
Nel chiarore e la calura da cui nessuna ombra poteva ripararle, due figure scure continuavano l’ascesa tra le pietre smosse del sentiero montano, ormai lontane dal verde fresco delle pinete.
La prima figura, che avanzava sicura poggiandosi ad una lunga asta che utilizzava a mo’ di bastone, era quella magra e tonica d’una giovane donna dalla pelle nerissima, con la testa rasata e il volto bello nonostante gli zigomi pronunciati ed il mento volitivo. Aveva l’espressione severa e la fronte corrugata di chi è concentrato su un unico obiettivo e la sua bellezza era barbara ma non selvaggia, come dimostravano gli orecchini e i monili d’oro e agata verde che indossava, finemente cesellati, e l’ottima fattura delle due strisce di pelle di leopardo che le coprivano il corpo, una che le fasciava il seno e l’altra i fianchi e l’inguine. Il bastone che la guerriera portava con sé era lungo quattro cubiti o poco più ed era più spesso d’una lancia, oltre a non avere una punta: era ornato da sottili bande dorate e da come lo impugnava s’intuiva che non se ne separava mai, considerandolo più che una semplice arma.
La seconda figura, che seguiva con passo fermo la giovane, era quella d’un uomo anziano dalla pelle dello stesso colore, avvolto in un manto di finissimo lino violetto con ricami dorati. La barba e capelli bianchi tagliati corti non nascondevano la somiglianza con la giovane, tradendo un’evidente parentela. Anche il vecchio indossava orecchini d’oro e aveva al collo una spessa collana d’ambra grezza.
Più in alto, la giogaia smussata e brulla che coronava l’Atàviro, con le sue rocce sbiancate dal Sole, era d’una luminosità abbagliante; sembrava vicina eppure camminavano da tanto e la vedevano sempre lassù, quasi come uno dei miraggi del grande deserto non distante dalla loro terra lontana. L’Atàviro pareva poco più che una grossa collina, senza profili scoscesi od evidenti picchi, ma era in realtà un monte molto antico.
Se avessero affrontato quel cammino qualche mese prima sarebbero stati quantomeno appagati dalla compagnia dei fiori di salvia bianca e blu, da anemoni azzurri e cisti rosa, ma forse solo il vecchio vi avrebbe fatto realmente caso, lasciandosi andare ad una delle sue prolisse riflessioni sulla bellezza della natura e la grazia degli Spiriti che la governano. La giovane invece non aveva occhi per quello che la circondava, se non per i sassi su cui poggiava i piedi, perché non desiderava altro che raggiungere la vetta.
La fatica della salita sotto il Sole a picco, dapprima sottovalutata, non era bastata a piegare il portamento orgoglioso d’entrambi, riprova della nobiltà del loro sangue, che erano abituati a mostrare in ogni situazione. Venivano da molto lontano ed avevano viaggiato a dorso d’elefante per giorni prima d’imbarcarsi per navigare il Mar Rosso verso nord, fino all’Egitto, e ad Alessandria s’erano imbarcati di nuovo, fino a Rodi. Sbarcati a Rodi avevano creduto che il loro viaggio fosse finito, ma non aveva voluto così Memnone, lo Spirito immortale travestito da uomo che era il segreto tiranno della città: erano giunti da tanto lontano per avere il suo consiglio e lui li aveva inviati in quel pellegrinaggio. Da quando avevano iniziato l’ascesa non avevano incontrato altri uomini e da quando avevano lasciato la pineta non avevano più visto neppure animali.
«Neanche un capra sul nostro cammino…» notò il vecchio ad alta voce. «L’adorata nipote del saggio Geedi-Barre non cerca l’opinione dello zio, e lui avrebbe gradito almeno qualche capra con cui parlare.»
La battuta strappò un sorriso alla giovane nonostante la sua concentrazione, e volle replicare allo zio a tono:
«Forse il saggio Geedi-Barre non ricorda che Uba-Caaisho, futura regina del Regno di Gheledi nella terra di Punt, percorre questo sentiero che evitano anche le capre proprio a causa d’uno dei suoi saggi consigli».
Il vecchio scosse il capo con un sorriso affettuoso:
«Il Fiore tra i Regni di Punt, evidentemente non soddisfatta dei suoi consigli, chiese al saggio se potesse indicargli qualcuno più saggio di lui, al che egli pensò che l’immortale che era stato Re di Persia e d’Etiopia, nonché amico ed alleato della Regina delle Amazzoni Pentesilea, avrebbe potuto soddisfarla. Fu quell’immortale a mettere la futura regina sulla strada che evitano pure le capre… non lo zio che pure l’accompagna».
«Rimpiangi il tuo consiglio, zio?»
«Mai Uba: era ed è il consiglio che volevi», le rispose con tono paterno. «Ho visto crescere tua madre e le sono stato al fianco come ora sono al tuo. Ad entrambe ho voluto insegnare ponderazione e misura, per garantire pace e prosperità al nostro popolo. Mi piace pensare che mia sorella sia ora una sovrana giusta anche per mio merito. Tu sei giovane e ambiziosa e vuoi fare ancora di più, anche se non hai chiaro cosa. Tu pensi che gli assoluti di uno Spirito potranno esserti d’aiuto: io spero che ascoltandoli tu capisca l’ultima meta dove t’indirizzerebbero.»
Lei ebbe un moto di stizza ed impazienza e tornò a pensare al suo scopo.
Avanzarono e la pendenza crebbe, fino a quando si trovarono ai piedi di quello che sembrava un canalone, creato dal lento scivolamento d’un ghiaione. In quel momento il vento gli portò il suono di muggiti lontani, quasi che un branco di tori irrequieti li attendesse più alto, nascosto oltre il pendio, e Geedi-Barre rispose all’espressione interrogativa della nipote dicendole:
«Siamo vicini, Fiore tra i Regni di Punt: presto saremo accolti dall’armento che Minosse mandò in dono a Memnone».
Uba-Caaisho si limitò ad annuire prima di riprendere l’ascesa, cercando le rocce più grandi e stabili su cui poggiare i piedi, perché mucche e tori non la interessavano più di quanto in realtà già non l’interessassero le capre.
Dopo aver risalito il ghiaione Uba ebbe l’impressione che fossero ormai vicini alla cima, invece la salita continuava, nascosta dall’ennesimo cambio di pendenza della montagna che s’era fatta ancora più brulla e sassosa. In quel punto iniziava una lunga scalinata dalla pendenza ridotta, fiancheggiata da statue di bronzo di tori su robusti piedistalli di marmo, che proseguiva sino alla vera vetta del monte, che si scorgeva in lontananza, coronata dalla sagoma d’un tempio.
«Ecco, questi animali furono il dono dei Minoici per Memnone quando giunsero a Rodi», spiegò Geedi-Barre.
Le due fila di tori osservavano i pellegrini che procedevano sui larghi gradini spaccati ed in alcuni punti quasi cancellati dalle intemperie. Ad una folata di vento rispose il muggito delle statue cave, che avevano aperture nel corpo fatte per incanalare l’aria fino alle bocche degli animali. Eppure l’udito acuto della giovane, addestrato alla caccia, percepì anche altro tra il vento che cresceva.
Mentre avanzavano sotto lo sguardo delle statue muggenti, Uba era in allerta e scrutava con attenzione il limitare dei non distanti pendii ai lati della scalinata. Infine individuò le ombre furtive e fulminee che cercava.
Erano animali della taglia di cani, con la testa d’aquila coperta da folte piume cinabro come il petto ed il resto del corpo grigio maculato, con torsi ed arti muscolosi come quelli delle leonesse della savana, delle quali condividevano le movenze. Ne contò cinque nel branco. Dapprima sembrò che volessero studiare lei e suo zio, decidendo il da farsi, poi li vide avvicinarsi in fretta, stridendo e lanciandosi grida acute l’un l’altro, eccitati dalla vicinanza di due possibili prede.
Il tempio erano ancora distante e non v’era tempo per correre a cercarvi un incerto riparo, né Uba era disposta a fuggire, per cui aiutò velocemente lo zio a salire in groppa ad uno dei tori di bronzo e si preparò ad affrontare la minaccia. Il vecchio sguainò un lungo pugnale ricurvo per difendersi, mentre la nipote iniziava a roteare il bastone per scaldare le braccia.
«Conosci queste creature, zio?»
«Grifoni! Bestie rare e pericolose: veloci come ghepardi, con artigli di leoni e becchi d’aquila. Ricorda i giorni in cui affrontasti da sola la grande savana.»
I grifoni accelerarono con falcate lunghissime tra rocce e sassi, ricordando realmente ad Uba i ghepardi. I due più veloci le balzarono addosso in un istante, incontrando il bastone della guerriera spinto in un’unica potente spazzata: il primo degli animali colpito crollò a terra col cranio sfasciato, mentre il secondo se la cavò con una zampa intorpidita.
A quel punto i tre grifoni più arretrati, dimostrando un certa intelligenza, si misero a girare in tondo intorno alle prede. Lo sguardo degli occhi d’ambra ne tradiva le intenzioni: l’umana armata era un pericoloso ostacolo da evitare per raggiungere la preda più facile, l’umano sulla statua. Anche il grifone azzoppato si rimise in movimento, aggiungendosi al cerchio. Con le teste da rapaci incassate tra le spalle, iniziarono a scambiarsi dei versi simili a pigolii. Uba si ritrovò a desiderare di capire quanto si dicevano, perché non ebbe dubbi sul fatto che stessero comunicando per decidere cosa fare.
Attaccarono tutti assieme. In due finsero un assalto ad Uba, senza arrivare a portata del suo bastone, mentre altri due balzarono contro Geedi-Barre, che ne respinse uno ferendolo con la sua lama ma si ritrovò una coscia lacerata dal becco dell’altro: solo la fortuna evitò che la bestia non riuscisse a trascinarlo a terra.
I grifoni tornarono a girare in tondo, anche quello che perdeva sangue ferito da Geedi-Barre; ripresero a scambiarsi pigolii, studiando l’assalto successivo.
«Nipote», si sentì chiamare Uba che non staccò gli occhi dai predatori, «ricorda le leonesse del grande pianoro e come le battesti. Ricorda quanto ti ho insegnato.»
Geedi-Barre non era stato con lei quel giorno nel grande pianoro: non c’era stato nessuno con lei. I giorni e le notti della Prova della Terra erano passati in solitudine dalle eredi al trono di Gheledi, nelle aree più selvagge del Regno. Era il Regno a decidere chi era realmente degna, ed era un giudice severo. Uba ricordò la notte in cui le leonesse l’attaccarono, ricordò come le mise in fuga. Gli insegnamenti di suo zio l’avevano salvata quella notte e un anno dopo potevano salvarli entrambi. Come tra le leonesse, anche tra i grifoni doveva esservi un capobranco.
V’era uno tra i grifoni che pigolava più di altri e a cui gli altri sembravano rivolgersi a turno, era stato tra i più lenti nel primo assalto ed era stato uno dei due che avevano solo finto di voler attaccare Uba nel secondo. La guerriera non attese che le bestie s’accordassero per una nuova strategia e, con mosse feline, fintò una carica verso quella sanguinante fino a mostrare le spalle al capobranco. Era un rischio calcolato e funzionò: la bestia non resistette. Il grifone balzò con gli artigli ed il becco pronti a dilaniare la sua preda, pregustando il sangue da cui avrebbe tratto nutrimento e che avrebbe di nuovo confermato la sua forza e il suo ruolo nel branco, ma la vide roteare col suo lungo bastone e caricare il colpo con tutto il suo peso. Fu colpito in volo ad un fianco, con tanta forza da essere scagliato a diversi passi di distanza.
Non bastava quel colpo a mettere fuori combattimento il capobranco, ma ucciderlo non era l’intenzione di Uba: la guerriera nera continuò a ruotare l’arma tenendo gli occhi fissi in quelli d’ambra del grifone abbattuto. Come aveva fatto con la leonessa nella lontana notte africana, Uba gli concesse di scegliere. La bestia si rialzò, ma la sua sofferenza era evidente: il colpo le era costato diverse costole. Valutato che lo scontro non era ormai più alla sua portata, con due grida acute di frustrazione ordinò la ritirata. Tutto il branco si diede alla fuga, svanendo in pochi attimi. Solo la coscia ferita di Geedi-Barre e il grifone morto col cranio spaccato restarono a provare la reale presenza dei grifoni sul monte.
Geedi-Barre aveva una brutta ferita, ma anche le radici da masticare per lenirne il dolore e la cui polpa poteva essere usata come antisettico. La nipote lo aiutò a pulire il profondo taglio e a fasciarlo ben stretto, poi insieme pregarono gli Spiriti affinché gli donassero la forza per riprendere il cammino. Geedi-Barre amava infinitamente sua nipote, nonostante il carattere di lei stesse mutando, certamente sconvolto dagli squilibri che segnano il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, quando la crescente consapevolezza di sé e del proprio ruolo pare imporre fardelli d’un peso insostenibile. Il vecchio si tirò in piedi e zoppicando riuscì a tenere il passo della giovane, ansiosa d’andare avanti.
Proseguirono lungo la scalinata diretti al tempio. Mentre s’avvicinavano, Geedi-Barre si stupì nel vedere come la struttura apparisse trascurata ed in rovina. Forse un tempo v’erano state decorazioni sontuose, ma il tempio davanti a cui infine si fermarono era spoglio, le sue colonne di granito mostravano crepe vistose, il tetto era crollato in più punti. L’espressione della nipote tradiva lo stesso stupore, ma anche disappunto.
«Perché questo tempio è in rovina?» gli chiese. «Mi aspettavo maestosità e fasto dallo Spirito che indica agli uomini la via della grandezza.»
Geedi-Barre strinse le spalle e poi le rispose da saggio consigliere, qual era e quale aveva voluto sempre essere:
«Forse perché l’ambizione spinge alcuni ad andare sempre avanti, lasciandosi alle spalle solo rovine, o forse perché chi ambisce spesso non si cura del passato, anzi alle volte non lo ritiene più all’altezza del suo presente e futuro.»
«Un giorno di cammino speso senza alcuna utilità», sentenziò la giovane trattenendo a stento la rabbia, in una posa severa che pareva scolpita nell’ebano.
«Agli Spiriti piace svelare verità tramite oracoli ed insegnare tramite prove, non amano parlar chiaro…»
Con molta attenzione ai possibili crolli, s’introdussero nel nàos del tempio, dove il Sole illuminava dagli squarci sul soffitto una statua di marmo con il bel volto imberbe contornato da capelli lunghi di Memnone: era in piedi, con indosso un’elaborata armatura e lancia e spada in pugno, rappresentato nel suo aspetto umano, quello d’un giovane sulla trentina con le spalle larghe e ritte, con dimensioni poco più grandi delle reali. Ma anche quel simulacro, nonostante l’indubbia qualità della sua fattura, era in rovina, crepato e con dettagli consumati e frammenti mancanti.
Dopo un lungo silenzio in cui Geedi-Barre non disse nulla, Uba si voltò con sul volto un’espressione maliziosa, che lui aveva imparato a conoscere solo da pochi mesi e che a suo parere poco le si addiceva:
«Memnone ha chiesto di riportargli una prova del nostro viaggio, vero?»
Lui annuì, intuendo le sue intenzioni con una smorfia.
Con un balzo ed una rotazione, Uba colpì il potente Spirito allo zigomo con il bastone, staccandogli di netto la testa, che ruzzolò sui mosaici rovinati. Raccolta la testa ed assicuratasela alla schiena con dei lacci di cuoio, la giovane si voltò senza parlare ed uscì da tempio, con la chiara volontà di tornare a Rodi quanto prima. Lo zio scosse il capo e la seguì, come aveva sempre fatto ed avrebbe fatto sempre.
***
Giunsero di nuovo in vista di Rodi il pomeriggio del giorno successivo. Erano Uba ed il suo inseparabile bastone a muoversi avanti, mentre Geedi-Barre seguiva pochi passi indietro.
Addossate alle mura meridionali della città, massicce e dorate, le baracche di schiavi e straccioni ricordavano ad Uba-Caaisho le muffe e i muschi che nella foresta cingono d’assedio i trochi degli alberi più antichi. Non contava quanto potenti o ricche fossero le città che aveva visitato, ovunque la società era divisa in caste, e c’era chi governava e chi era governato, come nel naturale ordine delle cose. Superate le porte delle mura ciclopiche, non occorse molto perché potessero vedere il Colosso spuntare sopra le case e i palazzi. La gigantesca statua di bronzo lucido riluceva sotto il Sole, con le fattezze delle genti di quelle terre, perché, rifletté, anche quello stava nel naturale ordine delle cose: ogni popolo aveva Dèi e Spiriti cui attribuiva un aspetto simile al proprio, perché aveva bisogno d’essere in qualche modo rassicurata da quell’aspetto, doveva avere la speranza di poterli comprendere e credere nella possibilità della loro empatia. Cos’erano in fondo le Divinità se non i governanti più potenti, i governanti dei governanti? Si chiese quale fosse il reale aspetto di Memnone e se lo avrebbe mai visto. Ricordò le parole dello zio, che la seguiva in un silenzio quasi completo ormai da un giorno. Quando erano giunti ai porti di Rodi ed avevano visto per la prima volta il Colosso, lei gli aveva chiesto:
«Cosa pensi zio d’un popolo che onora uno Spirito con una statua così grande?»
Il saggio Geedi-Barre aveva risposto:
«Che quel popolo sta in realtà onorando se stesso».
Il tono neutro di lui non era bastato a nasconderne il giudizio, ma lei non condivideva quel giudizio. Un unico mistero continuava ad ossessionare Uba-Caaisho, l’intenzione di Memnone, ma per questo concordava con lo zio: agli Spiriti piaceva svelare verità tramite oracoli ed insegnare tramite prove, non amavano parlar chiaro.
Geedi-Barre non parlava alla nipote perché sentiva di non aver nulla da dirle. Non era deluso o adirato, né in qualche modo preoccupato, ma attendeva il momento opportuno, e pensava che non sarebbe arrivato prima del nuovo incontro con Memnone.
Così avanzarono per la strada che portava all’acropoli coi suoi templi candidi, ai cui piedi sorgeva il palazzo di Memnone, di granito, quarzo nero ed onice d’Egitto, che con i suoi tre piani era il più alto della città. Come se fossero stati attesi, attraversarono l’ingresso principale delle sue mura, protetto da una cancellata dorata e sorvegliato da diversi uomini con armature di bronzo, giavellotti e spade, e da due degli abominevoli soldati meccanizzati di Rodi, alti un braccio più degli altri: un tempo erano stati guerrieri numidi, i cui muscoli e lo scheletro erano stati in parte sostituiti da ingranaggi e leve di una sconosciuta lega metallica, color cobalto opalescente. La prima volta che avevano visto quegli abomini sia lui che Uba erano rabbrividiti: oltre alle loro lance dalla punta arroventata e agli imponenti spallacci grandi come scudi, le armi più terribili che avevano erano i loro stessi corpi immuni al dolore, con lame e punte retrattili nascoste tra tendini e muscoli. Ma gli ultimi sguardi della nipote verso quelle creature erano stati di curiosità, interesse, forse persino fascino.
Di nuovo attraversarono l’ingresso dov’erano collezionate le statue crisoelefantine di uomini e donne dei regni dell’alto corso del Nilo, dell’Etiopia e della Persia, affiancate dalle zanne d’elefanti che dovevano essere stati giganteschi, tra pelli di leoni e leopardi che coprivano i pavimenti di marmo rosato. Insieme zio e nipote avevano considerato tanto lusso eccessivo ed oltre il loro gusto, ma Geedi-Barre osservando Uba si chiese se lei non avesse cambiato idea.
Di nuovo erano saliti al piano superiore, dove su più file stavano ordinati armi e macchine da guerra d’ogni tipo, e le colonne e le pareti erano ornate da panoplie di guerrieri di popoli conosciuti e non. Geedi-Barre e Uba avevano guardato molti di quei macchinari chiedendosene la funzione e una volta capitala ne avevano considerato l’uso eccessivo e disonorevole. Ma di nuovo lo sguardo della futura Regina di Gheledi tradiva curiosità, interesse e un’indubbia attrazione.
Era già accaduto a sua sorella e Geedi-Barre sapeva che sarebbe potuto succedere a sua nipote: il fascino del potere e della guerra avevano fatto breccia nel cuore di Uba. Sarebbe riuscito a soffocare quelle fiamme? In poco tempo avrebbe saputo.
Salendo le scale che portavano alla grande terrazza coperta che era l’ultimo piano del palazzo, Uba passò di nuovo tra i due soldati meccanizzati che erano le ultime guardie prima del trono di Memnone. Quei guerrieri a metà tra uomini e automi, riconobbe, erano delle creazioni terribili e meravigliose.
Nonostante l’ombra, l’aria immota non poteva disperdere la calura che s’era creata sotto il tetto della terrazza. Memnone sedeva sul suo trono d’alabastro rosato e corniola, nella sua tunica dorata, sul cui tessuto, come mutevoli pezze colorate, scorrevano e si mescolavano visioni d’infiniti luoghi. Uba aveva l’impressione di riconoscerne alcuni, ma sapeva d’ingannarsi.
Dopo aver visto l’aspetto umano dello Spirito scolpito in armatura e con le armi in pugno, nonostante la tunica Uba lo guardò in quel momento come un combattente. Questo, unito al suo incarnato più scuro di quello dei greci, le diede l’impressione di riconoscere in Memnone una qualche vicinanza o somiglianza a se stessa.
Solo gli occhi dello Spirito restavano per lei totalmente alieni, colorati di verde venato di viola, e che brillavano come se l’illuminasse la vera natura che con quell’aspetto cercava di celare: erano porte su una realtà diversa, negata a qualsiasi mortale, e non era possibile sostenerne a lungo lo sguardo.
Memnone sorrideva. Con la sua voce profonda, li accolse dicendo:
«Bentornati, amici di Punt. Vedo che il cammino sino alla vetta dell’Atàviro ed al mio antico tempio non vi ha realmente provato, e non pensavo sarebbe andata diversamente. Ciononostante quel viaggio era necessario, come la mia richiesta di darmene dimostrazione, cosa che tu, Fiore tra i Regni di Punt, sei ben pronta a fare».
Uba si staccò dalle spalle il pesante fardello che s’era portata appresso dalle rovine del tempio di Memnone; la testa della statua rotolò a terra sino ai piedi del trono. Uba sapeva che era quello il momento della verità, così le dicevano intuito ed istinto:
«Ecco a te la prova Memnone: abbiamo visitato un tempio abbandonato e in rovina».
Memnone osservò la testa del suo simulacro rotolare senza perdere il sorriso, annuendo anzi con un’espressione soddisfatta.
Geedi-Barre aveva assistito a quella scena con tensione temendo la reazione di Memnone, che pensava sarebbe potuta essere, nel migliore dei casi, di divertita indifferenza, invece nell’espressione e negli occhi dello Spirito, lampeggianti di viola, aveva letto un’approvazione quasi paterna. Quella vista lo aveva stupito ed ancor più infastidito, tanto che non riuscì a trattenere una smorfia. Non è certo possibile per gli uomini comprendere gli Spiriti, Geedi-Barre lo sapeva bene, ma che Memnone sembrasse addirittura appagato dalla dissacrazione di Uba era per lui fonte di grave turbamento: preludeva ad uno sviluppo che non riusciva ad immaginare. Si chiese quali sarebbero state le conseguenze per sua nipote.
Memnone, si ritrovò a pensare il vecchio, era molto differente dai già misteriosi Spiriti della Terra di Punt, che non avevano bisogno d’una maschera umana per sostenere la produttività dei campi e salvaguardare la fecondità delle donne, aiutare gli artigiani o assicurare una buona caccia: quella maschera umana, realizzò, era un pericoloso inganno.
«Il fuoco della tua giovinezza brucia in una continua ricerca di sfida», disse lo Spirito ad Uba, annuendo dal suo trono. «Il Fiore tra i Regni di Punt ha la ferma volontà di dimostrare il suo valore.»
«E tu non la biasimi per questo…» rispose lei.
«Al contrario: io le dono le sfide che desidera.»
Ad un quasi impercettibile segno del bel capo di Memnone, l’istinto di Geedi-Barre e di sua nipote risposero con il giusto allarme. Uba scartò di lato con incredibile agilità, evitando così l’affondo della lancia dalla punta incandescente del soldato meccanizzato che l’attacco alle spalle.
Così, senza annunci, sul pavimento di marmo della terrazza coperta ebbe inizio un duello tra la sottile ed aggraziata guerriera nera e il grosso e nerboruto abominio creato dalla scienza e dalla magia dei rodioti. Memnone e Geedi-Barre erano gli unici spettatori e guardavano ai duellanti nel più completo silenzio, rotto solo dal respiro di Uba. L’elmo nascondeva il volto dell’abominio ma non i suoi occhi artificiali, che parevano fredde sfere d’agata verde, prive di luce e d’anima.
I movimenti del soldato meccanizzato erano scatti decisi, affondi fulminei, ed Uba fu subito costretta alla difesa, con salti e piroette, facendo perno sul suo bastone.
Geedi-Barre vide la nipote messa in difficoltà dalla lancia del suo avversario e, partecipe nello scontro quasi quanto lei, ne intuì le mosse. Facendo ancora affidamento sull’agilità, evitando nuovi affondi dell’abominio, dopo un salto di lato Uba riuscì infine ad assestare un pesante colpo di bastone all’asta della lancia, spezzandola in un tripudio di scintille.
Ma l’abominio, come Geedi-Barre ben sapeva ed anche Uba, aveva ben altre armi e le rivelò subito: da ogni avambraccio, prima nascosta tra il radio e l’ulna, emerse all’altezza dei polsi una lama metallica lunga quasi un cubito. Erano lame di ferro meteorico, affilate e lucenti, che nulla avevano da invidiare a quelle delle spade di generali, eroi e sovrani.
Geedi-Barre era teso come mai ricordava di essere stato. Fortunatamente gli attacchi del soldato, nonostante le sue lunghe braccia, avevano comunque una portata inferiore a quella della sua lancia andata distrutta e del bastone con cui Uba cercava di tenerlo a bada.
Forse l’abominio respirava, Geedi-Barre non poteva dire con certezza neanche questo, in ogni caso non dava segno di stanchezza ed affanno. Oligofrenico e stolido eppure letale, fendeva l’aria con continue e sgraziate spazzate, quasi fosse un automa progettato per la mietitura delle granaglie, attendendo il primo errore della guerriera, che proseguiva con le sue acrobazie. Uba riusciva di quando in quando ad assestargli una randellata, ma erano quasi tutte deviate dai grandi spallacci dell’armatura iridescente, o rimbalzavano sul pettorale senza alcun esito.
Zio e nipote sapevano entrambi che se lo scontro fosse andato troppo avanti il vincitore sarebbe potuto essere uno solo. Già non si contavano più giravolte, parate, fendenti ed affondi, e il respiro di Uba s’era fatto pesante.
Geedi-Barre comprese subito quando Uba prese la decisione di rischiare, non avendo in realtà più alternativa. Vide sua nipote trattenersi davanti all’instancabile avversario un istante in più, attendendo la spazzata delle sue lame che non la raggiunsero forse per un capello, e quindi spingere il suo bastone in un affondo preciso. L’estremità piatta dell’arma impattò contro l’elmo del mostro proprio in mezzo agli occhi con la violenza d’un maglio, tanto che fu spinto un passo indietro, sbilanciandosi. Rintontito, non parò il successivo colpo di Uba e lei colpì di nuovo, ancora e ancora, sempre più forte, e ogni volta risuonò il rumore del legno contro il metallo. Infine, quando parve sbilanciato e coi nervi almeno temporaneamente compromessi, Uba impugnò il bastone per un’estremità e portandoselo dietro la schiena preparò una devastante randellata. Il lungo bastone calò fendendo l’aria; si sentì il suono d’un marmitta di metallo percossa da una clava.
L’elmo, vistosamente ammaccato, e la testa che conteneva s’erano abbassati sul collo rotto, incassandosi orribilmente tra le spalle, e l’abominio cadde in ginocchio immobile. Sembrò che fosse finita, ma il mostro dimostrò la sua incredibile resistenza risollevandosi di scatto in una carica; Uba si scostò di lato con studiata lentezza, per poi colpire alle spalle, spingendo. Il soldato meccanizzato volò oltre la balaustrata e cadde nel vuoto, senza emettere un suono.
Geedi-Barre corse a sporgersi per vederne la caduta, fino al rumoroso impatto contro uno dei fontanili di marmo dei giardini del palazzo. Il vecchio fissava la creatura, che ancora muoveva gli arti scomposti cercando inutilmente di risollevarsi come un insetto morente, quando sentì la voce di Memnone:
«Bene, Fiore tra i Regni di Punt: hai di nuovo dimostrato il tuo valore».
«E sono pronta a farlo di nuovo», disse lei con affanno.
Memnone annuiva:
«La tua giovane età ti ha aiutato a comprendere quello che chi si ritiene più saggio dimentica o, peggio, nasconde o condanna per paura: l’ambizione brucia e non si accontenta dell’ultimo traguardo raggiunto».
«Tu non ti curi del passato e guardi solo avanti, questo mi vuoi insegnare.»
«Il passato è solo il terreno che rende forti e nutre le radici del presente, su cui sorge l’albero del futuro: un terreno fertile nasconde decomposizione e cadaveri.»
Geedi-Barre assisteva a quel dialogo riconoscendovi le sue stesse parole ma senza capirne lo scopo, con la mano sul petto a calmare il cuore che ancora batteva forte per il pericolo corso da sua nipote.
«Le tradizioni non porranno freno alla mia ascesa: riunirò i Regni di Punt sotto la mia corona.»
Geedi-Barre mostrò tutta la sua disapprovazione sul vecchio volto, ma Memnone continuò:
«Uba-Caaisho, il cambiamento non è un’intenzione che possa essere inquinata da voci che cercano vita in un presente che non gli appartiene, qualunque sia la fonte di quelle voci: la gloria ed il potere richiedono forza, decisione e sacrifici. La ponderazione, per i grandi, è solo esitazione.»
Geedi-Barre scuoteva il capo, poi vide Uba che si voltava a guardarlo con occhi strani, che lui non le aveva mai visto e che non parevano i suoi, quasi che uno Spirito si fosse impossessato di lei. La voce di Memnone risuonò ancora, più forte e profonda:
«Più grande il sacrificio, più grande la gloria».
Dopo quella incompresa sentenza, Geedi-Barre si stupì vedendo sua nipote iniziare a ruotare il corpo. Fu l’ultima cosa che vide prima del suono secco del suo cranio che si spaccava e del buio.
Breve nota dell’autore:
In questo racconto, nato come sentito tributo a Grace Jones al personaggio di Zula, da lei interpretato nel film “Conan il Distruttore”, ho voluto immaginare l’incontro d’una cultura diversa, più genuina, con quella che nella finzione ho attribuito a Rodi, di cui Memnone è la personificazione. Mentre nel film non si sa quale evoluzione attende Zula a Shadizar, nel mio racconto Uba a Rodi soccombe.
Una riflessione sul credo dei protagonisti: pur trovando molte similitudini tra l’idea generica e semplificata di spiritismo africano e la religione greca classica, ritengo che la personificazione di driadi, ninfe e folletti evidenzi nell’antica Grecia un’evoluzione che la visione animista africana non ha, perché rimasta più fedele alla natura incombente che circonda le sue comunità e alle energie inumane ed imprevedibili cui queste soggiacciono. Ad ogni modo, per dare una connotazione, o meglio una “colorazione”, diversa, nel racconto ho usato solamente il termine “Spirito”, messo in bocca e in testa ai due protagonisti per descrivere tutte le entità soprannaturali, che i greci avrebbero chiamato Dèi o “demoni”.
Ultima nota sui nomi dei protagonisti: a differenza di quanto sono riuscito a fare per i personaggi greci, egizi o cartaginesi, non ho trovato nomi per possibili antichi abitanti dei regni mitici del Corno d’Africa, mi sono dunque limitato a utilizzare nomi propri somali diffusi attualmente e combinarli: da qui Uba-Caaisho, che vuol dire “fiore”-“dalla lunga vita”, e Geedi-Barre, che vuol dire “viaggiatore”-“maestro”.
Ottimo racconto! Mi è molto piaciuto l’accostare la cultura animista africana con quella greca classica, e l’originalità delle ambientazioni, il fantasy che si estende e “passa” dal un po’ abusato substrato norreno / nordico a una cornice mediterranea, un po’ d’aria fresca insomma, mantenendo comunque lo stile narrativo elegante, ma senza appesantire.