui, massiccia e letale, ma una nuova forza penetrò le sue membra stanche e ferite. Il mostro si preparò a colpire e Hirata fece altrettanto.

Era pronto.

Obbligò il suo corpo a rimanere impassibile e imperturbabile e riaprì gli occhi.

La katana di Heiji e quella di Hirata si mossero all’unisono e si scontrarono in uno stridio metallico. Scivolarono l’una sull’altra, ruotarono e tornarono ad incontrarsi. I due samurai ripresero la loro danza di morte. Ora Hirata evitava i colpi di Heiji con più facilità e rispondeva con più forza: la sua mente era lucida e non ottenebrata dalla paura della morte.

Heiji mirò alla gola di Hirata, ma il giovane samurai intuì i suoi movimenti. Sgusciò rapido oltre la lama dello spirito. Senza esitare, colse Heiji alla sprovvista. Il mostro si piegò in avanti, spinto dal suo stesso impeto, ma così facendo lasciò campo libero a Hirata: il giovane samurai gli piombò alle spalle e lo colpì al collo. Stavolta la lama trovò una via tra l’elmo e l’armatura e tranciò di netto il collo di Heiji. Un fiotto di sangue nero sprizzò ovunque, imbrattando il viso di Hirata. Il corpo di Heiji si accasciò a terra e scomparve in uno sbuffo di fumo bianco. Il capo mozzato, rotolato fino ai piedi degli alberi che delimitavano la radura, fece la stessa, miserabile fine. Un sospiro si levò allora tra gli alberi e Hirata seppe che tutti gli spiriti maledetti avevano trovato la pace.   

Il samurai si ritrovò solo nel bosco, sudato e ansimante. La manica del kimono era ormai nera di sangue. Hirata rinfoderò la katana, stracciò un lembo dell’abito e si fasciò la ferita, stringendo il legaccio improvvisato con i denti. La luna era di nuovo scomparsa dietro la coltre di nubi temporalesche e il buio era di nuovo calato sulla radura. Hirata doveva tornare al monastero. Zoppicando e tenendosi il braccio ferito, si allontanò da quel luogo maledetto.

“Yoichi!”

Silenzio. Nessuna risposta. Il samurai aveva raggiunto il punto in cui aveva lasciato il monaco, senza trovare nessuno.

“Yoichi!”

Hirata corse tutto attorno, chiamandolo senza sosta. Dov’era finito il bonzo?

Uscì dal bosco, seguendo il sentiero a ritroso in direzione del monastero. Ma il monastero non c’era più. Al suo posto, Hirata vide solo un mucchio di antiche rovine circondate da un ammasso di piante selvagge.

“Yoichi…”

Il suo mormorio si spense nell’oscurità. Le macerie riposavano silenziose nell’erba alta. Dormivano tra il pigro gracidio dei rospi del fiume da chissà quanti secoli. Hirata si aggirò guardingo tra le pietre verdi di muschio. In un angolo, separato dal resto dell’edificio, uno spiazzo quadrato: era tutto ciò che rimaneva dello shoro, la vecchia torre del monastero. E lì, riverso a terra, il bonsho, la campana che i monaci suonavano per scandire il passaggio del tempo e per convocare i fratelli alla preghiera. Un enorme ammasso di bronzo finemente lavorato, ormai reso irriconoscibile dalle intemperie e dalle erbacce.

Hirata alzò gli occhi verso il cielo e capì che tutto era finito. La maledizione era stata spezzata, ma anche il monastero era legato ad essa. Heiji gli aveva raccontato la verità: Yoichi e i suoi fratelli avevano cercato di proteggere la povera gente del clan Yasutake, invano. La furia del samurai nero era calata su di loro e tutti erano andati incontro alla stessa, terribile fine.

Ma un pensiero rincuorava l’animo scosso di Hirata: gli spiriti testimoni di quelle atrocità non erano più costretti nel mondo terreno. La sua katana si era posta al servizio dei giusti e aveva liberato le anime inquiete dalla prigionia. Hirata aveva svolto il suo compito da samurai con onore.

Tremando di freddo e spossatezza, il giovane lasciò le antiche rovine al loro meritato riposo. Mentre attraversava quello che in origine era stato un giardino ordinato e rigoglioso e i suoi pensieri tornavano a rivolgersi al proprio villaggio, il rintocco di una campana riecheggiò in lontananza nella notte.

 

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