Platone, in epoca antica, relega l’arte in una posizione subalterna rispetto alla realtà, in quanto, secondo le teorie filosofiche del pensatore greco, la verità si trova al di là di questo mondo, nell’iperuranio, al di là del cielo.
L’arte, quindi, essendo “mimesi” del reale, imitazione e copia secondo Platone, si trova in una posizione di sudditanza rispetto alla verità, della quale la realtà stessa è mera copiatura, e di conseguenza viene messa da parte dall’indagine del pensatore che vuole scoprire quale sia il fondamento dell’umano, e quindi del mondo, poiché imperfetta, come se fosse la copia di un’altra copia ancora, quindi ci si allontana idealmente dalla verità, che da buon greco il filosofo fa coincidere con il “logos”, la facoltà umana di ragionare, ma anche di parlare, di scrivere, di creare, quindi.
L’arte è creatività, ma per il sistema filosofico platonico non ha rilevanza, nonostante la creatività sia una parte del “logos”, che i greci antichi individuavano come faro nella notte che guida e che indica un approdo.
In età antica e medievale il significato dell’arte veniva individuato nel suo contenuto di verità, in rapporto al sistema vigente di valori etico-religiosi e politici. Solo nell’età moderna, con Vico e Baumgarten, ma soprattutto con Kant, in concomitanza con lo sviluppo delle scienze e con la progressiva acquisizione di autonomia dei saperi, si è giunti a riconoscere all’arte un valore autonomo rispetto alle altre forme della cultura: l’arte è stata svincolata dal riferimento alla verità religiosa o filosofica e dalla funzione morale o educativa. Vi è una netta distinzione, sottolinea Kant, fra esperienza artistica e altri tipi di esperienza, fra “ricerca del bello” e “ricerca della verità”. È il Romanticismo a contestare per primo le tesi kantiane, con l’affermazione di un pieno valore conoscitivo della poesia, della sua capacità di esprimere l’inesprimibile. Mentre Kant aveva escluso che l’arte svolgesse una funzione conoscitiva, il Romanticismo la considera un’esperienza privilegiata, un vero e proprio “organo della filosofia” capace di condurci al Geist, lo Spirito, l’Infinito.
La visione del Romanticismo dell’arte si fonda sul superamento del principio d’imitazione. L’arte non è quindi più “mimesi”, bensì creatrice di mondi, all’infinito. L’arte segue gli stessi dettami e le stesse ispirazioni e caratteristiche dell’Infinito, del mistico e del divino, dell’elemento vivificante che permea nel reale.
È creatività incessante, intuizione e conoscenza del Tutto infinito, espressione dell’Assoluto, di un’oscura e indipendente “potenza” che porta il genio a produrre opere del cui significato è solo in parte consapevole, perché sono effetto di una produzione inconscia. Anche in Hegel, come nel Romanticismo, vi è un nesso stretto tra arte e verità; nel suo sistema, infatti, l’arte è manifestazione dello spirito assoluto, esprime cioè un “dispiegarsi della verità”, quindi un contenuto razionale, poiché “bellezza e verità sono la stessa cosa”. Ma quel contenuto di verità viene espresso solo in forme sensibili, quindi inadeguate, se paragonate alle rappresentazioni della religione o ai concetti della filosofia.
Tuttavia, in epoca contemporanea, sappiamo dalle considerazioni di Nietzsche che Dio è morto. Nel senso in cui, Dio, simbolo generico di ogni religione, è stato sconfitto e surclassato dalla tecnica e dalla tecnocrazia in genere, applicata a ogni ambito del sapere e ogni aspetto della vita umana in società.
Il mistico come elemento è superato, la facoltà immaginativa e la capacità degli esseri umani di “vedere” e “sentire” l’infinito in un granello di sabbia, in un dettaglio, in un tramonto, o nell’osservazione della volta celeste notturna, nelle raffigurazioni estetiche dell’arte, ogni cosa invisibile oggi è svalutata, in favore della materia, della statistica, di linguaggi freddi e disumanizzati, alienati, diversi dall’essenza d’infinito di cui sono costituiti gli esseri umani.
Il mistico è superato, ma non nel senso che è evoluto, in quanto concezione antichissima, rimane nell’ambito della tradizione, e il folklore stesso e l’attitudine degli uomini a rendere sacre le proprie radici, a rendere immortale ciò che apparentemente muore, a livello sensibile, portare il non sensibile nella sfera della percezione della non percezione, percepire il non percepibile, non viene visto come attitudine fondamentale dell’uomo alla conoscenza e alla contemplazione, non viene inteso come genio, bensì come follia, tutto ciò che non è ordinario e omologato è messo da parte, in quanto vecchio, stantio, sorpassato, come se il mondo fosse un’eterna competizione contro il genere umano stesso, perpetuata dall’uomo contro di sé.
L’uomo allontana e non pone di fronte a sé il proprio io.
Ogni prodotto astratto riguarda la visione della propria personalità, della propria mente, della propria psiche a livelli molto sottili, in ogni opera che deriva dalla creatività umana vi è un autoritratto di chi l’ha compiuta.
Questo riguarda ogni persona singola, ma anche ogni popolo.
Pertanto, per Hegel, l’arte deve esser superata, muore rispetto a una forma superiore di sapere: in altri termini, la sua validità non è negata in assoluto, ma solo in relazione alla superiorità della filosofia come sapere razionale-dialettico.
Un sapere che non riguarda la tecnica contemporanea, la dialettica riguarda un ambito puramente filosofico.
La persistenza dell’orizzonte romantico si conferma nel pensiero di Arthur Schopenhauer, il quale riconosce all’arte un’alta capacità conoscitiva e una funzione liberatrice.
L’arte è “un puro conoscere” con cui il genio guarda al di là del mondo fenomenico, del mondo dell’apparenza, per contemplare quel che è “essenziale e permanente” nella realtà, cioè il mondo delle idee, prima oggettivazione della Volontà, secondo Schopenhauer. L’arte, infatti, è intuizione non dell’oggetto nella sua particolarità sensibile, ma dell’idea nell’oggetto, guarda al di là del mondo fenomenico, contempla cioè la vera essenza delle cose.
Un’essenza delle cose in perenne movimento, secondo la visione eraclitea del reale.
Per Eraclito tutto scorre, non si può entrare due volte nello stesso fiume, ogni istante è unico e differente e irripetibile, anche l’uomo stesso, in ogni momento storico, e in ogni momento della sua esistenza.
Tuttavia il tempo è ciclico, per gli antichi, ed è manifestazione fenomenica della percezione, al di là della percezione vi è il fuoco, essenza, che appunto come l’elemento simbolico che la raffigura, è statica, ma anche in movimento, come una fiamma.
La vera percezione si trova al di là della percezione stessa.
L’arte come superamento dell’espressione, l’arte come riconciliazione con il tutto, esprimere l’inesprimibile, è il compito dello scrittore e del poeta, così come del musicista o del pittore, dell’artista in senso lato.
Nella musica, in particolare, secondo il Romanticismo, l’arte celebra l’essenza del reale.
La musica, infatti, non è immagine delle idee ma dell’essenza, quella che Schopenhauer chiama Volontà, e, in quanto tale, costituisce la forma suprema di realizzazione dello spirito umano.
La letteratura fantastica e l’arte immaginativa in genere rappresentano il raggiungimento di uno stato di coscienza altro, quasi uno sguardo dall’alto, rispetto all’essenza stessa della realtà.
Nell’irrealtà viene raffigurata la sostanza primigenia del reale.
Nel fantastico il concreto. Nell’invisibile il visibile.
Nel genere letterario catalogato come “spada e stregoneria” vi è una fusione di visibile e invisibile. La spada, che rappresenta il guerriero, l’eroe, l’uomo, e la stregoneria, che rappresenta l’irreale, il magico, il mistico, l’invisibile, la morte stessa. Spada e stregoneria, vita e morte, secondo una concezione dualistica dell’universo.
La coscienza universale infatti si manifesta divisa in due. Gli uomini fanno esperienza di questa coscienza proprio tramite i dualismi e le dicotomie tipiche della mitologia, e anche della letteratura fantastica. Una coscienza che al di là delle apparenze e al di là delle sensazioni e delle percezioni, è un fuoco eracliteo cosmico che alimenta continuamente il reale, tramite e da esso acquisisce energia vitale, e la conferisce alle cose, e all’arte, tramite gli uomini e la loro creatività, che è la via che porta all’essenza dell’infinito.
Per Giacomo Leopardi La poesia, certo, produce illusioni; ma a differenza delle illusioni dell’intelletto, quelle della poesia non ingannano l’uomo e generano in lui un piacere che è tale anche quando il verso rappresenta il vuoto e la mancanza di senso del vivere, poiché esso “par che ingrandisca l’anima del lettore”, gli genera cioè un sentimento da cui “l’anima riceve vita”.
Elric di Melnibonè, l’eroe dannato di Michael John Moorcock, rappresenta in sé l’idea dell’espressione artistica secondo la filosofia di Nietzsche, la tragedia attica, e il decadentismo, atmosfere da cui poi trarranno ispirazione negli anni trenta del Novecento molti autori della rivista “Weird Tales” sulla quale vi si potevano trovare racconti di Robert E. Howard, H. P. Lovecraft, C. L. Moore e C. A. Smith, del quale si può ricordare il ciclo di Poseidonis, di Zothique, di Averoigne e Xiccarph, immense rappresentazioni dell’immaginazione dell’autore, un immaginario di una potenza infinita quello di C. A. Smith, e una prova scritta di ciò che l’animo umano riesce a percepire al di là della realtà fenomenica, creando mondi, per sempre, all’infinito.
Verso la fine del XIX secolo, la filosofia di Nietzsche e il decadentismo rimettono in discussione le certezze dello scientismo e del realismo positivista. Friedrich Nietzsche, ne “La nascita della tragedia”, afferma il primato dell’arte, in quanto valorizzazione delle forze vitali dell’uomo ed espressione del tragico, cioè del dionisiaco, della vitalità e dell’ebbrezza che accompagnano i momenti più creativi della vita dell’uomo. La bellezza viene a identificarsi con la libera esplicazione della volontà di vivere, del “vigore animale” dell’uomo, mentre la bruttezza non è altro che impoverimento e indebolimento della volontà e corrisponde a tutto ciò che infiacchisce e spegne la sensibilità umana. Proprio in nome di queste istanze, Nietzsche attacca lo scientismo e il razionalismo, che intendono ricondurre tutto a “intelligibilità”, a trasparenza razionale, contribuendo così a soffocare e ad impoverire l’esistenza, proprio come nella Grecia antica il razionalismo di Socrate e Platone avevano soffocato e dissolto la forza del mito e dello spirito dionisiaco che animava la tragedia attica. A fondamento della tragedia (e, più in generale, a fondamento dell’arte) non vi è la ragione, l’“intelligibile”, ma vi sono le forze vitali dell’esistenza, in particolare vi è il perenne conflitto e l’“accoppiamento” fra l’apollineo e il dionisiaco, cioè fra i “due mondi artistici del sogno e della ebbrezza”, del “piacere dell’apparenza” e del “rapimento ardente, che sale dal fondo intimo dell’uomo”. L’apollineo è come un momento di riposo del dionisiaco, una pausa nella quale il sentimento di potenza non viene annullato ma è come ricondotto a forma, elevato alla sua espressione più pura. Lo “spirito dionisiaco”, invece, lacera il “velo di Maya” (lo schopenhaueriano mondo dell’apparenza e dell’illusione), afferma pienamente la volontà di vivere, è espressione della riconciliazione dell’uomo con la natura, sublime rapimento nel quale “l’uomo non è più artista” poiché “è divenuto egli stesso opera d’arte”, egli stesso energia dell’universo.
“Ho conosciuto molti Dèi. Colui che li nega è cieco come colui che se ne fida troppo. Io non cerco oltre la morte. Può esserci la tenebra, come affermano gli scettici nemediani, o il reame di Crom, fatto di ghiaccio e nubi, o le pianure innevate e le sale a cupola del Valhalla dei nordici. Non lo so e non me ne importa. Io voglio vivere appieno, finché vivo. Mi basta conoscere il ricco sapore della carne rossa e del vino che mi punge il palato, il caldo abbraccio di braccia bianche, la folle esultanza della battaglia, quando le spade azzurrine guizzano e s’arrossano, e io sono contento. Che sacerdoti, maestri e filosofi meditino pure sulla realtà e sull’illusione. Io sono questo: se la vita è illusione, allora anch’io sono illusione, ed essendolo, l’illusione per me è reale. Io vivo, brucio di vita, amo, uccido, e sono contento.” – Robert. E Howard, La regina della costa nera (Queen of the Black Coast, 1934), Weird Tales, 1934.
“Venne un tempo in cui ci furono grandi sommovimenti sulla Terra e al disopra della Terra, il destino degli uomini e degli dèi venne forgiato sull’incudine del fato, si prepararono guerre mostruose e si idearono grandi imprese. E in quel tempo, che venne chiamato Epoca dei Regni Giovani, nacquero molti eroi. Il più grande di tutti fu un avventuriero perseguitato da una maledizione, possessore di una spada stregata che lui odiava.” – Elric il negromante, Michael Moorcock
“Tutto è illusione […] Manifestazioni esteriori della realtà, che è al di là della comprensione umana, perché non esistono rapporti mediante i quali la mente finita possa misurare l’infinito. Ci può essere un’unica base per tutte le cose, oppure ogni illusione naturale può avere la sua entità fondamentale. Tutto questo era noto a Raama, la più grande mente di tutte le età, colui che secoli fa liberò l’umanità dalla stretta di Demoni sconosciuti e portò la razza alle sue massime altezze.” – Robert E. Howard, Il Teschio del Silenzio, Editrice Nord, Milano, 1975.
-
Abbonamento 2018-2019-202074,85€
-
Abbonamento 2019-202049,90€
-
Abbonamento 202024,95€
Bellissimo articolo!
Avendo un blog “fantastico ” ma tendente al reale tra le righe mi riconosco molto in questa disamina storico /filosofica.
Il fantastico è alla fine un qualcosa che gli occhi e la bocca fanno fatica a “vedere” ma che è insito nel nostro interiore.
Una sorta di “giardino proibito” della Nostra Anima.
E’ stato un piacere leggerti!
se ti va dai/date un’occhiata al mio Blog !
https://comealberinellanebbia.com