La Voce Nera è il secondo romanzo breve di Gianmaria Ghetta.
Liberamente ispirata alla figura di Edgar Allan Poe, questa seconda avventura targata Delos Digital, mostra ancora – era già avvenuto per l’esordio di qualche tempo fa con L’Eredità – come Ghetta prediliga per le sue trame l’intersezione creativa di vicende storiche reali con addentellati fantastici, miscelando il tutto con una spiccata vena heroic fantasy (e non per niente, la collana in cui i suoi lavori escono ha proprio questo nome).
Una seconda prova ben riuscita, questa de La Voce Nera, che sfrutta classici movimenti d’avventura sfiorando in qualche caso contaminazioni weird altrettanto d’annata, ma proprio per questo rodate e gradevoli.
C’è un lato oscuro, nella vita del celebre autore de Il corvo e Il pozzo e il pendolo, un’ombra senza nome che cala su di lui da un passato lontanissimo, cui pure è legato da un vincolo che non si può spezzare: quello del sangue. E della magia nera.
Per saperne di più su questo intrigo venato d’orrore, ma senza rovinarvi la sorpresa, ne parleremo ora proprio con Gianmaria. È un amico, e gli darò del tu, sperando al contempo di fargli proprio le domande che vorreste porgergli voi, mentre siete impegnati ad andare a recuperare al volo la vostra copia de La Voce Nera!
“Sono in uno stato depressivo spirituale mai fino a ora avvertito. Mi sforzo invano sotto questa malinconia e credetemi, quando Vi dico che malgrado il miglioramento della mia condizione mi vedo sempre miserabile. Consolatemi Voi che lo potete e abbiate di me pietà perché io soffro in questa depressione di spirito che se prolungata, mi rovinerà…”
Questa citazione, tratta da una lettera che Poe scrisse al suo estimatore e sostenitore John P. Kennedy nel settembre del 1835, è parallela a un ben preciso passaggio de La Voce Nera, molto importante per l’avvio della vicenda, e cioè quello in cui il protagonista rivela, almeno in parte, di essere in preda a una incoercibile pressione psicologica. Uno stralcio che mostra anche come tu ti sia ben documentato sul Poe storico, prima di farne un tuo personaggio. Come hai impostato questo lavoro?
Prima di rispondere, Andrea, lasciami innanzitutto esprimere il mio ringraziamento per la bella opportunità che mi offri, con questa intervista, per poter parlare ai lettori della mia opera, e più in generale, di scrittura. Farlo è sempre un piacere, ancor più se in compagnia di un amico, e nel tuo caso anche apprezzato scrittore.
Ma veniamo alla tua domanda. Come hai sottolineato nella presentazione, amo scrivere storie dove storia e fantasia si intrecciano. Si tratta di una cosa che mi diverte molto, e che trae la sua origine dalla mia grande passione per gli studi storici, passione che mi ha portato anche alla laurea in storia al termine della mia esperienza universitaria. Chiaramente questa scelta comporta la necessità di un certo lavoro di documentazione, che in caso di soggetti a me non particolarmente noti o inusuali può rivelarsi anche abbastanza impegnativo. Nel caso specifico, Poe non ha comportato però una difficoltà eccessiva, poiché già possedevo numerose informazioni sul buon Edgar. La situazione storica irlandese del XIII secolo si è invece rivelata uno scoglio ben più aspro da superare, dato che non ne sapevo granché, se non qualche accenno superficiale. Naturalmente, parlando di fantasy a sfondo storico e non di un romanzo storico vero e proprio, la parte fantastica non deve mai essere soverchiata da quella storica, però la preparazione preliminare per un lavoro di questo tipo, personalmente mi richiede qualche settimana di documentazione. Vorrei inoltre sottolineare l’esistenza di un rischio, credo naturalmente insito in questo procedimento, ovvero la tendenza a quello che io chiamo “sovraccarico informativo”, che potrei definire più brutalmente “il troppo stroppia”. Documentandosi su un personaggio, fatto o epoca storica, il rischio è quello di non averne mai abbastanza, di provare la sensazione che l’ambientazione non sia mai abbastanza dettagliata, mai ricca a sufficienza di sfumature, particolari, curiosità… questo è un pericolo che, se non controllato, può inibire il tuo lavoro fino a bloccarlo, o peggio, addirittura far deragliare il treno dell’intera storia, rendendo il libro più simile a una noiosa lezione nozionistica che a una bella avventura. Per me, il trucco consiste in questo: “respirare” l’ambientazione, entrarci dentro e infine farla tua; solo a questo punto, scrivere. In questo modo, il processo di scrittura si rivela più facile, poiché la scelta di quando e dove inserire nel testo informazioni e riferimenti storici, senza appesantirlo, risulta quasi naturale. Entrare in possesso prima di una solida documentazione, senza esagerare, mi consente di dedicarmi alla vicenda fantastica senza troppi pensieri, riuscendo ad amalgamare ad essa il telaio storico senza forzature, in modo quasi naturale. Non è un processo facile, specie le prime volte in cui ci provi, ma lo ritengo indispensabile.
C’è un tema molto interessante al centro de La Voce Nera, che è quello della possessione, o meglio, dello scambio di corpi e di menti. Uno spunto che si può incontrare più volte in ambito fantastico, declinato in forme varie, anche non necessariamente soprannaturali. Per certi versi, anche Lo strano caso del Dottor Jekill e Mister Hide potrebbe annoverarsi tra gli esempi. Quello che ha per protagonista il tuo Poe è però frutto palese di un sortilegio. A cosa ti sei ispirato per questo espediente?
In realtà, Andrea, se devo essere sincero, l’idea dello scambio di corpi e menti è nata dopo, mentre scrivevo. Il punto di partenza è stato più l’elemento del viaggio temporale. Tutto è nato da “Kings of the night”, conosciuto ai lettori italiani come “I re delle tenebre”. In questo magnifico racconto del 1930, del mio autore Sword&Sorcery prediletto, l’immenso Robert Ervin Howard, il re dei pitti Bran Mak Morn, in procinto di affrontare in battaglia i più disciplinati e meglio armati legionari di Roma, chiede aiuto a Gonar, suo stregone, per convincere una banda di razziatori norreni a unirsi a lui. Senza di essi il re sa di non poter vincere. Ma gli uomini del nord esigono di essere guidati da un grande re del loro sangue, cosa impossibile da ottenere. Ed è allora che Gonar invita Bran a chiedere aiuto all’antica gemma incastonata nella sua corona, retaggio dell’ancestrale origine atlantidea della sua stirpe. E dalle nebbie del passato, nel presente si materializza il più grande sovrano guerriero di ogni tempo, Kull di Valusia, che guiderà gli uomini di Bran alla vittoria. Come è stato possibile tutto ciò? Nel racconto, Gonar, che non è chiaro quanto sia oppure no lo stesso Gonar che visse ai tempi di Kull, pronuncia queste parole davanti a uno scettico Bran:
L’uomo è sempre al centro di ciò che noi chiamiamo tempo e spazio. Io sono andato nel passato e nel futuro, e l’uno e l’altro sono reali come il presente… che è simile ai sogni degli spettri!
Ecco, rileggendo questo gioiello di Howard e queste parole, si è sviluppata in me l’idea dello scambio di corpi e menti attraverso il tempo. Del resto, ne la Voce Nera, la situazione generale è critica quanto quella di re Bran Mak Morn prima della battaglia, quindi… situazioni disperate richiedono soluzioni disperate!
L’Irlanda del passato, dove si svolge parte della vicenda del romanzo, è una terra da sempre associata al magico e al meraviglioso di stampo celtico. Senza tradire questo aspetto, tu ne hai fatto però soprattutto una regione di sanguinosi guerrieri, o sbaglio? Mi pare che anche l’interessante nota storica che hai voluto dedicarle alla fine del libro confermi questo aspetto.
Sì, è proprio così. Come ti dicevo prima, la fase preparatoria di documentazione mi ha portato ad addentrarmi nella travagliata storia irlandese. Molti appassionati di storia e di letteratura fantastica conoscono abbastanza bene le vicende dell’Irlanda che ruotano intorno alla figura potente di Brian Boru, sovrano supremo d’Irlanda, morto nella tremenda giornata campale di Clontarf. Pochi tuttavia conoscono il caos originatosi dalla scomparsa del grande re in quella sanguinosa battaglia. Si potrebbe dire che la bella isola di Erin nei secoli successivi si trasformi nella New York immaginata da Walter Hill ne “I guerrieri della notte”, uno dei miei film preferiti: un microcosmo di bande sempre in lotta tra loro, impegnate in una guerra fratricida per contendersi pezzi di un territorio intriso di sangue fraterno. Devo dire che sono rimasto sorpreso dall’infinita e complessa galassia di faide, omicidi, vendette, tradimenti e massacri perpetrati per secoli in quella terra meravigliosa. Intrighi e lotte che non hanno alcunché da invidiare agli intrecci di Games of Thrones e di tanta letteratura, cinematografia o serialità televisiva. Come amo spesso ripetere, la storia è il più sorprendente e affascinante generatore di trame che io conosca.
Mentre le pagine scorrevano, mi è sembrato di cogliere più di una citazione o richiamo ad opere famose del vero Poe. Quanto sei legato alla sua opera? Possiamo considerarlo come uno degli autori che ritieni ti abbiano influenzato in termini di ricerca estetica o di suggestioni?
Nel testo sono presenti riferimenti a sei racconti di Poe. Devo dire che questa scelta mi ha tenuto in dubbio per parecchio tempo. Non volevo che la storia si trasformasse in una pedissequa serie di omaggi o citazioni delle opere originali, ma con il procedere del lavoro mi sono reso conto di poter omaggiare l’opera del maestro senza incorrere in questo problema. Credo che il testo sappia riprendere, a volte in modo diretto, in altre molto più sfumato, alcune delle narrazioni di Poe, non sempre le più famose, riproponendone certi elementi chiave in modo funzionale alla trama.
Quanto sono legato all’opera di Poe? Direi parecchio, anche se in realtà il mio amore per Poe nasce da quello per Lovecraft. Leggendo e innamorandomi delle opere di questo illustre discepolo, per molto tempo ho rinviato la lettura di quelle del maestro, frenato a volte dalla semplice pigrizia, a volte da ingenui pregiudizi, ereditati da altri, su una presunta obsolescenza della sua opera agli occhi del lettore moderno. Che posso dire? Ero evidentemente giovane e stupido. La lettura degli scritti di Edgar Allan Poe, oltre a regalarmi inestimabili ore di diletto, mi ha aperto un mondo, svelandomi uno dei più incredibili autori che la narrativa del terrore, del macabro e dell’immaginario abbia mai potuto e mai potrà annoverare. Ora Poe campeggia di diritto nella mia biblioteca, accanto ad altri mostri del calibro di Lovecraft, Blackwood, Machen, Stoker & Co. Il suo stile, la sua capacità di evocare immagini potenti e di generare inquietudini profonde, mi hanno certamente influenzato, perché, nonostante io non mi sia mai cimentato con opere propriamente afferenti al genere orrifico, tuttavia nello scrivere storie heroic fantasy, mi trovo spesso nella necessità di dar vita ad ambientazioni cupe, tenebrose o gravide di minaccia. E dove la paura si addensa, gli insegnamenti del maestro non possono che aiutare.
Senza svelare nulla, possiamo però dire che il finale de La Voce Nera è in un certa misura aperto. Hai mai pensato di serializzare il tuo Poe coinvolgendolo in avventure sempre più fantastiche, magari ispirate ai suoi racconti “veri”?
Sarò conciso: no, non ci ho mai pensato. Fatto salvo che, nella vita, “mai dire mai” è sempre un motto di buon senso, ai miei occhi “La Voce Nera” è una parabola completa e conclusa. Quando l’ho scritto e ne ho immaginato il finale, non ho pensato a un seguito, tantomeno quindi a una serializzazione. Credo poi, che il vedere un finale aperto o chiuso, eccezion fatta per i casi più espliciti ed evidenti a tutti, sia spesso una questione che risiede negli occhi del lettore, più che dell’autore. Il lettore, se ha apprezzato una storia e si è appassionato alle vicende dei personaggi, è spesso portato a cogliere nel finale ogni elemento che giustifichi una qualche continuazione della vicenda. Penso che per lo scrittore sia diverso, perché nel suo caso è spesso chiaro fin dall’inizio se la storia debba o possa avere una continuazione. A meno che, ma almeno per il momento non è il mio caso, non sia il personaggio stesso a invocare il suo creatore, attraversando il confine immateriale della parola scritta, per richiedere a gran voce una seconda vita, in un’arena diversa e nuova.
Rispetto a L’Eredità, in questo nuovo lavoro mi pare tu abbia calcato maggiormente la mano nelle descrizioni, dando più spazio ai momenti forti della storia. Insomma, magia nera e acciaio non mancano, ma non sono mai un orpello, qualcosa che “ci deve essere”, bensì emergono naturalmente lì dove ne necessita l’avventura. Pensi di dedicarti in futuro a uno sword&sorcery duro e puro (domanda posta con un occhiolino neanche troppo nascosto!)?
Sì Andrea, hai colto nel segno. Raccogliendo anche consigli preziosi da parte di amici e colleghi, tra i quali sono onorato di annoverarti, ho deciso di imprimere un cambio di marcia netto, rafforzando i toni “oscuri” della storia. Senza dubbio le ambientazioni selvagge e cupe de “La Voce Nera” si prestavano meglio a questa svolta dark, rispetto alle assolate distese del Vicino Oriente israelitico al centro della scena ne “L’Eredità”, ma certamente il punto chiave è stato un mio desiderio di sperimentare sui toni del narrato. Fin dalla scena di apertura della storia, ho voluto comunicare al lettore un’atmosfera cupa, mettendo in chiaro un messaggio: Amico lettore, aspettati sangue e morte, perché qui di momenti allegri non ne troverai molti! In realtà, scorrendo le pagine di questa avventura il lettore troverà anche momenti più leggeri, perché io amo inserire sprazzi di umorismo nelle mie storie, affidandoli preferibilmente a personaggi o comprimari adeguati a tale scopo, ma è fuor di dubbio che “La Voce Nera” sia un’opera oscura, attraversata da un’atmosfera di magia nera e violenza adeguata alla sua natura. Volevo fosse così, e sono lieto di sentire dalle tue parole come questo aspetto sia palpabile durante la lettura.
Ma non voglio sfuggire alla tua domanda finale, che per me è davvero interessante. Uno Sword&Sorcery duro e puro? Sì, ci sto pensando da tempo. E pure lavorando, anche se molto, molto più lentamente di quanto vorrei. Quando ho ricominciato a scrivere seriamente, togliendo dal cassetto dove lo avevo lasciato sepolto per troppo tempo, il mio desiderio giovanile di cimentarmi con la scrittura, ho dato vita a una serie di avventure Sword&Sorcery, completamente ambientate in un mondo secondario di mia invenzione. Sono avventure, lasciamelo dire solo per rendere l’idea, molto “howardiane”, ricche di azione, magia e mostri, dove il protagonista si muove in un’ambientazione che è un omaggio sia alla natura della mia terra natia, le Dolomiti, sia alle vastità incontaminate che caratterizzano il western, probabilmente il mio genere cinematografico preferito. Ecco, in questo mondo ho voluto infondere il mio amore per la natura selvaggia, che diventa al contempo teatro delle vicende e coprotagonista, imponendosi con la sua maestosità e durezza. Ho scritto sei racconti di questo ciclo, ma non li ho ancora mai voluti proporre a nessun editore. Alla luce di come la mia scrittura si sta evolvendo, prima di tentare di concretizzare questo mio sogno fantasy, dovrei certamente riprendere il tutto in mano, rivederlo, smussarlo, perfezionarlo. Forse, chissà, magari anche trasformare i racconti in un romanzo… Ma il sogno è sempre lì, e il mio personaggio reclama a gran voce di poter respirare libero nelle pagine di un libro, quindi… chi vivrà vedrà. Per adesso, però, le priorità sono altre, perché ci sono diverse cose in ballo che assorbiranno il mio tempo dedicato alla scrittura per molti e molti mesi.