Come promesso, eccoci ancora con ERE, ovvero Erick Rucker Eddison, questa volta con Zimiamvia II. Partiamo dal secondo capitolo della saga per due motivi. Il primo, di natura pratica, consiste nel fatto che i libri non sono reperibili con semplicità, trattandosi di pezzi ormai di nicchia e poco fruibili dal distratto (mi perdonerete) lettore moderno. Il secondo motivo, di ordine invece simbolico, consiste nel fatto che tutto è certo in Zimiamvia tranne che lo scorrere del Tempo, e quindi, dato che per queste poche righe possiamo prestare fede a qualche assunto zimiamviano appunto, pee esempio che il tempo sia una “faccenda curiosa”, non proprio lineare come siamo abituati a percepirlo… quindi tanto vale non preoccuparsi troppo delle formalità.
Dunque veniamo al libro Zimiamvia II, edito da Fanucci nel 1990 nella collana Libro D’Oro, la quale si preoccupava di collezionare il meglio della narrativa fantastica, fantascientifica e dell’orrore. Innanzi tutto mi sembra il caso di affermare che Zimiamvia II è quanto di più lontano, rispetto a un classico libro fantasy, io abbia mai letto.
Probabilmente pubblicato originariamente sulla scia del capolavoro della Fantasia Eroica “Il Serpente Ouroboros”, Zimiamvia se ne distanzia parecchio, ovvero dai canoni tipici del genere sopracitato, e anche rispetto alla precedente opera di ERE.
Si potrebbe scommettere che ERE si sia molto divertito a giocare questo tiro un po’ a sorpresa e un po’ a tradimento, di cui ora andremo a parlare. Di sicuro vinceremmo nella scommessa su quanto sia stato arduo tradurre questo libro; citerò delle piccole parti, per rendere l’idea. E non finiremo mai di ringraziare il traduttore, Bernardo Cicchetti, anche perché in occasione di questo approfondimento ci ha concesso una piccola intervista.
Dunque, in questa appassionata analisi di un’opera parecchio lontana da canoni a cui siamo abituati, mi fa piacere partire dalla mia personale prima impressione, ovvero che l’opera sia, senza giri di parole, abbastanza folle e parecchio strana.
La prima pagina ad esempio: il capitolo si intitola “Afrodite a Verona”, e l’incipit recita: “Ca m’amuse (Ciò mi diverte). Le parole, indolenti, scivolarono con la lentezza di una voce amabilmente pigra, e parvero mandare la notte, no, il Tempo stesso, in frantumi; come quando quel Mi puro da tre ottave, simile a una freccia, alto sulla prima di violino, profondo sul violoncello, s’inflgge all’improvviso nella tranquillità stregata dell’andante del terzo Quartetto Rasoumoffsky.” E più o meno il resto del libro è così, uno stile barocco, arzigogolato, evanescente.
Il mio immediato pensiero dopo ciò,, fu di non riuscire a finire il libro. Le serate a Verona sono senz’altro belle, ma trecento pagine così… insomma. Ciò che mi ha spinto, più per intuizione credo, a proseguire, sono state certe frasi molto poetiche, ispirate, dense di significato, che si trovano più o meno a ogni pagina. Provo a riportarne qualcuna, per rendere l’idea.
“Credo di conoscere i dipinti successivi, e adesso non credo a loro.”
“Non sono interessanti.” Disse Mary. “Ma in questo, lei non è molto ventesimo secolo. È curiosamente fuori da qualsiasi epoca”
“O dentro.”
“Sì: o dentro qualsiasi epoca.”
Barganax e Fiorinda guardarono la mano della Duchessa Amalie stretta a quella del Re sul tavolo: videro la sua bellezza raccogliersi come un serpente attorcigliato, mentre sedeva, fronte e occhi sereni, simile a una Regina scesa dal cielo e impavida sull’orlo del fato. “IL gioco è troppo serio. ” Sussurrò nell’orecchio del Re. “Stai vicino a me. Tu e io,” sussurrò “siamo legati, fusi. Siamo dentro di esso.”
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Diciamo che a livello inconsapevole, inconscio più o meno, questo molto strano e sicuramente affascinante libro mi ha fatto un effetto particolare, che riesco a spiegare solo con un esempio volto a semplificare, l’effetto (perdonatemi la licenza pseudo-poetica) di “Thuzhun Tune”.
“The Mirrors of Thuzun Thune”, anche se scommetto che molto di voi lettori avranno già indovinato, è un celebre e particolare racconto di Robert Erwin Howard, protagonista il mitico Kull di Valusia, il barbaro (tanto per cambiare) atlantideo che si fa strada in un mondo protostorico a suon di asciate (By this axe I rule) sulle teste di nemici, cospiratori e stregoni, e uomini serpente. I racconti del personaggio Kull sono ormai celebri e sono caratterizzati da un’azione particolarmente schietta e violenta, ma anche filosofica, a differenza dei racconti di Conan il Barbaro per esempio, nei quali questo aspetto diciamo più riflessivo, per semplificare, è in sostanza assente.
Insomma per farla breve, il grande sovrano Kull, dopo aver sotterrato leggendari avversari, si prende il lusso, appunto nel racconto “Gli specchi di Tuzun Thune” di mettersi a sedere e di guardare in questi accidenti di specchi… e cosa ci vede? Beh non è facilissimo da spiegare, diciamo un riflesso di se stesso, ma come se fosse osservato da un’angolazione o da una prospettiva nuova, mai considerata prima, come se fosse possibile in quella particolare contemplazione, osservare le più profonde radici del proprio essere, da dove vengono e dove andranno… a quali altri mondi appartengono, o apparterranno… quali sono le ragioni profonde dei nostri istinti, delle nostre azioni, del nostro intelletto… insomma per rimanere in tema con i libri zimiamviani, cosa c’è oltre il Velo? È possibile anche solo parzialmente scorgerne o intuirne frammenti significanti? Qual’è il confine che divide con chiarezza di pensiero, se c’è, ciò che comprendo della realtà, cosa intuisco, e cosa immagino?
Il grande Re Kull, primo tra gli uomini d’azione, eppur si perde in questi profondi e irrisolti pensieri…
Dicevo, leggere Zimiamvia II è un po’ come vedere la propria immagine riflessa in uno degli specchi di Thuzun Thune, o anche come distogliere per qualche attimo il Velo che cela la pura realtà delle cose.
Come Zimiamvia II abbia una forza simbolica così prorompente per me rimane un mistero. Opera che affonda le proprie radici culturali in epoche direi remote, anche geometricamente (rispetto al nostro piano di esistenza, ovviamente) rispetto alle nostre, con un susseguirsi talvolta banale di immagini e situazioni… eppure arriva in profondità, molto.
Non penso sia esagerato affermare che per certi versi è un’opera che supera il Fantastico. Tramite episodi poetici del nostro mondo, poetici abbiamo detto, ma allo stesso tempo umanissimi, come una serata passata a bere “vin rosso, vin bianco” a Verona, una partita di Cricket giocata, una colazione in famiglia con i bambini, una discussione tra innamorati… collegato, il nostro mondo, con “una sottile linea rossa” alle vicende del mondo della fantasia Zimiamvia, avvolto nella tessitura di trame politiche tra regno sull’orlo della guerra, nelle cospirazioni (il capitolo “Sette contro il Re” è magnifico a dei livelli che non so come descrivere), in nobillissimi personaggi che sono presi da avventure galanti (non sempre) e amorose, dalla filosofia, dalle profonde pulsioni della propria natura… e il tutto si conclude, con un “sense of wonder” travolgente e genuino, durante a “Fish Dinner in Memison”, ovvero “Una cena a base di pesce” (e vino, si potrebbe aggiungere) a Memison, privilegiato topooo letterario nel quale è facile anzi caldeggiato scivolare con la fantasia e l’intuizione poetica verso i grandi temi della metafisica.
Perchè in fondo, tolto il celebre Velo appunto, credo che di questo la seconda opera zimimviana tratti. Il due capitoli finali, ovvero “Profondo abisso di tenebra” e “Dieci anni, dieci miliioni di anni dieci minuti” chiudono un po’ il cerchio (o potremmo dire l’Uroboro) delle vicende con una scena che, se ci concediamo il piacere della dovuta immedesimazione, è da brividi.
Proseguo con l’idea ancora di inquadrare sinteticamente l’opera: ci sono pochissime battaglie o scene d’azione (cosa della quale personalmente sono alla perenne ricerca) ma non se ne sente la mancanza. Aggiungo una nota di merito per delle immagini erotiche inusuali quanto meravigliose. Le battaglie, l’azione, sembrano sospese in una dimensione eterea, si sa che ci sono state e che ci saranno, inevitabilmente, perché i personaggi del libro non tradiranno, anzi tutt’altro, i loro sentimenti e i loro valori, ma andranno fino in fondo, eroicamente, da un certo punto di vista. Delle battaglie con la propria anima, da un certo punto di vista.
E buffo ma anche difficile descrivere questa opera perché a livello di trama non succede quasi niente, e quello che succede sembra parecchio slegato dagli eventi generali… eppure… approfitto di questa sede per spezzare una lancia a favore di Eddison sull’imprevedibilità della narrazione. Vi assicuro che ogni capitolo, pagina e riga è meravigliosamente una sorpresa, anche solo per le citazioni e rielaborazioni culturali.
Tirando infine le fila di questa Zimiamvia II, non mi viene in mente altro esempio se non questo: la classiche vicende che si aspetta da un mondo fantasy, le battaglie, le avventure, i duelli, gli intrighi… non sono altro che le ombre della caverna di Platone.
Eddison sembra voler suggerire: amico o amica mia, ci sono più cose in cielo e in terra che nella tua fantasia… la realtà è meravigliosa, la “vida es sueno”, basta osservarla dalla giusta angolazione. Quello che vuoi fare e ciò che provi a essere non è niente di nuovo, e solo il solito vecchio gioco col quale Afrodite dalla Corona d’Oro si diverte a schernirci. Che fai non giochi? Ricorda di rispettare le regole e… buon divertimento.
A mia memoria, non ricordo un libro di genere fantastico che sia andato così in profondità e così oltre il fantastico e il reale da giungere infine a unire questa apparente contraddizione (e qui ritorna sempre, su diversi piani d’esistenza direi, l’Uroboro).
Questa bellezza divina è evidente, fugace, impalpabile ed errante nel mondo materiale; eppure è indubbiamente individuale e autosufficiente, e sebbene forse ben presto eclissata, non si estingue mai davvero: poiché riappare nel tempo e appartiene all’eternità.
Vieni con me amico o amica mia, facciamo un giro in questo mondo strano e meraviglioso, che ha radici che si perdono nella notte del Pensiero, e foglie su giovani e alti ramoscelli che forse siamo noi stessi.
Il Fantastico allo stesso tempo esaltato e annullato. D’altra parte è solo un deja vu.
Intervista a Bernardo Cicchetti
Traduttore di tutte le opere di ERE edite in Italia. Ringraziamo il signor Cicchetti per essere stato gentile e disponibile nel rispondere ad alcune nostre domande sul Zimiamvia II.
La prosa di Zimiamvia II ci è sembrata un poco difficile. È stato un lavoro arduo tradurre questa opera?
Eddison scriveva in un inglese piuttosto colto e denso di riferimenti letterari. La traduzione richiese un notevole dispendio di tempo anche per trovare la giusta interpretazione di vocaboli o interi passaggi. Cercai anche di adattare per il meglio i passi di tipo poetico per conservare la giusta atmosfera.
– L’opera sembra molto lontana dai canoni di oggi in merito ai romanzi fantasy. Lei è d’accordo? Ci può dire cosa ne pensa su questo argomento? La consiglierebbe a un lettore di oggi?
– Potrebbe condividere con i lettori il proprio pensiero sull’opera di Eddison (Ouroboros e Zimiamvia), dal punto di vista della sua opera di traduttore.
Direi che l’unico termine di paragone per le opere di Eddison sia il Signore degli Anelli (Per uso della lingua, profondità dei personaggi, suggestione mitica) … Ma in questo caso il fantasy di Eddison mi pare più un antesignano dell’ Heroic fantasy… Comunque è sempre difficile e sconsigliabile etichettare troppo le cose. Certo la lingua di Eddison, come dicevo sopra, non è facilissima da seguire per un lettore attuale… Ma credo che la suggestione delle sue opere possa essere colta ancora oggi. Ecco, mi sento di consigliare, a chi se la sente, sicuramente il Gormenghast di Mervyn Peake (Adelphi), che ritengo un capolavoro assoluto del genere….