Paganesimo e cultura fantasy – “Dioniso, l’irrazionale e la creatività dell’immaginazione”

Ciò che sappiamo del dio Dioniso è che forse è il più antico tra gli dei.

Una figura mitica, che viaggiò fino agli estremi del mondo antico, fino in India, dove, col suo esercito di satiri, sileni e ninfe conquistò i territori esotici e lontani dalla civiltà greca che ereditò il culto del dio dai popoli orientali.

Anche Eracle, un semidio, viaggiò fino ai confini del mondo, per poi tornare indietro, e spesso le due figure nella mitologia greca antica si scambiano.

E’ doveroso considerare sempre il fatto che dell’antica mitologia, quella antecedente ai poemi omerici, ci sono arrivati stralci, frammenti, invocazioni e inni.

Dioniso è il dio della tragedia. Eppure, per i Romani, diviene il dio del vino.

Questo è significativo, perchè sta ad indicare un cambiamento che avvenne nella coscienza collettiva umana ad un certo punto della storia. Dall’immateriale si passò al materiale. I Romani, con la loro “forma mentis” pragmatica, tramutarono ciò che era l’irrazionale in senso lato, nel vino, come sostanza che ti porta a forza all’irrazionalità.

Tuttavia Dioniso, come sappiamo da diversi frammenti che ci sono pervenuti e dalla riscoperta della cultura greca antica avvenuta nell’Ottocento, non è solo dio banalmente del vino, e dell’ebbrezza. Vi erano culti dionisiaci che non erano molto popolari a Roma e nei dintorni, allora i detentori di quei culti, che poco avevano a che fare col vino stesso, ma più con l’estasi e col rapimento mistico della danza e della musica, aggiunsero il vino nelle loro celebrazioni, in gran quantità, a quel punto molti Romani decisero di accettare, per un po’, questo dio straniero ed esotico, enigmatico, sorridente, ma allo stesso tempo, terribile e orrorifico. Il dio dal folle sorriso.

Ma questo durò ben poco, furono infatti i culti bacchici banditi da Roma, a livello di culto di massa, e furono permessi soltanto quei culti che comprendevano fino a cinque persone. In parole povere, dal punto di vista “privato”, diciamo così, per usare un termine moderno, il culto del dio Dioniso era accettato, ma dal punto di vista “pubblico”, non lo era, anzi, era bandito.

Dioniso ha delle origini antichissime. Secondo il mito, Zeus si accoppiò con la madre del dio, che la incenerì con la sua essenza di dio dei fulmini.

Dalle ceneri lo stesso Zeus cucì il feto di Dioniso in una gamba. Sono famosissime le rappresentazioni di Dioniso, che nacque dalla gamba del padre di tutti gli dei.

Sono tutte rappresentazioni metaforiche, Atena, per esempio, nacque dalla testa di Zeus, per indicarne la natura di “numen” tutelare della ragione.

Dioniso per molto tempo, dalla romanità, alla cristianità, in poi, rappresentò il “numen” malvagio dell’irrazionalità e della violenza. Nelle “Baccanti”, tragedia di Euripide, il più recente tra i tragediografi greci, Dioniso con un inganno fa smembrare il re che non voleva il suo culto dalle sue serve e sacerdotesse, le Baccanti. E lo fa smembrare addirittura dalla sua stessa madre, resa cieca dalla “trance” dionisiaca, e poi, il dio, fa rinsavire la donna, che si rende conto di ciò che ha fatto con orrore.

Sappiamo però, che in moltissime tragedie, nonostante Dioniso appaia proprio come personaggio solo nelle “Baccanti” di Euripide, il dio era invocato nel momento di intensità scenica e tragica più alto della rappresentazione teatrale. Quando le emozioni e i sentimenti erano troppo forti per essere sopportati dal pubblico, e anche dagli attori stessi, s’invocava Dioniso, il suo aiuto, in quanto “numen” tutelare dell’irrazionale e di tutto ciò che esula dalla comprensione umana.

Quindi Dioniso rappresenta una forza antica, forse la più antica. Ecco perchè è il più antico tra gli dei, forse.

Gli uomini capirono nell’antichità che tutto è spiegabile e comprensibile, oggetto di sacralità e devozione, ma soprattutto, ciò che non è spiegabile, ciò che è pura istintività, pura vitalità.

Nonostante Dioniso nella tradizione cristiana e i suoi satiri vengano identificati come demoni nell’accezione malefica del termine, sappiamo infatti che presso i Greci il termine “demone” non aveva un particolare significato legato al bene o al male, erano semplicemente entità a metà tra questo mondo mortale e un altro, quello immortale, appartenente agli dei.

Dioniso in gioventù, secondo il mito, combattè contro i titani, e fu smembrato. Nella battaglia trasformò la sua forma in quella di ghepardo e di altri animali, diventando così anche il dio simbolo della magia, della metamorfosi, della stregoneria.

Dioniso, smembrato, ritorna in vita. Abbiamo già quindi nell’antichità l’idea di un dio morto e risorto. Per questo, nell’Ottocento, F. W. Nietzsche, rinnovando in un modo molto originale e ante litteram rispetto ai tempi in cui scriveva, disse alla fine di “Ecce Homo”, la sua autobiografia “Dioniso contro il Crocifisso”. Riassumendo così tutta la sua filosofia, il suo pensiero, o Dioniso, o il Crocifisso. Non vi sono vie di mezzo nell’interpretazione del pensiero niciano. Del resto Nietzsche è passato alla storia proprio perchè è il più “irrazionale” tra i filosofi, nel senso che è il meno diplomatico, il più perentorio, il più reale e coerente nelle sue idee. Sebbene, da alcune lettere di corrispondenze private, sappiamo che l’uomo Nietzsche era ben diverso dal filosofo Nietzsche e da quello che voleva far passare dai suoi scritti. Sappiamo che era una persona molto mite, e sembrava quasi la sua natura essere in contrasto con ciò che scriveva. Dipende dall’interpretazione che se ne da, e del resto, solo nell’antichità l’uomo e il filosofo erano due figure che combaciavano perfettamente. Nietzsche scrive in un mondo dove la figura del filosofo “puro”, non esiste quasi più, infatti era prima di tutto professore di filologia e si occupava, nei suoi corsi all’università, di studiare la tragedia greca.

Nietzsche sostiene che inizialmente, e le ricerche più recenti gli danno ragione a pieno titolo, confermando questa sua tesi, la tragedia fosse unicamente coro. Non vi era la distinzione tra protagonista e coro. Vi era soltanto il coro, che danzava e ballava a tempo di musica. Queste danze sfrenate erano in onore di Dioniso, infatti avvenivano durante le dionisiache, le feste in onore del dio. E così sarà per secoli e secoli. Aristotele, la grande voce autorevole che con la sua Poetica sulla tragedia venne preso come “ipse dixit”, come punto di riferimento, per le regole da seguire quando si vuole leggere, o mettere in scena, una rappresentazione teatrale di stampo greco antico, andava a vedere le tragedie durante le dionisiache. Ma Aristotele, intuisce Nietzsche, e qui sta la grande, grandissima intuizione del pensatore tedesco, non appartiene già più a quel mondo vivo e pulsante di gioiosa irrazionalità pastorale che sta addirittura ancora dietro alla grecità classica. Aristotele appartiene già all’erudizione, leggeva le tragedie ai suoi allievi.

La tragedia invece per Nietzsche è qualcosa di molto fisico, di molto vivo, di molto dinamico. E qui sta la grande intuizione.

Dietro alla razionalità greca, vi è un mondo ancora più antico, di cui c’è pervenuto pochissimo, popolato da fauni, satiri, ninfe e spiriti benevoli. Il volto del Dioniso terribile messo in scena da Euripide è già una travisazione dell’originaria natura del dio, “Le Baccanti”, sono la rappresentazione teatrale del rifiuto dell’allora modernità rispetto all’antichità barbara e pastorale di una Grecia che voleva chiudere i conti col suo passato, in favore della tecnica e del “logos”.

Tuttavia, il “logos” si esplica in diversi modi. Dioniso è semplicemente la parte più in ombra, le celebrazioni del dio avvenivano spesso di notte, infatti, ma non per questo si trattava, come si vociferava tra i Romani più moralisti e ignari dei concetti profondissimi della cultura greca, di culti in cui addirittura si verificavano degli omicidi, o stupri e varie nefandezze di diverso tipo.

Il “logos”, che tutto governa e di cui tutto fa parte e ne è parte, grande lascito dei presocratici, si manifesta anche tramite Dioniso. Nietzsche, alla forza di Dioniso, contrappone la calma di Apollo, che come un dualismo yin / yang, controbilancia l’indomabilità pastorale bacchica.

Allo stesso modo, ogni opera artistica degna di nota non può che non essere permeata anche da Dioniso, non può essere solo Apollo.

Solo razionalità e calcolo può toccare la mente e anche il cuore di un essere umano, ma non ne fa vibrare le carni. Dioniso è l’elemento che aggiunge quell’istinto primordiale del sacro, l’atavica invocazione alle forze della natura. Un atteggiamento che intimamente ogni essere umano possiede, una sorta di sensibilità. Più che della follia totale, Dioniso era il “numen” della sensibilità artistica, e soprattutto, della creatività, di quel senso primigenio di glorificazione delle forze naturali. Un ambito in cui Apollo, dio della proporzione e dell’equilibrio, non c’entra assolutamente nulla. E’ però indispensabile per la creazione di un’opera d’arte.

Ne “La Nascita della Tragedia” del 1872 Nietzsche contrappone questi due elementi, Apollo e Dioniso, come, appunto, in una sorta di dualismo taoista.

La differenza tra il pensiero di Nietzsche e il taoismo consiste chiaramente nel fatto che il filosofo tedesco non si spinge ad applicare a tutto il reale questa considerazione. Il taoismo invece quando parla di yin e yang, un concetto oscuro e arcano più “percepibile” che conoscibile razionalmente, lo fa estendendo la tesi non solo alla natura umana, ma alla natura del mondo tutto.

La tragedia greca inizialmente era solo coro. Poi venne introdotto un personaggio che etimologicamente significa “colui che risponde”, oppure “colui che sta più avanti”, proprio inteso sul palcoscenico, si trovava in una posizione avanzata rispetto al resto del coro. Nel corso della storia del teatro antico fu poi chiamato “protagonista”, al quale venne affiancato un altro personaggio, e così via.

Il coro svolgeva un’importanza fondamentale, non tanto per i fini della trama, spettatore passivo il più delle volte degli eventi, ma perchè era la coscienza del pubblico e della grecità tutta.

Il coro rappresentava la parte più umana ed esprimeva gli interrogativi e lo sgomento che erano tipici del pubblico presente nel teatro.

Chiunque avesse un minimo di sensibilità artistica, si sentiva per empatia accomunato più che ai personaggi, mitici, quindi, già di per sé imparagonabili e inarrivabili, al coro e ai dubbi e alle domande che il coro si poneva e poneva agli eroi mitologici rappresentati sul palcoscenico.

In Eschilo e in Sofocle il coro assume un’importanza fondamentale, in Euripide invece inizia a perdere d’importanza, per poi perdersi nel tempo. Arrivando, per esempio, alle tragedie shakespeariane, il ruolo che il coro aveva nell’antica Grecia, può essere svolto da un personaggio in particolare, o è una parte psicologica presente in tutti i personaggi, ma non esiste più come entità a sé stante.

Eppure il coro era quell’elemento che dava un aspetto tribale, genuino e pastorale alla tragedia, nata come celebrazione spontanea della vivacità delle forze della natura. Dioniso può essere terribile, così come la natura può esserlo, ma soprattutto, sorride, enigmaticamente, ma sorride. La vita per gli antichi era questo, un enigma terribile e spaventoso, che però gli sorrideva.

Poi vi era anche tutta la questione della dea della necessità, l’Ananke, e il Fato, la Tyke, a cui persino gli dei stessi dovevano chinare il capo e obbedire.

La visione del mondo per i Greci era qualcosa di duale, doppio, due forze che si controbilanciavano e si compensavano a vicenda, incastrandosi perfettamente, raggiungendo un equilibrio. Apollo e Dioniso. Razionalità e devozione mistica. Forse ancora noi contemporanei nel Ventunesimo Secolo siamo immersi in questo dilemma, in questa questione, più che mai. Tecnica o sentimento?

Per i Greci, a dirla tutta, non era un dilemma irrisolvibile, non era un enigma, era enigmatico il sorriso di Dioniso, ma proprio grazie alla profonda coscienza del dionisiaco e dell’irrazionale che avevano, e che esplicavano tramite l’arte tragica e l’arte teatrale in generale, nonché anche tramite l’architettura, la scultura e la poesia, lirica o epica che sia, o la commedia, insomma, proprio grazie all’arte sapevano controbilanciare lo scientismo e la tecnocrazia alla natura più emozionale dell’uomo. Perchè l’uomo è fatto di tante cose, ma riassumendo molto, è fatto sia di Apollo, sia di Dioniso.

La letteratura fantasy ci porta un esempio bellissimo di un eroe che Michael Moorcock delineò negli anni ’70 del secolo scorso.

Elric di Melnibonè. Colui che riporterà l’equilibrio tra la Legge e il Caos. La Legge, Apollo, il Caos, Dioniso.

Questa è una storia di emozioni mostruose e di ambizioni sfrenate. È una storia di sortilegi, di tradimenti e d’ideali onorevoli, di sofferenze e piaceri spaventosi, di amore amaro e di dolce odio. Questa è la storia di Elric di Melniboné.

I romanzi che ci narrano le gesta di Elric sono, nella saga originale degli anni ’70 : Elric of Melniboné, The Sailor on the Seas of Fate, The Weird of the White Wolf, The Sleeping Sorceress (“The Vanishing Tower” dal 1972 in poi) e Stormbringer.

Ha il colore di un teschio sbiancato, la sua pelle; e la lunga chioma che gli fluisce giù per le spalle è candida come il latte. Nel bel volto affusolato brillano due occhi obliqui, cremisi e cupi e dalle ampie maniche della veste gialla spuntano due mani sottili, anche queste del colore delle ossa, posate sui braccioli di un seggio che è stato ricavato e scolpito da un unico enorme rubino.

“Questa è la storia di Elric prima che venisse chiamato Uccisore di Donne, prima dello sfacelo finale di Melniboné. È la storia della sua rivalità con il cugino Yyrkoon e del suo amore per la cugina Cymoril, prima che rivalità e amore facessero sì che Imrryr, la Città Sognante, precipitasse tra le fiamme, profanata dai devastatori venuti dai Regni Giovani. Questa è la storia delle due Spade Nere, Tempestosa e Luttuosa, della loro scoperta e della parte che ebbero nel destino di Elric e di Melniboné: un destino foriero di una sorte più grande, quella del mondo stesso.

Elric riassume in sé le caratteristiche dell’eroe mitico dell’epica greca, ma del resto nell’epica greca sono già presenti “in potenza” tutti i generi letterari moderni e contemporanei. I Greci sono riusciti, dal punto di vista artistico, a creare una sorta di schema in mezzo al quale ancora noi contemporanei ci basiamo, più o meno inconsciamente, per scrivere e per creare opere artistiche.

Così avviene per tutti i popoli del mondo, l’epica e la tradizione mitologica antica è l’elemento fondante e fondamentale di ogni produzione artistica e di ogni “forma mentis” e stile di vita di ogni popolo. Nei miti di un popolo, vi è la sua coscienza, e l’espressione primigenia del suo inconscio collettivo.

Elric di Melnibonè riecheggia anche di sapori Romantici e Decadenti ottocenteschi. Egli è cupo, tormentato, sembra anche lui stesso, non solo il mondo intero, teso tra queste due forze irresistibili : la Legge e il Caos.

Elric stesso è talvolta legato alla Legge, ma allo stesso tempo anche al Caos, per via della sua spada, Tempestosa, che lo costringe ad uccidere per poter avere l’energia per sopravvivere. Albino, etereo, pallido, quasi uno spettro dai lunghi capelli argentei, Elric sa amare con una passione bruciante, e sa addolorarsi e soffrire per poi ritornare a rinnovata forza in continuazione durante la saga di cui è protagonista, un combattente fiero, perennemente tormentato dalla percezione della grandezza dell’esistenza, ma ricettivo, coraggioso e stoico e stolido nella sua ricettività e sensibilità. Elric sa di vivere in un mondo di “amore amaro e di dolce odio”, ma la cosa non lo annienta mai. Anzi, Elric di Melnibonè è proprio colui scelto dal fato per porre fine alla disputa tra Legge e Caos. Una disputa che può finire solo temporaneamente, per poi, ciclicamente, ritornare ancora, all’infinito.

E qui vediamo bene in Michael Moorcock e nelle storie riguardanti Elric la coscienza e la conoscenza dell’antichità e della visione del mondo del tragico greco, ovvero, la ciclicità del tempo, la necessità in quanto Ananke, tutto deve ritornare, concetto ripreso anche da Nietzsche nel suo eterno ritorno dell’uguale, non per niente Nietzsche era grande conoscitore del mondo greco antico, ma soprattutto, il contrapporsi del dualismo di due opposti ben precisi e distinti : la Legge e il Caos. Apollo e Dioniso.

La saga di Elric è pregna di dionisiaco, nel senso di creatività, quasi folle, nel suo essere vitale e gioiosa. É caratterizzata fortemente, e so che parlare di “gioiosità” nei confronti di un principe albino, tenebroso e decaduto sembra quasi un paradosso, dalla potenza e dalla forza vitale che è presente nel tenebroso e nell’elemento archetipico della notte e dell’oscurità. Era di notte che erano svolti i riti dionisiaci. Perchè la notte è quel momento in cui tutto si confonde, i confini e le divisioni tra le cose diventano più labili, la notte è la madre dell’irrazionale. Tutto fu creato da un’eterna notte.

La saga di Elric di Melnibonè è pregna e trasuda di quest’atmosfera stupenda, post Romantica, fantastica, la potenza dell’immaginazione e della creatività mai come in quest’opera assumono un senso filosofico che si rifà a concetti molto antichi.

Elric rappresenta l’essere umano in senso lato, nel senso di “anthropos” per i Greci, perennemente tra Legge e Caos.

 

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