“Ecco, adesso arriva il primo cartiglio con il nome del re…”Io Vemerin eressi questa città invincibile…An-har-ra.”
Se siete amanti dei gialli, e specialmente di quelli a sfondo storico, è assai probabile che voltandovi verso i vostri scaffali riconosciate subito uno o più posti occupati da un qualche romanzo a firma Giulio Leoni.
Non è certo un caso: da anni, con piacevole regolarità, Leoni si diletta nel ricreare enigmi e delitti che hanno come scenario il Rinascimento e il Medioevo italiani, proponendo come protagonisti nomi celeberrimi quanto inusuali: Galileo Galilei, per esempio, Pico della Mirandola, o, ormai da tempo, Dante Alighieri, utilizzato come singolare investigatore alle prese con misteri ben più pericolosi di quelli nascosti fra le sue rime. Un gioco erudito unito al gusto del thriller, insomma, ma anche un labirinto in cui è facilissimo perdersi, inseguendo le ombre del passato nostrano.
Nonostante il successo di questo filone, però, Leoni non ha prestato la sua penna esclusivamente alle trame in giallo: oltre al noir, ha infatti esplorato praticamente tutti i campi della narrativa d’avventura, passando dallo spionaggio all’horror, dalla sci-fi al fantasy, alternando spunti, ambientazioni e atmosfere, accumulando così una produzione da fare invidia anche agli autori più prolifici.
Fra tanta messe, proprio nell’ambito del Fantastico, spicca la trilogia che prende il nome di “Ciclo di Anharra”, pubblicata da Mondadori a partire dal 2006.
Firmata con lo pseudonimo di J.P.Rylan, la saga in questione si delinea come una vera e propria rarità per l’ambito fantasy italiano, e ciascuno dei suoi capitoli – “Il trono della follia”, “Il santuario delle tenebre” e “L’eredità di sangue” mantiene tutt’oggi la capacità di stupire per la quantità di atmosfere decadenti, malate e tetramente barocche che emergono dai vari scenari creati da Leoni. Una serie da riscoprire, e riguardo la quale abbiamo rivolto le nostre domande proprio al suo autore.
Uscita in un periodo in cui pareva che la narrativa fantasy fosse obbligatoriamente destinata a riproporre cliché infantili e sempre più “omogeneizzati”, la trilogia di Anharra, già a partire dal suo primo libro, fa mostra di voler al contrario utilizzare topoi di ben altra caratura: penso al “re dormiente sotto la montagna”, in questo caso Vemerin, all’ ”esercito dei morti” e alla “città perduta”. Tutti archetipi ben noti della letteratura fantastica, ma colpevolmente dimenticati da molti autori. Che ruolo hanno avuto questi temi nella genesi dell’opera?
Mi fa piacere che tu abbia colto questi aspetti. In realtà era mia intenzione di scrivere, sotto la maschera del fantasy, un’opera, che rendesse omaggio da un lato a due grandi scrittori del mio pantheon personale, Howard e Lovecraft, e dall’altro a un’idea che trovo sempre affascinante, il principio di Nietzsche dell’Eterno Ritorno e della circolarità del tempo.
Armato di tutto questo, ho pensato di costruire una vicenda che rendesse ragione insieme di due misteri: cosa spinse i nostri antenati indoeuropei a muovere verso l’Europa, e quali demoni si agitassero nella loro e nostra coscienza, tanto forti da renderci contemporaneamente capaci delle azioni più nobili e di quelle più spaventose: a puro titolo di esempio, pensa che praticamente nelle stesse settimane si mette a punto la penicillina e si attivano i campi di sterminio, si creano i motori che ci porteranno sulla Luna e la bomba atomica.
Questa “eredità del male” è l’artiglio che Vemerin, il re folle costruttore di Ahnarra, configge nel sangue dei suoi successori, e che giunge fino a noi attraverso le generazioni.
In effetti quindi si trattava di una narrazione non indirizzata a un pubblico young, e in quanto tale abbastanza arrischiata, in mondo editoriale e librario affezionato a etichette semplici e facilmente riconoscibili. Ma in un narratore il piacere di narrare prevale sempre, o almeno dovrebbe prevalere, su considerazioni di ordine pratico, e considero Anharra una delle mie opere cui sono più legato.
La prima edizione comparve sotto pseudonimo solo per un’esigenza editoriale: in quell’anno erano usciti altri due miei romanzi, e essendo Anharra giudicato fuori linea rispetto alle mie cose, fu scelto di adottare uno pseudonimo.
Anche a livello testuale, Anharra si smarca positivamente da quelle che secondo alcuni sono le “regole” della buona scrittura. Non mancano le descrizioni, e sovente la vera protagonista di molti passaggi è l’atmosfera di disgrazia incombente e ineluttabile che sovrasta a vario titolo i protagonisti. Il vocabolario stesso mi sembra voler accentuare questa impostazione. E del resto lei stesso ha affermato in passato che, in origine, l’idea era addirittura quella di proporre una sorta di poema in prosa. Come è avvenuta praticamente la distillazione di questo progetto in “romanzo tradizionale”?
Giusto, infatti come ricordavi ho parlato proprio di “poema in prosa”, con riferimento esplicito al “Così parlò Zarathustra” di Friedrich Nietzsche. Perché in realtà tutto quello che accade in Anharra può essere letto come stanze di un poema arcaico, in cui vengono raccolte le imprese di un antico impero, distrutto da una delle periodiche catastrofi cosmiche, come quelle ipotizzate da Immanuil Velikovskij. Un astronomo quest’ultimo anch’esso eretico e contestato, un altro di quei paria della scienza che mi piacciono. E che si troverebbero magnificamente a passeggiare sulle strade deserte e tra le fontane silenziose di Anharra, l’Ignobile, dal sanscrito An-Ar.
Ti confesso che in un primo tempo avevo pensato di scrivere Anharra realmente in versi sciolti, ma poi mi arresi alle convenzioni editoriali: già difficile da inquadrare in un genere preciso se in prosa, stesa in versi sarebbe finita immediatamente nell’archivio delle stravaganze, nel grande catalogo degli Illeggibili.
Nonostante alcuni indizi lo indichino quasi da subito, almeno all’inizio quello di Anharra potrebbe apparire come l’ennesimo “mondo secondario”, seppur architettato con cura. E invece, col procedere della saga, una delle rivelazioni di maggior rilievo in termini di senso del meraviglioso è che ci siamo sbagliati, venendo catapultati su di un orizzonte arcaico della nostra Terra, dove si consumano avvenimenti quasi metastorici che ricordano certi epici scenari preistorici howardiani. Da quali suggestioni è nata quest’idea?
Come dicevo prima, a parte l’omaggio ai grandi dei mondi perduti, tutto il racconto è ispirato alla cosmologia non mainstream, la linea che da Jean Sylvain Bailly arriva appunto a Velikovskij e che ipotizza l’avvenuto verificarsi di grandi cataclismi cosmici non in epoca antidiluviana, ma invece in presenza di civiltà umane già sviluppate. Eventi di cui la sommersione di Atlantide sarebbe solo uno di essi, preceduta da un altro di ben maggior spessore: la deviazione dell’asse terrestre in seguito al passaggio ravvicinato di un grande corpo celeste, il pianeta Venere entrato nella sua orbita attuale. Gli argomenti con cui Velikovskij supporta la sua teoria sono affascinanti, come l’assenza di ogni riferimento al pianeta Venere nelle cronache assire prima di una certa data, il mito dell’Eden presente in tutte le tradizioni (l’asse terrestre prima verticale determinava un clima costante, privo di stagioni), e soprattutto la partizione della circonferenza in 360 gradi, quanti erano i giorni dell’anno prima che la catastrofe rallentasse la corsa lungo l’orbita solare.
Esiste un’altra storia del mondo, diversa da quella accreditata, espulsa e svilita nelle accademie ma viva nelle profondità della coscienza dei popoli, nelle loro leggende e nei loro miti, nella cui materia grezza e informe riluce però il lampo del gran d’oro che vi si nasconde, e che giustifica tutto il lavoro necessario per estrarlo.
Io so che Vemerin, Vargo e Amnor, le Sgualdrine, la terribile Athramala sono esistiti davvero, in un altro tempo e con altri nomi, ed è da questo altro tempo che li ho rapiti, poco aggiungendo di mio alle loro storie.
Sempre su questo tema, mi pare che la saga si ponga quasi come una sorta di “mito del mito”, in cui le radici di archetipi classici si fanno riconoscere come prodotte da eventi lontanissimi, di cui Anharra stessa è più frutto che radice. È solo un gioco di specchi per dare profondità all’antichità artificiosa della storia, o è un modo per riproporre in veste nuova quegli stessi miti (per esempio quello di Edipo o di Enea)?
Certo, nella storia sono diluiti numerosi riferimenti, palesi o più nascosti, ai grandi miti di “viaggio” dell’antichità, a cominciare dal grande mito della peregrinazione indoeuropea. Una migrazione eroica, dalle steppe della Siberia settentrionale, là dove prima dello spostamento dell’asse terrestre e il conseguente slittamento dei poli esisteva un clima temperato, abitato da popoli che nel mio racconto hanno raggiunto uno stadio della civiltà paragonabile a quella della prima età del ferro.
Mi piaceva l’idea di rendere omaggio a questi nostri antichi predecessori, proprio in un tempo in cui si moltiplicavano i tentativi di inventare per i popoli europei altre stravaganti origini. E invece i Canti di Anharra sono il canto di quel popolo che avanza tra la neve, portando con sé i propri sciamani e il ricordo delle proprie tragedie.
In Anharra compaiono spesso diversi tipi di automi o di oggetti meccanici, frutto di tecnologie che nel loro contesto sono sicuramente retrofuturistiche. Mi pare siano situazioni ricorrenti in varia misura anche in altri suoi romanzi, da “Il testamento del Papa” a “E trentuno con la morte” e “I delitti della luce” Da dove deriva questo tornare sovente alle macchine più o meno “viventi”?
Hai ragione, quello dei meccanismi complessi e degli automi è uno dei miei temi preferiti. Nasce dal mio interesse per le civiltà antiche, che spesso avevano raggiunto un livello di sofisticazione tecnica insospettabile. Il meccanismo di Anticitera, solo per citare uno degli esempi più noti, o gli automi di Erone, o quelli della meccanica araba e indù, per non parlare dei complessi meccanismi della Cina imperiale. Ma anche dalla mia seconda passione, quella per l’illusionismo e le arti magiche in genere, dove automi e pseudo automi fioriscono sin dagli albori dell’arte.
Forse il fascino dell’automa, questo mito prometeico nato non a caso agli albori della rivoluzione industriale, si accompagna strettamente con il desiderio di dare vita ai personaggi delle narrazioni, automi fatti parole, invece che di molle e ingranaggi, e non v’è molta differenza tra lo scrittore che segna linee sulla carta, e il rabbino Loew che in Praga segna la parola magica sulla fronte del golem per portarlo alla vita.
È noto il suo interesse per i misteri, l’esoterismo e l’insolito, che così spesso traspare dalla scelta di temi e spunti all’interno dei suoi romanzi. In questo senso, quanto è d’accordo con chi ritiene la scrittura una sorta di operazione magica, capace di non solo di offrire chiavi di interpretazione diverse della realtà, ma in qualche modo di “crearla”?
Sì, e in senso anche più profondo di quanto non si creda. La scrittura è essenzialmente un atto di teurgia, uno sforzo drammatico, e naturalmente destinato a successi solo parziali, di porre in essere la creazione di mondi paralleli e in qualche misura alternativi a quello fattuale. La scrittura lavora sul piano di quella che Andrea Bonomi chiamava L-Esistenza, l’esistenza nel linguaggio, ossia consente di trattare come esistenti oggetti e personaggi che nelle realtà non esistono né sono mai esistiti, Ulisse o gli unicorni a titolo di esempio, per il solo fatto di chiamarli all’essere pronunciandone il nome.
Come gli antichi sacerdoti evocavano i loro dei, lo scrittore evoca i suoi fantasmi, e la magia dell’atto scatta quando la scrittura si coniuga con quella felice intuizione, del tutto sfuggente, che chiamiamo arte: allora le sue costruzioni diventano autentiche e reali a tutti gli effetti, e acquistano il diritto a una esistenza autonoma. Come i personaggi in cerca d’autore di Pirandello, gli oggetti dotati di L-Esistenza ci circondano, ci accompagnano nella vita, interagiscono con noi: Ulisse, Don Chisciotte, Indiana Jones, D’Artagnan non sono forse più vivi nella nostra coscienza di tanti vicini di casa che occasionalmente incrociamo sulle scale? E a mano che avanziamo negli anni, e si restringe per forza di cose il campo delle esperienze reali, non sono proprio questi fantasmi che vengono a poco a poco a occupare lo spazio lasciato libero dagli amici che si allontanano, degli amori che si spengono?
Anharra giace sepolta dalle sabbie e attende, un po’ alla maniera di Irem dalle mille colonne, attirando ciclicamente a sé gli incauti e i predestinati. Come per la città maledetta, è possibile che dopo qualche anno d’eclissi i romanzi ad essa dedicati riemergano a nuova vita? Magari in un volume unico che li raccolga. Magari – ancora meglio – con un nuovo capitolo ad essa dedicato…
Non è escluso, e credo che presto i tre volumi ricompariranno –comunque anche adesso sono reperibili su Amzon Kindle, sia in ebook che in cartaceo.
Ma non ti nascondo che penso a un seguito, e come l’arabo pazzo anch’io mi aggiro da anni intorno alle rovine di Anharra, senza il coraggio di varcarne le mura di rame: il progetto è quello di stendere finalmente il testo dei Trenta Canti, compreso l’ultimo e più terribile. Ma capirai che se è difficile trovare una linea editoriale per i romanzi, addirittura per un libro di versi è impresa titanica.
Ma il desiderio di dar vita a a un mio Necronomicon è troppo forte, e prima o poi si imporrà!
E non possiamo che concludere con l’auspicio che questa speranza si concretizzi presto!