Tra un cielo azzurro limpido, e una nebbiolina sottile, le figure del tempio si palesavano agli occhi del viandante ignaro che, non conoscendo quelle terre, si sarebbe abbattuto in un luogo dalle difficili connotazioni, dalla collocazione complessa e dalle forme estranianti, quasi come un sogno che è difficile ricordare, ma che ti viene raccontato, nei suoi particolari più fondamentali.
Le guglie a spirale del tempio toccavano appena appena una sottile coltre di nebbia, mentre, dietro al monte immerso tra le nubi, una luce violacea mista al rosa e al carminio si mescolava con il blu della notte nell’istante in cui quest’ultima iniziava a finire, lasciando il posto al giorno.
Il monaco, Takeyuma-sama, a cui tutti si rivolgevano con tono rispettoso e profondamente reverenziale, apponendo il suffisso “-sama”, che sta a indicare “il sommo”, “il più saggio tra i saggi”, guardava con un’espressione enigmatica proprio quelle forme sinuose e fluttuanti nella nebbiolina del momento che precede l’Alba, che si scorgevano aguzzando la vista, ma anche tutti gli altri sensi, assaporando l’aria, sentendo i primi raggi del Sole della giornata, caldi, sulla pelle ancora intorpidita dal fresco notturno, annusando l’odore dell’erba con sopra un sottile strato di rugiada, e il profumo degli alberi, ciliegi, alberi di pesche e prugne. Da qualche parte, in qualche modo, si sentiva anche il profumo della neve e dei ghiacciai eterni delle Montagne Grigie, che si stagliavano, immense, da est fino a sud, e verso occidente, vallate sterminate.
Poco sopra sorgeva il Sole, e illuminava la fonte del Chishin, il fiume che attraversava le terre fino allo sbocco con l’oceano. Zampillava al di fuori della roccia, con un vago colore dorato, tra le nevi e il ghiaccio, e il Sole si rifletteva sulla sua superficie, diventando mutevole, come una fiammella rossiccia e purpurea mista a tonalità d’oro che si muove vitale e sempiterna, antica, tra i colori e gli odori dell’aria che precede l’Alba.
Il Sole spuntò al di sopra del monte Ishigaku, appena alle spalle del tempio.
Takeyuma-sama si guardò intorno respirando profondamente il vento fresco che si era appena levato.
Dalle nevi congelate in eterno delle Montagne Grigie, una memoria, come un ricordo lontano, il vento un po’ più freddo rispetto alle solite temperature estive, soffiava, leggermente.
Takeyuma-sama ripensò ai ciliegi in fiore di una Primavera molto distante.
Quando l’inspiegabile e il divino gli si dispiegarono di fronte, come un fiume in piena. Come un incessante flusso che viene dalle profondità delle stelle più distanti, il ricordo riaffiorò lentamente.
Gli si presentarono come se fossero fantasmi sinuosi sul confine tra il Crepuscolo e la notte più fonda, figure in penombra, che si muovevano come leggere onde salate che danzano con l’inudibile melodia insita nel vento, tra le pieghe del suo mistero, gli yokai. Mezzi uomini e mezzi spettri, mezze divinità quasi mortali, a metà tra il nostro mondo e quello che gli sta dietro, sopra, intorno, e dentro, soprattutto dentro.
Non erano demoni, e nemmeno uomini. Guardiani di una soglia infrangibile, ci si può solo sbirciare dentro di scorcio, nascondendosi dall’oscurità accecante che al suo interno riposa sveglia.
Takeyuma-sama ricordò la sua wakizashi, sul fianco, e la sua katana, Tigre Cremisi, sulla cui lama a una certa ora del giorno, proprio come prima dell’Alba o appena dopo il Tramonto, potevi scorgere di sbieco i bagliori rossastri e violacei del cielo, mentre tutto muta e diviene inconsistente, evanescente, nemmeno il mondo sembra esistere, ma riecheggia tra gli spazi indeterminabili e infiniti del vuoto dell’universo.
Il monaco guardò i discepoli radunarsi e iniziare gli esercizi mattutini, fendevano l’aria con le mani e coi piedi, quasi danzando, riscaldandosi. Movimenti di combattimento, che si alternavano a figure circolari e regolari, armoniose, nel loro concludere l’istante con un gesto energico ben preciso e mirato, in cui tutta la tensione dei muscoli esplode in un attimo, tagliando l’aria.
Takeyuma-sama si schiarì la voce. I discepoli, che in silenzio già stavano svolgendo i loro compiti, si radunarono e si misero seduti sulle ginocchia, con i talloni rivolti all’insù, nella posizione di reverenza nei confronti del maestro dei loro maestri.
L’anziano monaco iniziò a parlare.
Molti anni prima, in un giorno di un mese che ormai apparteneva al tempo della memoria, un ronin decaduto, il cui nome non veniva più pronunciato in pubblico, raggiunse il villaggio che ora è conosciuto con il nome di Hatsusashima, incastonato nella più bella tra le valli benedette dalle acque del Chishin. Non era sua intenzione mostrarsi o incontrare sconosciuti, ma se i suoi passi l’avevano condotto lì doveva esserci un motivo. Ed ecco infatti profilarsi l’ombra di un pescatore intento a ricucire una rete seduto sulle rocce piatte e larghe della riva del fiume.
“Nobile samurai,” lo chiamò sollevando gli occhi da sotto il largo cappello intrecciato. “Cosa vi porta al nostro umile villaggio?”
Il ronin esitò. Possibile che non lo avesse riconosciuto? Che l’eco delle sue gesta non lo avesse preceduto fin lì?
“Sto facendo un lungo viaggio e i miei passi mi hanno condotto fin qui come guidati dal volere dei kami,” fu la risposta del ronin. “Forse perché questo luogo è pieno di pace e serenità.”
L’acqua che scorreva gentile tra i canneti di bambù, il canto degli uccelli appena prima dell’Alba, il silenzio saggio dei monti che attorniavano la valle, decorandola, ricamandola, tra i raggi del Sole del mattino. Un profondo respiro, e la sensazione di aver vissuto migliaia e migliaia di esistenze solitarie, tra mondi indefiniti, nel leggero volteggiare degli astri notturni, e nella consistenza labile delle nuvole, che sospinte dal vento, imitavano il muoversi dei pensieri del ronin, quiete, profonda, semplice, quiete.
Il pescatore scosse il capo.
“Forse un tempo.”
“Cosa intendete dire?”
“Da alcuni anni malvagi kappa infestano le acque della valle. Hanno rapito i nostri figli, terrorizzato le nostre donne, ferito i nostri samurai. Abbiamo chiesto aiuto al daimyo, ma siamo stati trattati come degli sciocchi superstiziosi. Così ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo affrontato i kappa armati di reti e katana.”
“Oh. E siete riusciti a sconfiggerli?” domandò il ronin.
“In parte. Ora quei mostri non si azzardano più a spuntare fuori di giorno, ma solo sul far della sera. Ma nessuno ci restituirà i nostri figli.” Il pescatore guardò il ronin dritto negli occhi. “Ma forse voi potete aiutarci. Se i kami vi hanno condotto fin qui dev’esserci un motivo. Forse nel vostro peregrinare avrete già affrontato creature simili.”
Il ronin non rispose. Anche creature fluviali e naturali, legate in modo stretto alla terra, sono soggette ai cambiamenti dei kami, non come un cieco volere, ma come un leggero soffio di brezza sul far della sera, che sospinge, lentamente, il petalo che cade sull’erba soffice, o la foglia in Autunno, su una coltre di terra ghiacciata, o sulla neve, più a nord rispetto alla valle dove il ronin si era recato. Come i kami avevano sospinto lui in quella ricerca, desiderosa, smaniosa, di non si sa bene cosa, forse cercava il riflesso del suo volto tra le acque del fiume, così allo stesso modo gli esseri sovrannaturali, spettri, spiriti, mezzi yokai e anche kappa, seppur all’apparenza immersi nel loro mondo di profondità abissali, erano influenzati dai cambiamenti dell’universo, dalla spinta, dal soffio, grande e immenso soffio, forse della vita stessa, la brezza dell’esistenza.
“In verità questa è la prima volta che mi imbatto in dei kappa, ma avete ragione: sono avvezzo a trattare con creature che appartengono al mondo del soprannaturale. Vi aiuterò, nei limiti delle mie capacità.”
Il pescatore si inchinò.
“Grazie, nobile samurai,” disse. “Io sono Toru. Il vostro nome…?”
Il ronin scosse la testa. Il pescatore non aveva ancora capito che lui non era un samurai, una volta, molto, moltissimo tempo fa, ma non ora.
“Non ha importanza.”
“Capisco.”
Il pescatore gli lanciò un’altra, penetrante occhiata da sotto il cappello, poi tese un braccio, indicando un punto impreciso oltre il folto degli alberi.
“Il villaggio si trova da quella parte. Venite con me.”
Il ronin seguì il pescatore oltre il bosco che sfiorava le rive del Chishin e avvistò le prime case non appena lo ebbe attraversato e gli alberi si furono diradati un poco. Il Sole aveva già iniziato la sua lenta discesa verso la linea dell’orizzonte e le prime tinte rossastre iniziavano ad allungarsi sui tetti del villaggio. La gente, stanca per i lavori della giornata estiva, si ritirava presso i propri focolari. Si raccontavano storie, alcuni avevano vissuto, da lontano, una battaglia famosa, tra le staffette che portavano il cibo ai guerrieri veri, ma si atteggiavano come se anche loro avessero preso parte a una storia più grande di loro. Il senso dell’esistenza per chi vive in un villaggio piccolo, sulle sponde di un fiume grandissimo, ma alla sua fonte, in una vallata, isolati dal mondo esterno e dall’andirivieni della vita dei commerci su grande scala, e dalle serate dove partecipavano ricchi e lo sfarzo e il lusso degradavano quasi in una grottesca miseria, era semplicemente e unicamente far parte di una storia più grande di loro. Per questo i miti, per questo le credenze, per questo il senso di connessione profonda con la terra, con la natura, con i cicli delle stagioni e con il cielo. Sia col cielo sia con la terra, quella gente viveva in un modo invidiabile, pensava il ronin. Far parte di una grande storia, ma solo con piccoli gesti. L’essenza della filosofia che il ronin seguiva un tempo era proprio questa, ma era un tempo, moltissimo tempo fa. Ora guardava il cielo notturno, pensando unicamente a ciò che c’era oltre, sempre oltre. Le prime stelle spuntarono in cielo, e il ronin sorrise.
“Potete riposare e rifocillarvi e più tardi vi accompagnerò di nuovo al fiume, magari insieme a qualcuno dei nostri samurai…”
Il ronin aprì la bocca per ribattere, ma due flebili voci lo interruppero.
“Ah,” fu l’aspro commento del pescatore. “Sashiko. Wakashimaru.”
Due vecchietti, un uomo e una donna, curvi e dalla faccia grinzosa come la corteccia di un albero, erano appena comparsi dinanzi a loro.
“Saremmo onorati di prenderci cura del nostro ospite,” si inchinò la donna.
Il pescatore lasciò andare uno sbuffo.
“Come avete fatto a sapere di lui? Siamo appena arrivati.”
“Vi abbiamo visto uscire dal bosco e abbiamo immaginato aveste incontrato un pellegrino al fiume,” rispose Wakashimaru.
“E avete visto bene di venire a curiosare, impiccioni che non siete altro.” Il pescatore sventolò una mano. “Sta bene. Se il nostro ospite senza nome è d’accordo, potrà alloggiare a casa vostra.”
Il ronin annuì senza esitare. Non era il caso di creare ulteriori tensioni.
“Verrò a prendervi tra qualche ora,” continuò il pescatore. “Nel frattempo farò rapporto a Itsuseshi Taketsuma.”
Il ronin si voltò verso la coppia di anziani, che gli fecero un sorriso sdentato e, tra inchini e cenni del capo, lo condussero tre le vie polverose del villaggio fino alla propria casa. Modesta, eppure con un giardino ben curato, il ronin percepì immediatamente un senso di pace provenire da quel luogo. Sashiko e Wakashimaru, entrambi con una veste l’una grigio neve, e l’altro rosso e dorata, gli prepararono un bagno e cibo caldo e gli promisero un cambio d’abiti non appena avesse fatto ritorno dal fiume.
“Grazie,” disse il ronin seduto alla loro tavola.
Cominciarono a mangiare, per il ronin fu il cibo più delizioso che avesse mai assaggiato.
“Cosa vi porta nel nostro sfortunato villaggio, nobile samurai?” gli chiese Sashiko, la voce sottile come quella delle foglie che cadono sotto il vento d’Autunno.
Il ronin scrollò le spalle.
“I kami, suppongo. Il mio Destino, forse.”
I due vecchietti lo scrutarono in silenzio per un lungo momento. Il ronin si sentì come messo a nudo dai loro sguardi scuri e pungenti, come se fossero in grado di vedere oltre le sue spoglie mortali, nei meandri più oscuri del suo animo.
“Sto percorrendo un lungo viaggio,” continuò il ronin, spezzando il silenzio attorno al tavolo. “Vengo dalle lontane regioni delle montagne Shirowashima.”
“È un posto davvero lontano,” convenne Wakashimaru.
“Lo è,” annuì il ronin. “Ma ho una missione da portare a termine, un debito d’onore di cui ho deciso di farmi carico per conto di mio padre. Ho compiuto azioni riprovevoli e assai discutibili pur di continuare lungo la Via della mia missione, ma non mi pento di nulla. La mia vita e la mia spada sono votate ad essa, costi quel che costi.”
“E come mai avete deciso di aiutarci, se avete la vostra missione da portare a termine? La tappa al nostro villaggio non rallenterà il vostro cammino?” gli chiese Sashiko, gli occhi infossati sotto il mare di rughe.
Il ronin scosse ancora la testa.
“Se sono qui deve esserci un motivo, a me sconosciuto, ma non agli occhi dei kami.”
“Forse avete ragione, nobile samurai,” mormorò Wakashimaru. “Ituseshi Taketsuma, il capo samurai del villaggio, è disposto a cedere il tesoro del villaggio a chiunque sia così valoroso da liberarci dalla minaccia dei kappa del fiume Chishin. Un antico frammento di pergamena dai poteri inimmaginabili.”
Il ronin trattenne un sussulto.
“Una pergamena, dite?” chiese, cercando di tenere a bada il cuore impazzito.
“Esatto. Ma solo al più valoroso. Voi lo siete? Sapete come si affronta un kappa?”
“Di certo non con reti e katana.”
“Esatto. I kappa sono creature legate a precisi rituali. Inchinatevi e loro saranno costretti a ricambiare l’inchino, facendo così cadere l’acqua raccolta nella conca sulla loro testa. Siate rapido, riempite nuovamente la conca e i kappa saranno in vostro potere. Scacciateli e la pergamena sarà vostra. È tutto chiaro?”
Il ronin fissò il vecchio con sguardo interrogativo.
“È tornato,” disse Sashiko. “Toru. È venuto a prendervi.”
Il ronin si alzò e andò alla porta. Il pescatore e una manciata di samurai lo attendevano fuori, le lanterne che tremolavano dalle loro mani.
“Preferirei andare solo,” annunciò il ronin.
Un mormorio costernato serpeggiò tra la piccola folla.
“Volete scherzare?” lo apostrofò il pescatore.
“Io…” Il ronin esitò. “Credo che la presenza di troppe persone potrebbe pregiudicare in maniera negativa il confronto con i kappa. Preferirei andare da solo.”
“Il confronto?” sbottò uno dei samurai, dalle spalle larghe e dal collo taurino. “Dobbiamo sterminarli, non trattare con loro!”
Gli altri iniziarono a strepitare, ma il ronin sollevò le palme, chiedendo silenzio.
“Non riuscirete a prenderli tutti. Se mi lasciate andare da solo, potrei convincerli ad andarsene per sempre dalla valle e la vostra gente sarebbe al sicuro.”
Il silenzio sospettoso che seguì il suo discorso fu più eloquente di tante altre parole. Gli occhi degli uomini del villaggio erano socchiusi, i loro sguardi taglienti.
“Avete chiesto il mio aiuto e io ho intenzione di mantenere fede alla parola data. Ma alle mie condizioni,” insistette il ronin.
“Sta bene,” rispose il capo dei samurai del villaggio, Ituseshi Taketsuma. “Ci fidiamo di voi. Andate al fiume e fate ciò che dovete. Saremo qui ad attendervi al vostro ritorno. Speriamo con buone notizie.”
Il ronin lanciò un’occhiata rassicurante a Sashiko e Wakashimaru, eterei, alle sue spalle, illuminati dalla fioca luce delle candele e delle lampade a olio, i loro volti sembravano mutare tra i riflessi e i giochi delle ombre e delle fiamme che proiettavano nel rado bosco dietro di loro figure che svanivano in un istante. Lo scrutavano ansiosi, e lui, con sguardo fiero e distaccato, sfilò tra i guerrieri del villaggio, percependo tutta la loro avversione nei suoi confronti, alzando leggermente il lato destro del labbro superiore, incurvando una sorta di sorriso, quasi con sarcasmo.
La notte era silenziosa e i grilli cantavano nell’erba umida della notte. Il gracidio delle rane avvisò il ronin che il fiume era vicino. Percorse ancora pochi passi e lo sciabordio gentile della corrente cullò le sue orecchie e il suo spirito. Si acquattò tra i rami dei cespugli più bassi e rimase in attesa, i sensi all’erta. Ben presto, come si aspettava, alcune rocce si staccarono dalla riva e cominciarono a scivolare lungo il fiume. Il ronin si alzò, mano alla spada.
“A voi!”
Le rocce si fermarono. Fremettero e si rivelarono per quello che erano: gusci. Da sotto l’acqua comparvero alcune teste verdognole. Becchi simili a quelli delle tartarughe presero a scattare al suo indirizzo, facendo tremolare l’acqua raccolta nella piccola conca che segnava le loro teste irsute. Uno di loro uscì dall’acqua, muovendosi sulle zampe, e si avvicinò al ronin. Lo scrutò da sotto i peli neri che gli scendevano sulla fronte e si preparò ad attaccare, ma l’uomo fu più rapido e si profuse in un profondo inchino all’indirizzo della creatura. Il kappa rimase immobile, a occhi sgranati. Il ronin lo vide lottare per trattenersi, ma alla fine il piccolo essere acquatico cedette e si inchinò, rovesciando l’acqua contenuta sulla conca della sua testa. Mentre si accasciava sulle ginocchia, spinto in avanti dal peso del guscio, il ronin immerse le mani nell’acqua e riempì nuovamente la piccola conca.
“Mi senti?”
Il kappa si rialzò lentamente.
“Sì,” rispose. “Mio signore.”
Il ronin si lasciò sfuggire un sorrisetto.
“Non ho intenzione di renderti mio schiavo, non temere. Ho solo bisogno di alcune risposte e di un favore.”
“Comandate, mio signore,” rispose il kappa profondendosi in un inchino.
“Perché siete venuti in questa zona del fiume Chishin?”
“Qualcosa ci ha condotto qui, mio signore. Un richiamo silenzioso ha guidato il nostro cammino, una promessa di pace e quiete.”
“Ed è vero che in seguito avete ucciso i figli del villaggio e minacciato la sua gente?”
A testa bassa, il kappa tremò.
“Noi non… Mio signore, è tutto così confuso… Non eravamo in noi. Stavamo così bene quando tutto è cambiato. Non sappiamo cosa sia successo, se non che gli uomini ci hanno attaccato.”
Il ronin esitò. Cosa poteva essere tanto potente da confondere entità come i kappa?
“Vi dichiarate innocenti, dunque?”
Il kappa era sull’orlo delle lacrime.
“Non lo so, mio signore!”
“Sta bene.” Il ronin sollevò le mani. “Io vi ordino di lasciare per sempre questa zona. Trasferitevi altrove, lontano, e non tornate più.”
“Sì, mio signore. Come desiderate.”
“Alzati, ora.”
Il ronin e il kappa si scambiarono un sorriso e una stretta di mano.
“Eccoli!”
“Laggiù! Il traditore!”
Un mare di torce si fece largo fino al fiume. Il pescatore e il gruppo di samurai avevano seguito il ronin a sua insaputa.
“Scappate,” mormorò il ronin ai kappa.
Le creature si rituffarono in acqua e scomparvero alla vista, proprio mentre Taketsuma si gettava in avanti, sguainando la katana.
“Traditore!” gridò di nuovo all’indirizzo del ronin. “Sei voluto venire qui da solo per stringere un patto con i mostri?”
Il ronin alzò le mani.
“Vi sbagliate! Quelle creature sono innocue, sono riuscito a convincerle a lasciare per sempre il vostro villaggio.”
“Menzogne!” L’urlo di Taketsuma fendette l’aria. “Dovevate sterminarli, non lasciarli andare!”
Il ronin colse il movimento repentino con la coda dell’occhio. Sguainò la propria spada un attimo prima che la katana di Taketsuma calasse sulla sua testa e respinse il colpo con un stridio. I due uomini, samurai e ronin, incrociarono le lame, muovendosi rapidi e senza esitazioni. Attorno a loro anche gli altri guerrieri si mossero e si prepararono a intervenire in aiuto del loro signore. Lo stavano accerchiando e si preparavano a colpire tutti insieme. Il ronin era spacciato. Taketsuma colse lo sguardo di disperazione negli occhi del ronin e un sorriso selvaggio gli deformò il volto largo e sudato.
“Morirai senza onore!”
Il ronin serrò la presa sulla katana, le mani rese viscide dal sudore, e si preparò a sferrare gli ultimi colpi. Avrebbe combattuto fino all’ultimo. Taketsuma sollevò le braccia e il ronin si mosse per anticipare il suo attacco. Una nebbia biancastra si materializzò allora alle spalle del samurai, che cambiò espressione e si afflosciò a terra, uno sguardo stupito negli occhi. La katana cadde a terra con un tonfo attutito a poca distanza.
“Per tutti i kami!”
“È morto! Taketsuma è morto! Il traditore l’ha ucciso!”
“È uno di loro, un mostro!”
Il ronin non riusciva a capacitarsi di cosa fosse accaduto. Si guardò le mani, la spada. Ma la lama era intonsa, lucida e scintillante.
Cosa era successo?
Il ronin non ebbe tempo di fermarsi a riflettere. Gli altri samurai erano già su di lui. Il ronin si acquattò di nuovo fra l’erba e si diede alla fuga, ma non appena ebbe messo un poco di distanza tra lui e i suoi assalitori una figura gli si parò davanti. Toru.
“Dunque sei uno di loro,” mormorò. “Ecco perché la sapevi tanto lunga su quei kappa…”
“Vi sbagliate,” replicò il ronin. “Sapevo solo che sono creature particolari, legate a precisi rituali di…”
“Di qua! Il traditore è qua!”
Le grida di Toru riecheggiarono per il bosco. Subito uno scalpiccio preannunciò l’arrivo dei samurai. Il ronin era spacciato. Tra le dita del pescatore era nel frattempo baluginata la lama di un lungo coltello. Senza pensare, il ronin saltò fuori dai cespugli e trasse la katana dal fodero e la puntò contro il pescatore. Ma l’istinto lo avvertì di un pericolo alle sue spalle. Il ronin si voltò e parò appena in tempo il colpo alle spalle che gli stava calando addosso a tradimento. Scartò di lato ma il suo avversario non gli diede tregua. Di nuovo, le lame di due katana avversarie si incrociarono in un clangore stridente che serpeggiò ovunque. Ma questa volta gli avversari erano più di uno e il ronin doveva tenere d’occhio ogni punto cieco. Toru gli si era avvicinato tra le ombre, pronto a colpire alla prima occasione buona. La situazione era critica: il ronin doveva andarsene da lì prima che anche gli altri abitanti del villaggio arrivassero a dare manforte. Approfittando della sua esitazione, il samurai dinanzi a lui caricò l’ennesimo, brutale colpo. Il ronin non si mosse, attese con i nervi a fior di pelle fino all’ultimo istante. Poi scartò di lato e colpì il samurai al collo con tutta la forza che aveva. Il colpo andò a segno, ma mentre il sangue zampillava dalla sua gola ferita, la sua katana era affondata nel corpo di Toru. Il pescatore sgranò gli occhi, il lungo coltello ancora stretto fra le dita. Si guardò intorno spaesato, senza capire cosa fosse successo, poi si afflosciò sul cadavere del samurai.
Erano morti.
Il ronin tirò un sospiro di sollievo, ma un grido tra gli alberi gli fece accapponare la pelle: un altro samurai aveva assistito alla scena e ora gridava qualcosa di incomprensibile ai compagni nell’oscurità. Era ora di tagliare la corda.
“Seguici…”
Il ronin si voltò e trattenne a stento un grido strozzato. Una testa di donna attaccata ad un collo così lungo che si perdeva nel folto degli alberi galleggiava accanto a una figura maschile macilenta e cinerea.
“Ma cosa…?”
“Non temere, siamo Sashiko e Wakashimaru,” rispose la testa attaccata al collo lunghissimo. “Al villaggio sta per esplodere il finimondo. Vieni con noi e avrai salva la vita.”
Liang – Tzu si guardò le mani. Gli elementi della terra e del vento danzavano tra il muoversi frenetico delle sue dita, il koto risuonava di note secche, decise, mentre Hijin, lo Spirito del Fuoco, con un urlo che proveniva dall’infinito mondo oltre a questo, al di là del visibile, si destava tramite le note dello strumento a corde.
Liang – Tzu guardò davanti a sé. Il sangue colava ancora fresco sull’altare del sacrificio, un masso di forma circolare nel fitto dell’oscurità del bosco, dove la donna giaceva con la gola recisa, gli ideogrammi imbevuti di porpora, luccicanti nella fioca luce della falce di Luna crescente. Hijin, dalle profondità dei cieli e delle nubi violacee e tempestose che si ammassavano lentamente sopra la testa dello stregone, si palesò, manifestandosi nel suo infinito potere.
Con un boato lo Spirito del Fuoco, immenso, gigantesco, con l’aspetto di un orco circondato da fiamme rossastre e blu, sovrastava la foresta, gli occhi e le zanne infuocate, e sputò fuoco, incendiando le nubi e diradandole. La notte ritornò limpida.
“Cos’è stato?”
Il ronin guardò il cielo.
I due yokai lo sollecitarono.
“Presto! Non c’è tempo! Se vuoi avere salva la vita seguici!”
Il ronin si fermò.
“No no aspettate! C’è qualcosa che mi state tenendo nascosto, tutti, nel villaggio, cosa sta succedendo?”
Sashiko sospirò.
“Hai mai sentito parlare dello stregone Liang – Tzu?”
Il ronin per un attimo ebbe un sussulto. Gli tornò alla mente suo padre, la pergamena, il dojo, sangue, lacrime, fiamme. Un volto sinistro e incipriato di bianco, che sovrastava i ricordi più brutti della sua infanzia, un volto da stregone di terre lontane e mistiche, un santo, per alcuni, un demone, per moltissimi altri. Liang – Tzu. Proveniva dal deserto di Shtule, un nomade che imparò le arti magiche, quel poco che gli bastava per sopravvivere in un mondo spesso a lui ostile.
Questo, un paio di millenni fa.
Poi Liang – Tzu conobbe la Via Buia. Divenne un evocatore.
Sashiko continuò a parlare.
“Temiamo che dietro ai kappa e ai loro comportamenti insoliti ci sia l’influenza dello stregone. Solo la sua presenza riesce a sconvolgere gli equilibri della natura e delle forze di questa vallata.”
Il ronin si diede dello stupido. Aveva pensato ai kami. Non aveva considerato l’influenza di qualcosa di peggiore, di negativo, di arcaico e arcano. Non aveva considerato la presenza di un uomo, che duemila anni fa decise di diventare un dio egli stesso, divenendo in realtà un demone.
“E quel boato?”
“Non ti spaventare, Watanabe”
“Come sai il mio nome?”
“Siamo yokai, vediamo oltre i volti delle persone, per noi il tempo è qualcosa di fermo, ci muoviamo all’interno di esso come se nuotassimo in un lago limpido, e voi, umani, lo percepite come se fosse un fiume che scorre continuamente.”
“Watanabe Izuki”
Il ronin si guardò attorno, stranito. Vi erano troppe cose che erano al di là della portata della sua lama, e questo lo metteva a disagio.
“Liang – Tzu ha evocato Hijin, lo Spirito del Fuoco”
Watanabe guardò con aria interrogativa i due yokai.
“E come…?”
“Come si uccide?”
Gli yokai sorrisero.
“Non si uccide. E’ uno spirito che incarna un elemento, è il custode del fuoco”
“Penso che Liang – Tzu lo abbia evocato perché lo guidi dalla pergamena del bonzo mummificato, la stessa che stai cercando tu”
Watanabe pensò alla falsa promessa del capo dei samurai del villaggio. Un frammento della pergamena come pagamento per il lavoro portato a termine. E adesso, gli stavano dando la caccia.
O forse non era una promessa poi tanto falsa, se anche lo stregone era lì, e stava cercando la pergamena, allora il capo dei samurai doveva necessariamente sapere dove si trovasse, o per lo meno, Liang – Tzu ne percepiva la presenza in quella vallata, proprio come Watanabe stesso, i suoi passi erano stati guidati in quel villaggio di pescatori sul fiume Chishin, spinti dal potere e dall’attrazione della pergamena del bonzo mummificato.
Improvvisamente Watanabe comprese cos’era accaduto poco prima della sua fuga. Il corpo del suo avversario che si afflosciava davanti a lui, la nebbia che lo coglieva alle spalle e lo lasciava privo di vita, quella sensazione fredda e umida, a metà tra la paura e la sorpresa. Come la pioggia d’Autunno inoltrato, quando non ha consistenza, e sembra mescolarsi alla neve e al ghiaccio, e lascia sulla pelle una sensazione di freddo, che ti entra nelle ossa, nella carne, un freddo quasi dolce, che ti avvolge, e si mischia alla tua essenza più interiore, diventando un tutt’uno con lo sguardo e il sentire. Magia nera. Liang – Tzu l’aveva messo in trappola.
Soichiro Izuki, suo padre, combattè Liang – Tzu per una vita intera, i suoi incantamenti, i suoi demoni, la seconda moglie del samurai trovò la morte per mano dello stregone. Così tramandano gli anziani presso le montagne da cui Watanabe proveniva. Tuttavia, quest’ultimo, sapeva la verità e ricordava bene il sangue nero rossastro sul legno, che gocciolava, tra le assi, e sgorgava dal ventre reciso della donna, i capelli neri tirati all’indietro, lunghissimi, quasi scintillanti alla luce della Luna piena, e il volto sereno, quasi sorridente.
Lo stregone l’aveva fatta impazzire. Continue visioni di mondi terrificanti, eterni passaggi tra cupe vibrazioni, sensazioni di terrore e distorsioni di una realtà labile e mai del tutto limpida. Vedeva mostri e orrori che esistevano solo nella sua mente. Una notte si tolse la vita, nel modo che si addice alla moglie di un samurai, con onore. La follia le portò via tutto, ma non l’onore, quello mai. Soichiro si chiuse nel suo dolore. La madre di Watanabe morì di parto, e quella era la seconda moglie del samurai. La fatalità la si può anche sopportare, sentirsi responsabili della morte di qualcuno che ti è vicino, perchè non hai fatto nulla per impedirlo, forse, non del tutto. Era questo quello che pensava Watanabe. Era questa la spiegazione che si dava. Ma a quei tempi era ancora un vagabondo giovane e praticamente senza nome.
Hijin si muoveva lungo la vallata, gigantesco, incendiando al suo passaggio alberi e nidi di uccelli e ragni, le creature della foresta fuggivano a frotte, mentre lo stregone, levitando su di una piccole nube violacea, seguiva i movimenti dell’enorme Spirito del Fuoco, danzando etereo nell’aria fresca della notte.
Watanabe scorse Hijin una volta raggiunta un’altura, appena sopra una radura che dava verso est, gli alberi non erano più fitti e la vegetazione si faceva rasa e sparuta.
Mise istintivamente mano alla katana, trattenendo a stento la sorpresa e lo sgomento.
“Non avevi mai visto niente di simile, vero?”
“Ho avuto a che fare con demoni, ma… delle dimensioni di un uomo, non… supera gli alberi di almeno due volte la loro altezza…”
Wakashimaru estrasse la katana, che s’illuminò di una luce blu profonda, simile al colore della notte.
“Cercherò di distrarre Hijin”
Watanabe vide Liang – Tzu, distante, una figura nera e sinistra stagliata contro la falce di Luna crescente, estrasse Tigre Cremisi dal fodero.
Le nubi si addensavano sopra le montagne. Il Sole, quasi allo zenit, veniva oscurato da nuvole cariche di pioggia.
Mentre il monaco raccontava, la luce del Sole se ne andò per un istante, lasciando i pensieri dei discepoli sospesi, nella penombra, nel grigio, nella magnifica sensazione di un mondo che sta svanendo lentamente, per dischiuderne un altro.
Tigre Cremisi saettava nell’oscurità, mentre una fioca luce lunare biancastra mista alle ombre della notte disegnava i contorni delle due figure in combattimento.
Watanabe incalzava Liang – Tzu con fendenti sempre più rabbiosi e potenti, tentando un affondo talvolta.
Lo stregone si muoveva come etereo, evanescente, uno spettro tra il sottobosco e la punta degli alberi.
Con un balzo, volteggiò in aria, muovendo i suoi ventagli. L’aria divenne affilata come lame. Watanabe gemette di dolore all’ennesimo taglio sottile sul suo braccio destro, il braccio della spada.
Pensò che lo stregone stesse cercando di recidergli i tendini, o di procurargli una ferita abbastanza profonda da rendere inutilizzabile le sue abilità da spadaccino.
Liang – Tzu, a mezz’aria, continuava ad attaccarlo, sempre più strenuamente, e da angolazioni differenti.
Nella notte profonda la vista del ronin non era d’aiuto, neanche il suo senso dell’olfatto. Liang – Tzu sembrava non avere consistenza, pareva quasi non esistere nemmeno.
Appena si palesava, Watanabe provava a metterlo alle strette con movimenti veloci e precisi, cercando di colpire con un fendente secco e forte la giugulare dell’avversario, o se non riusciva a scorgerlo in tempo, provava a parare, ma con scarso successo.
Non era la velocità dello stregone il problema, era individuarlo in modo preciso, sentirlo, prevederlo, addirittura vederlo e basta a volte.
Le ferite sulle braccia di Watanabe si aprivano ormai anche senza i ventagli dello stregone.
“Che cosa mi stai facendo?”
Lo stregone rise forte.
“Quale sortilegio è questo? La mia carne si disfa…”
Le ferite si aprivano ora anche sul torso e sul collo del ronin, che ansimava, spaventato.
Aveva sentito parlare della magia nera, ma non immaginava a pieno il suo potere.
La potenza della paura e dell’inspiegabile.
Quell’avversario non rispondeva alle leggi dei mortali, balzava da un albero all’altro, da un ramo all’altro, come volando, come se fosse fatto della stessa aria che sibilando diventava tagliente come un rasoio e scarnificava con tagli sottili, ma ben incisi, la pelle e la carne e i muscoli delle braccia e del dorso di Watanabe.
Quella danza pareva durare da un’eternità intera.
Watanabe scagliava qualche fendente, lo stregone lo evitava, e di nuovo, da lontano, irraggiungibile, con i suoi ventagli piegando l’aria attorno a sé lo attaccava.
Watanabe capì che il vero potere del male è quello di paralizzarti dalla paura, spaventarti, renderti più oscuro e cupo delle tenebre stesse.
Eppure, le tenebre, possono essere alleate. Tutto è stato creato dall’immensità della notte.
Watanabe chiuse gli occhi e prese due ciuffi d’erba, li infilò nelle orecchie, tappandosele.
Ora lo scontro si svolgeva su un altro piano, sul piano delle sensazioni più pure e inconsce, istinto, e intuizione, nient’altro che questo.
Liang – Tzu si avvicinò, estrasse la sciabola ricurva dal fodero e la conficcò nella carne di Watanabe, che si mosse all’ultimo istante.
Non si mosse per evitare il fendente, ci andò incontro, la spada gli trapassò da parte a parte la gamba sinistra.
Afferrò lo stregone. Sorrise. Era in carne e ossa, dopo tutto.
Sempre con gli occhi chiusi e le orecchie tappate fece una giravolta a mezz’aria che lo riportò esattamente dietro alla schiena di Liang – Tzu.
Tigre Cremisi con un sibilo, dall’alto verso il basso, tagliò la schiena dello stregone. Una, due, tre volte.
Liang – Tzu si accasciò a terra, sputando sangue, la mano ancora salda sull’impugnatura della sciabola. La ritrasse verso di sé e tentò di menare un colpo alla gola di Watanabe che abbassò la testa, e la lama gli tagliò due capelli, finissimi, appena sopra la nuca.
Con un pugno teso della mano sinistra scagliò distante la sciabola ricurva, disarmando Liang – Tzu.
Grondando sangue, i due avversari si scrutavano.
Watanabe si rese conto di aver davanti nient’altro che un vecchio. Poi, il viso dello stregone sembrò in qualche modo mutare, i lineamenti cambiavano, ringiovanivano.
Watanabe si ritrovò a guardare se stesso steso a terra. Nella foresta si alzò una brezza leggera che scuoteva le fronde, musicalmente, melodiosamente.
Un lampo di luce blu e un braccio di Hijin si staccò, evaporando nella notte.
Dopo un fendente ben assestato, e un balzo che solo uno yokai avrebbe potuto fare così intensamente, Wakashimaru atterrò leggero come una piuma, volteggiando, sul suolo.
Sashiko, col suo collo lunghissimo, scrutava al di sopra delle fronde degli alberi.
“Rimandalo nel suo mondo, muoviti!”
Watanabe era nei guai. Sashiko vedeva da lontano l’inganno e il sortilegio a cui era stata sottoposta la sua mente. Stava esitando, e non dava il colpo di grazia, il fendente letale, allo stregone.
Wakashimaru inspirò, fece un altro balzo altissimo, e ritrasse la katana lampeggiante di blu dietro alle sue spalle, caricando con tutta la forza a lui rimasta un fendente che avrebbe troncato di netto la testa dello Spirito del Fuoco.
Se smembrato del tutto, lo Spirito si sarebbe ritirato, fuori dalla percezione del mondo comune.
Per quanto fosse una terra di assassini, e predoni, e maghi, e samurai, e guerrieri, e semplici contadini e vite infinite che si muovevano sotto le stelle fredde dell’Inverno profondo e alla luce del più vigoroso Sole estivo, quella terra non conosceva fino in fondo la potenza di uno Spirito del Fuoco. Fiamme che tutto divorano, tutto consumano, riportando l’esistenza all’essenza della terra.
Hijin col suo respiro di fuoco sbuffò verso Wakashimaru, che, a mezz’aria, si ritrovò costretto a sbilanciare il suo peso verso destra ad evitare la fiammata.
Faceva caldo, terribilmente caldo. Il respiro dello yokai si fece per un attimo affannoso.
“Devi sbrigarti!”
La voce di Sashiko rimbombava nelle orecchie dello yokai, che si ricompose, nella sua cristallina dignità eterea di creatura a metà tra il cielo e la terra.
Watanabe non capiva più chi era. Non sapeva se era colui che stava per scagliare il fendente decisivo, o quello che stava per riceverlo.
Si accasciò a terra, lacrime gli solcavano il volto. La sua spada, lontana da lui.
Wakashimaru scagliò un altro attacco. La katana bluastra lampeggiava vigorosamente e di una luce potente al suo fianco, a mezz’aria la estrasse, e fece per colpire Hijin, che, improvvisamente, si dissolse.
Come le braci che si spengono nell’aria appena sopra lo schioppettio di un falò di legna in mezzo al bosco. Un ricordo del fuoco.
Lo yokai si guardò attorno stupito per un istante, poi comprese. L’aveva lasciato andare.
Trovarono Watanabe disteso sull’erba soffice, che dormiva. Le prime luci dell’Alba tingevano il cielo, che diventava sempre più chiaro e più azzurro.
“Di chi ti ha fatto vedere il volto, lo stregone?” gli chiese qualche ora più tardi Wakashimaru.
“Il mio…il mio volto. Ero io, ho compreso, in un attimo, la vera natura di quel combattimento”
Sashiko e Wakashimaru, che non necessitavano di cibo, ma avevano recuperato riso in abbondanza per Watanabe, gli riempirono nuovamente la ciotola che aveva svuotato.
Il Sole del pomeriggio stava quasi per volgersi lentamente verso il tramontare.
“E quale sarebbe?”
“Quale sarebbe, Takeyuma-sama?”
La voce di uno dei discepoli più giovani riecheggiò.
Takeyuma-sama sorrise.
“Il nemico peggiore che possiate incontrare sono i rimorsi del passato, i demoni più potenti sono nell’esistenza terrena, e sono ricordi dolorosi. In quel volto vidi il mio stesso viso, guardandomi disteso per terra, pronto a trafiggere lo stregone, in qualche modo sapevo che si trattava di una magia, ma non ebbi il coraggio di uccidere me stesso, o meglio, quello che ero stato, su quel volto, vidi un antico marchio che sradicai dalla carne con la mia katana, il simbolo del mio clan. Quello disteso per terra, era sì Liang – Tzu, ma soprattutto, il me stesso di molti anni prima. Lo stregone capì il mio tormentarmi continuo per gli sbagli commessi nel passato e sfruttò a suo favore il simbolo del mio clan, e tutti i ricordi dolorosi ad esso intrecciati indissolubilmente. Non ebbi il coraggio di uccidere…colui che ero stato. Eppure il tempo era trascorso, all’epoca di questa storia, ma il tempo, senza la volontà di ucciderlo, non svanisce, anzi, pesa, ancora di più, su ferite non rimarginate. Uccidere il tempo stesso, uccidere le illusioni, questo è l’insegnamento che vi lascio, e che spero riecheggi nei vostri pensieri almeno per quest’oggi.”
Le nuvole cariche di pioggia iniziarono a riversare sul monastero acqua piovana in gran quantità, costringendo sia il sommo monaco, sia i discepoli, a chiudersi al coperto.
Il suono della pioggia cullava i pensieri del monaco, che ripensava a infinite storie, in terre lontane, come se fosse musica, melodiosa, stupenda, e i suoi stessi ricordi e le sue stesse storie si muovevano e danzavano seguendo quella musica che solo chi ha un orecchio abbastanza attento può ascoltare, nello scroscio della pioggia veemente sugli alberi, sui fiori, sulle tegole e sul selciato.
Il monaco sorrise, si ritirò nella sua stanza, da solo, ordinando ai servi di lasciarlo.
Srotolò un panno sul tavolino basso, dentro al quale vi era una katana, in condizioni ancora perfette nonostante il trascorrere degli anni.
Tigre Cremisi sembrava vibrare seguendo la musicalità della pioggia.
Il monaco la impugnò. Si mise in posizione. Sferrò un fendente nell’aria, e il tavolo davanti a sé crollò nella metà, perfettamente, senza alcuna sbavatura.
Rinfoderò la katana e congiunse le mani. Fece un inchino.
Si mise per terra nella posizione del loto, a meditare.
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