
L’uomo sedette al tavolo silenziosamente.
Tutti i convitati seduti attorno, restarono allibiti e nessuno si muoveva né parlava, ma guardavano il volto pallido del nuovo arrivato.
Dalle finestre sul lato destro della sala da pranzo, il suono della pioggia battente e sferzante sui vetri era l’unico suono. Era una pioggia novembrina, fredda e intensa.
«Grazie per avermi accolto.»
Nessuno rispose.
Davanti a loro, il tavolo era ricoperto da una immacolata tovaglia bianca, con sopra piatti; posate e bicchieri tra i migliori che si potessero sfoggiare e al centro un profumato mazzo di fiori.
L’unico tra tutti i presenti a non essere affatto a disagio, era un bambino di sei anni, con una selva di capelli ricci scuri, come gli occhi, grandi e vivaci e dello stesso colore. Osservava la scena divertito, dondolando le gambe sotto il tavolo.
L’uomo pallido prese un bicchiere, versò del vino corposo e dopo averlo annusato bevve un sorso; un sorriso apparve sul volto: «Voi non bevete?» chiese.
Gli altri si guardarono a metà tra l’imbarazzato e lo sconcertato, ma non il bambino, che prese il bicchiere davanti a sé e fece un cenno verso l’uomo, che ricambiò sorridendo.
Il padre, che sedeva accanto, lo guardò accigliato, ma il bambino non si lasciò intimorire e alla fine bevve anche lui.
«Dovrebbe essere un giorno di festa, ma sembrate tutti morti!» esclamò l’uomo con una nota divertita nella voce.
«Non si mangia niente? Credevo avreste preparato chissà quanta roba, dato che siete tutti riuniti»
«C’è il pollo!» esclamò il bambino entusiasta.
«Con le patate?»
«Sì!»
«Buonissimo!»
«Poi anche i tortellini in brodo, ma a me non piacciono. Io li preferivo con la panna.»
«Sono molto buoni anche così, sai? Anzi, col freddo che c’è oggi è proprio il piatto indicato.»
Il bambino annuì convinto: «Sono contento che tu sia venuto a trovarci, nonno»
L’uomo sorrise e questa volta fu un sorriso pieno e sincero, rivolto completamente verso suo nipote: «Sei stato tu a invitarmi e non potevo certo dirti di no.», poi guardando verso il resto della tavolata aggiunse: «Lo stesso non posso dire di voi.»
Tutti, sentendosi chiamati in causa, abbassarono lo sguardo verso il piatto vuoto.
«Non ti aspettavamo», rispose alla fine una delle due donne che sedevano a destra, con un filo di voce strozzata.
«Ah, no? Eppure avete apparecchiato anche per me e siedo al posto che è sempre stato mio»
«Consuetudine», fece eco il padre del bambino, seduto a sinistra, proprio davanti alla donna, che era sua moglie.
«Oh, certo, tutto è consuetudine. Noi viviamo per e nelle consuetudini. Ne siamo talmente sommersi da non riconoscere più il senso delle stesse o il loro significato. Per questo motivo vi siete meravigliati quando mi avete visto»
«Tu sei…morto!» sbottò un’altra donna, la più giovane delle due, il cui volto tirato malcelava una insoddisfazione di fondo, ben lontana dalla situazione in cui versava in quel frangente.
«È vero, sono morto. Ma oggi è la festa dei morti e consuetudine vuole che noi facciamo visita a voi nel vostro mondo. È per questo che viene messo un posto a tavola, no?»
«Io ho fame, mamma!»
«Geremia ha ragione, Anna. È ora di pranzo e i piatti sono tutti vuoti. Perché non porti in tavola i tortellini? Muoio di fame!» disse sornione, ma nessuno si mosse.
Così l’uomo sospirò, o almeno così parve ai presenti: «Vieni Geremia, aiuta il nonno a preparare i piatti».
Geremia fece per alzarsi, ma sua madre intervenne immediatamente: «Tu non ti muovi da qui!» gli sibilò con veemenza.
«Ma il nonno ha detto…»
«Il nonno è morto! E ha finito di dettare legge e di comandare!»
«Va bene, vorrà dire che farò tutto da solo. D’altronde questa è ancora casa mia…tecnicamente.»
Si alzò e uscì dalla sala da pranzo, mentre i presenti iniziarono a bisbigliare freneticamente tra di loro.
Geremia ascoltava senza capire perché tutte quelle persone non fossero contente nel rivedere il nonno dopo tanto tempo.
Eppure quando era morto diversi mesi prima, tutti, nessuno escluso, avevano pianto a grandi lacrime; adesso invece sembravano nemmeno lo riconoscessero, trattandolo come un estraneo.
«Sei stato tu a invitarlo?» chiese suo padre ad un tratto.
Geremia si sentì colpevole, ma annuì uguale.
«Perché?» si intromise sua madre.
L’uomo rientrò con un enorme pentolone fumante che pose al centro esatto della tavola; guardò i presenti che nel frattempo erano tornati a guardare il proprio piatto.
«Il primo ad essere servito sarà mio nipote: dammi il piatto!»
«Grazie nonno!»
Dopo aver riempito i piatti a tutti, sedette e augurò buon appetito, ma nessuno ringraziò o rispose, tranne ovviamente Geremia.
A parte l’uomo e il bambino, gli altri non mangiavano, restando a guardare il piatto che mandava volute di fumo profumate.
«Perché non mangiate?» chiese l’uomo.
«Non abbiamo fame.» replicò acidamente Anna.
«Strano, eppure siete sempre stati affamati. Di qualunque cosa e adesso non ne avete più? Avete paura di me?»
Nessuno ovviamente rispose.
«Vi hanno mangiato la lingua? Mi pareva che fino a pochi istanti fa parlaste. Va bene, non ci metteremo a discutere davanti al bambino; lo faremo dopo il dolce. Spero qualcuno lo abbia comprato.»
«C’è il tiramisù, nonno! Ma senza caffè, perché io non lo posso bere.»
«Mi pare giusto. Coraggio, mangiate o si raffredderanno.»
A malincuore, iniziarono tutti a mangiare, il silenzio era imbarazzante ed era interrotto soltanto dal suono delle stoviglie e dal risucchio del brodo; in sottofondo continuava incessante il suono della pioggia.
«Allora, avete già diviso tutto?» domandò ad un tratto l’uomo.
Qualcuno restò col cucchiaio sospeso, un altro tossì perché gli era andato di traverso il pasto.
L’invitato osservò tutti con divertimento: gli piaceva creare disagio e quell’aura di sconveniente malessere veniva sparsa con noncuranza e disinvoltura.
«Mi sembrate stupiti. Credete che non lo sapessi? Adesso conosco tutto. Qualunque cosa abbiate fatto e detto, io lo so. Ogni azione che compite io la vedo in diretta!»
Gli occhi di ognuno si spalancarono e l’imbarazzo crebbe tra di loro, avvampandone i volti.
«Geremia, per favore, andresti a prendere una cosa al nonno?»
«Certo nonno. Che cosa?»
«Nella mia camera. Sotto il grande letto, c’è una mattonella che se la tocchi si muove. Prendi quello che trovi là dentro. Grazie.»
Geremia scese dalla sedia e corse via, senza essere fermato da nessuno.
«È un bambino meraviglioso e nessuno voi lo merita. Forse Luisa soltanto, che voi non avete voluto invitare a questa tavola oggi. Poco male, sicuramente se la passa meglio di tutti voi che vivete di astio, invidie e rancori. Geremia è venuto sulla mia tomba due giorni fa, esprimendo il desiderio di rivedermi e si sa, i sogni dei bambini a volte si trasformano in miracoli. Sono qui principalmente per lui, perché di voi, cari famigliari, non mi importa assolutamente niente!»
«Ma papà…» si intromise uno degli uomini.
«Io non sono tuo padre, Graziano. Tu fai parte della mia famiglia come io di quella reale inglese. Taci!»
«Non ti permetto di parlare a mio marito così!» ribatté la donna.
«Carla, tu fai peggio nei suoi confronti, eppure non ti vergogni.»
La donna arrossì all’istante.
«In che senso?» chiese Graziano.
«Vedete, il bello di essere morti è che possiamo vedere tutto quello che fanno i vivi e io ho visto quello che si nasconde dietro questa famiglia. Carla, giovane e spregiudicata da avere una doppia vita: la prima quella pubblica di moglie e madre sorridente e perfetta. La seconda invece oscura e torbida con il qui presente Michele, suo cognato.»
«Che cosa?» sbottò Graziano.
«Se non mi credi controlla il suo cellulare, resteresti strabiliato dai messaggi che si scambiano i due. E pensa anche mentre siete insieme!»
«Basta!» Michele batté le mani sul tavolo.
«Non fare l’ipocrita tu, che hai addirittura tre vite: vogliamo parlare delle colleghe di lavoro?»
«Questa cosa sta degenerando» replicò Anna.
«Anna, mia cara. Proprio tu parli che preferisci le attenzioni di un giocattolo erotico a quelle di un marito premuroso? E ti meravigli se le cerca altrove. Ma queste sono solo alcune delle cose che ho avuto modo di vedere. Vogliamo parlare dell’eredità? Sono rimasto sbalordito e divertito nel sentirvi litigare e pianificare ogni cosa. Avete la capacità di distruggere tutto quello che toccate: anche la cosa più bella nelle vostre mani, si sporca o si rompe.»
Suonarono alla porta, ma nessuno sembrò prestare attenzione.
I vivi guardavano il morto con rabbia, disgusto e vergogna. Avevano smesso di mangiare e dai loro piatti le volute di fumo si facevano sempre più rade.
«Se nessuno va ad aprire lo farò io!» disse l’uomo, alzandosi da tavola e uscendo dalla sala da pranzo.
«Mi fai schifo!» sibilò Graziano rivolto alla moglie.
«Da quanto tempo va avanti questa storia?» fece eco Anna rivolta a suo marito.
Nella sala tornò l’uomo accompagnato da una giovane donna dai capelli corti: «Ecco la famiglia tutta riunita», esclamò con soddisfazione.
La nuova arrivata parve sconvolta nel vedere tanto chi l’aveva accolta all’ingresso, quanto nel trovare il resto dei presenti nella sala da pranzo e sembrava essere un pupazzo condotto a forza.
Nel frattempo era tornato anche Geremia, che recava una piccola scatola di legno: «Nonno, era questa che cercavi?» vedendo la donna accanto, spalancò gli occhi: «Zia, sei venuta anche tu alla fine!»
L’uomo sorrise e si chinò verso il bambino, dandogli un buffetto sulla guancia: «Sì, grazie. Prendi la mano della zia e va’ via con lei. Luisa porta via Geremia da qui.»
«Cosa sta succedendo?»
«Tiriamo le somme di alcune vite» le porse la scatola: «Qui dentro ci sono fogli molto importanti. La parte dell’eredità che non sono riusciti a mangiarsi e spettano a te e Geremia»
«Ecco dov’erano finiti!» mormorò Michele.
L’uomo annuì: «Già, pensavate che fosse tutto lì e invece no. Andate adesso, noi dobbiamo parlare.»
Luisa prese la mano del bambino, aveva le labbra serrate, ma il suo sguardo era forte e sicuro e sembrava aver capito ogni cosa; assomigliava molto a suo padre: «Geremia, prendi la giacca!»
«Geremia, non ti muovere!» strillò la madre.
Il piccolo guardò prima sua madre, poi la zia e infine il nonno.
«Vai pure, te lo dice il nonno. La zia si prenderà cura di te. Andrà tutto bene.»
Quando i due uscirono silenziosi, nessuno degli astanti mosse un dito o proferì parola, erano tutti inchiodati dallo sguardo severo dell’uomo, che li osservava profondamente.
Il rumore della porta d’entrata che si chiudeva, seguito dal rombo dell’auto poco dopo, fu come un segnale: «Adesso tocca a voi: appianate le vostre divergenze una volta per tutte!»
Gli occhi dei presenti, quasi all’unisono, andarono ai coltelli della carne che si trovavano accanto a piatti…
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