IL VALORE SALVIFICO DELLA LETTERATURA FANTASTICA E DEL FOLKLORE

Il reale è in continuo divenire. Ma l’irreale? Il “mondo dietro al mondo” è forse più vero di quello che è presente davanti agli occhi delle persone ogni giorno. Ne parlano autori come H. P. Lovecraft, C. A. Smith, prendendo spunto da atmosfere decadenti di fine Ottocento. Anche E. A. Poe parlava di una dimensione invisibile, ma presente nella psiche umana, la follia, spesso, o una sorta di facoltà dell’immaginazione trascinata volutamente verso il decadente e l’oscuro, il tenebroso.

Tenebroso altrettanto rilucente in potenza espressiva quanto la gloria spesso vana e mutevole degli eroi della letteratura fantastica, in particolar modo nel sottogenere “spada e stregoneria”.

Un genere iniziato da Howard con Kull di Valusia e Conan il Cimmero.

Le tenebre di Poe e di Lovecraft si trovano sul fondo della coscienza, mentre la spada e l’ascia di Conan e Kull risuonano un po’ più “in superficie”, con echi e sapori antichi, che sanno delle nostre radici mediterranee e indoeuropee, ma anche di esotico, di lontano, di fiabesco, quasi.

Spesso infatti sono presenti anche ambientazioni nella letteratura fantastica che poco hanno a che vedere con la cultura e il folklore indoeuropeo, ma riguardano altre ambientazioni.

Nei racconti di Howard e di C. A. Smith i toni si fanno spesso e volentieri oscuri, ma esotici, in qualche modo brillanti, non ricoperti dalla coltre grigio-nera dei racconti di Poe e Lovecraft.

Tuttavia si possono definire i due volti della medesima medaglia. Nello splendore, vi è il decadere, e nel decadere, vi è anche sempre una sorta di splendore.

La realtà e il mondo, inteso come ente più filosofico che materiale, è in continuo divenire.

Non ci si bagna due volte nello stesso fiume. Noi stessi siamo e non siamo.” – Eraclito

Secondo il pensatore greco antico Eraclito, influenzato dalle dottrine filosofiche orientali, il mondo apparente non è esistente nel senso proprio del termine, è bensì influenzato e plasmato dal punto di vista di chi lo osserva, ma essendo il punto di vista di chi lo osserva in continuo divenire e mutamento esso stesso, il fiume, ovvero, il reale, si manifesta in modo diverso in ogni momento. Ogni istante è quindi unico in se stesso, però non esiste davvero, perchè non vi è nulla di fisso e di statico, come invece afferma il pensiero di Parmenide – “l’essere è e non può essere che non sia” – altrimenti sarebbe non essere, e non rientrerebbe più ontologicamente nella categoria dell’esistenza.

Eraclito si discosta da questo pensiero, rendendosi conto che tutto non solo è relativo, come sostiene la visione della scuola sofista, ma addirittura tutto non è, non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume.

La realtà, allora, necessariamente, deve esistere al di là del reale stesso.

Senza una storia i fatti non sono nulla. Senza un racconto che li distacchi dalla non esistenza, e li renda reali, i fatti non sono pressochè nulla.

Il folklore e la tradizione della letteratura dell’immaginazione e dell’immaginario evidenziano molto bene questo.

L’identità stessa di una comunità si basa su di una leggenda, un mito, un evento storico romanzato e con una storia, appunto, aggiunta al fatto stesso, all’evento concreto reale, per renderlo eterno, fissato tra le pieghe mutevoli della storia e del mondo stesso.

L’identità di una persona si basa su di una storia. Per gli antichi la mortalità era il fondamento della società e della filosofia personale di un individuo, per chi chiaramente ne avesse una. Tuttavia si può affermare che in modo molto generale e ampio tutti i Greci e tutti i popoli antichi vivessero nella profonda coscienza della mutevolezza della propria esistenza e della realtà intera. Soggetti agli elementi naturali e ai capricci di questi ultimi, gli uomini antichi vivevano di storie. Continuamente storie e miti e leggende infinite, grandiose, straordinarie, meravigliose, che raggiungevano la volta dei cieli, e, dall’alto, guardavano con saggezza la vita dei mortali.

Ma chi inventò quelle storie, che dalle costellazioni notturne guardano lo scorrere sempre mutevole e mai certo delle vite degli uomini? Gli stessi uomini. Non capendo quella parte di sé, quella sensazione di appartenere essi stessi alla volta stellata, trasposero la gloria delle gesta umane in storie caratterizzate da una potenza e un’eco infinite.

Per un antico Greco, o un Romano, o addirittura un nordico scandinavo o di stirpe germanica, la morte era un passaggio, molti credevano nella reincarnazione, ma comunque la morte non era qualcosa di definitivo, e da scacciare, come è invece facilmente percepibile nella cultura odierna. Le gesta e le azioni degli uomini in vita, si rifacevano a una dimensione più grande, un tempo meno stretto rispetto all’esistenza singola di un individuo.

L’unico modo per vivere in eterno era, quindi, fare in modo che le proprie azioni riecheggiassero in eterno, vivendo dopo e ancora, tramite i più disparati modi.

Essendo una società prevalentemente di guerrieri, per i Romani e i Greci, ma anche per le popolazioni nordiche, il modo migliore per essere ricordati per sempre era conquistare, e imporre il proprio dominio bellico, militare e commerciale su altre popolazioni. Per i Greci, per esempio, il grande sogno era conquistare il vasto Impero Persiano. Un sogno che Alessandro il Macedone riuscì a compiere.

Ma anche lì c’era di più. L’avventura di Alessandro il Grande è la dimostrazione che per gli antichi le storie, i miti, erano quasi più importanti della realtà stessa. Alessandro partì per un’impresa folle, voleva raggiungere i limiti del mondo allora conosciuto, dove si pensava che il fiume Oceano scorresse tutto intorno alle terre emerse. Alessandro voleva vedere coi suoi occhi la fine del mondo. L’infinito. L’apertura totale dell’ultimo orizzonte.

Dietro alla sua impresa vi era una storia, una leggenda, che ancora oggi riecheggia, e così per l’eternità.

Ne “I Sepolcri” di Ugo Foscolo il concetto dell’immortalità tramite le gesta eroiche degli antichi è ben esplicato, anche se, da buon Romantico, predilige l’arte come mezzo per aderire all’infinità dell’esistenza autentica, quella non mutevole, quella non reale.

L’immaginazione nulla ha a che fare con un annullamento dei sensi, è una trasposizione di ciò che è un fatto in un mito vero e proprio.

E tramite il mito si può capire, comprendere, vedere dentro di sé. Vedere a fondo.

Io ritengo personalmente che la causa del più o meno velato malessere esistenziale della società odierna contemporanea sia la mancanza di un punto di riferimento interiore, che riporti a una dimensione eterea.

La letteratura dell’immaginario in questo senso rappresenta un elemento salvifico.

Il malessere psichico delle nevrosi contemporanee secondo molti studiosi di psicologia e di sociologia riguarda non più il senso di colpa, come in età vittoriana evidenziava Freud, bensì la mancanza di senso esistenziale.

La mancanza di un punto fermo in un mondo eracliteo, in continuo divenire.

Quindi, si potrebbe quasi affermare, che il malessere dell’uomo contemporaneo riguardi una vera e propria travisazione, un cercare un punto fermo in qualcosa che fermo non lo è affatto.

Gli antichi lo sapevano bene, ne conoscevano l’essenza, della caducità dell’uomo e delle cose che all’uomo sembrano appartenere, ma solo per breve tempo, rispetto ai tempi cosmici degli astri infiniti e sempiterni.

Forse l’uomo contemporaneo ha perso questa profonda e antica saggezza.

Nella letteratura del fantastico troviamo svariati esempi di come, molti autori, inventando miti odierni, scrivendo storie, riecheggino essi stessi delle sapienze della tradizione dei popoli antichi.

La nostra non è che un’ambigua ed enigmatica escursione entro un mondo concreto che ben presto si dissolve intorno a noi, come le immagini di un sogno” – L’eroe dai mille volti, Joseph Campbell

Che cos’è un meteorite? È una stella cadente. L’avrai vista spesso, una corta striscia luminosa nel cielo notturno, e avrai certamente espresso un desiderio. Forse per te è stata un’altra ragione per credere negli dei. Per me un meteorite è soltanto un pezzo di metallo che piomba sulla terra. Metallo col quale si può fabbricare una spada” – Il Guardiano degli Innocenti, A. Sapkowski

Come Geralt di Rivia, l’eroe dello “sword & sorcery”, conosce la caducità umana, e si mantiene in modo molto niciano “dionisiaco”.

“Un altro motivo per credere negli dei”, oppure “metallo col quale si può fabbricare una spada”. La dicotomia tra materiale e immateriale è sempre presente nella letteratura fantastica.

Tuttavia, Geralt di Rivia si mantiene come personaggio che mescola entrambe le caratteristiche. Fedele alla terra come un personaggio di Robert E. Howard, ma con un legame profondo con la notte dell’inconscio, con ciò che di selvaggio, magico, ma selvaggio, abita il mondo dove si svolgono le avventure dello Strigo.

Anche nella saga di Geralt di Rivia di A. Sapkwoski è presente un rifacimento al folklore tradizionale nordico e della zona dell’est Europa che rappresenta un elemento salvifico nei racconti dell’autore polacco.

Il folklore e l’immaginario come elemento fondante di un individuo, ma con una caratteristica molto viva e concreta. Questo è Geralt di Rivia. E questo è l’eroe della letteratura fantastica “spada e stregoneria” che più si rifà al modello antico omerico di eroe, e di “exemplum” per la vita di un individuo dell’epoca.

L’idea di un eroe del tutto legato alla carne, ma con la consapevolezza della sua natura sfuggente, caduca, mortale. L’idea di un eroe che conosca l’infinito, e che sappia che la sua esistenza non è nulla rispetto alle gesta e alle azioni che riecheggeranno dopo di lui.

Tuttavia, per esempio Achille, è l’unico personaggio nell’Iliade, insieme ad Andromaca, che invoca la pace, evidenziando le miserie del guerreggiare, del vivere combattendo. “Non sarebbe preferibile vivere in pace?” sospira Achille quando Priamo si prostra ai suoi piedi chiedendo in restituzione il corpo di Ettore, suo figlio ucciso dall’eroe acheo.

Questa contraddizione, questa tensione, questa consapevolezza, che la vitalità e il conflitto siano all’incirca la stessa cosa, è alla base della sapienza greca riguardante l’esistenza umana, o che comunque l’energia vitale sia anche distruttrice, e non ci si può sottrarre, perchè bisogna necessariamente divenire immortali, fare in modo che le proprie gesta diventino infinite, perpetue, eterne.

La nostra società pone le sue radici in quella Greca antica.

L’individuo contemporaneo forse sente la mancanza di quella grecità, per l’appunto. La mancanza di una consapevolezza popolare comune collettiva che riguardi la vita.

Era una sapienza quasi contraddittoria, ma che forse invece non si contraddiceva affatto, ma abbracciava entrambi gli ambiti, entrambe le facce della medaglia, il chiaro e lo scuro. Era una sapienza legata alla guerra, e al predominio e alla conquista, ma allo stesso tempo, legata alla contemplazione, alla quiete della riflessione filosofica, allo studio degli astri, allo studio della geometria e delle antiche sapienze alchemiche, e anche dei culti misterici.

Sia la parte visibile, sia la parte invisibile dell’uomo e del mondo erano se non si può dire conosciute, per lo meno percepite in maniera molto forte.

Nella letteratura fantastica vi è questo lascito, questo strascico, questo continuare ad esistere delle culture antiche, che vivono ancora nelle atmosfere, nei colori, nei profumi e nei sapori dipinti e descritti dallo “sword & sorcery”.

Per lui, ora, lo splendore azzurro e scintillante delle acque era più repellente che non le alte fronde che si agitavano e bisbigliavano alle sue spalle, narrandogli di terre selvagge e misteriose che si stendevano al di là: terre in cui presto si sarebbe tuffato.” – La regina della

Costa Nera, Robert E. Howard

“Vi è saggezza nelle ombre, saggezza e magia… Entra nelle tenebre della sapienza: l’antica magia rifugge la luce. Noi ricordiamo le ere perdute in cui l’uomo è diventato sciocco e saggio. Ricordiamo gli Dèi animali: gli Dèi Serpente, gli Dèi Scimmia, e gli Dèi senza nome: gli Dèi Neri, che hanno bevuto il sangue e che avevano voci che ruggivano attraverso le colline tenebrose, che godevano e banchettavano. I segreti della vita e della morte appartengono a loro… Noi ricordiamo… noi ricordiamo…” – Ombre Rosse, Robert E. Howard

“Conan era rimasto accovacciato per ore nei cortili dei filosofi, ascoltando gli argomenti dei teologi e degli insegnanti, e ne era uscito con un ammasso di idee confuse, sicuro di una cosa soltanto: che erano tutti matti.” – La Torre dell’Elefante, Robert E. Howard

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