I racconti di satrampa zeiros – “il dio degli incubi e dell’ombra” di samuele baricchi

Non dormivo da dieci anni.

Le cose sembravano assumere un senso labile e privo di significato.

Non riuscivo a toccarle.

Non riuscivo neanche vagamente a sentirle.

Andai da Hoshiyame, il sommo.

Egli mi guardò, nel profondo dei miei occhi. Scrutando. Pensando.

L’oscurità calava leggera tra le ombre del tempio. Il pomeriggio inoltrato stava per giungere al termine, e granelli di polvere volavano tra i fasci di luce che filtravano dalle finestre, illuminandoli, sembravano piccoli astri che vorticavano su loro stessi.

Hoshiyame non parlò.

L’incenso bruciava.

E si consumava. Lento, col fumo che si diffondeva nell’aria.

Una strana percezione di vaga immaterialità, mi sorprese vedendomi incosciente del ritornare eterno dei corvi, ali nere e piume di tenebra, sbranando e torcendo le viscere dell’insolito vagabondare immenso della mia mente che sempre tornava nell’identico luogo.

C’era un vento che soffiava fortissimo. E il cielo si fece cupo. Carico di pioggia.

Mentre una nebbia violastra riecheggiava dal sottobosco, diffondendosi serpeggiando tra i fumi degli incensi e le parole sommesse del sommo Hoshiyame.

Il vecchio mi guardò dritto negli occhi, non capivo le sue parole.

Tra il buio e la luce di Luna lattiginosa e biancastra, trovai tra il blu e il nero delle stelle più distanti e profonde tra le considerazioni distorte di mondi alla deriva, di universi inconsistenti, nell’abisso di profondi pensieri senza una replica. Nel girovagare dell’essenza del vento che scuote gli alberi senza un ritornare, un rimembrare, un rivedere gli occhi lontani di dei morti, la sostanza di fuoco e canneti di bambù, la percezione certa di vedere. Di sentire.

“Haak-me-kur”

La sua voce mi sorprese, destandomi dalla riconciliazione incorporea col sottile strato di nebbiolina verdastra.

Il mio vero nome. Erano moltissimi anni che nessuno lo pronunciava.

Senza pensare, estrassi la spada ricurva.

Mi avventai su di lui.

La voce distante di Hoshiyame proveniva da luoghi distanti, con un’eco sempiterna,

Udii soltanto un

“Destati”

Dal profondo dei cieli rimbombanti di fulmini, tempeste e grandine, la voce del monaco riecheggiò tra il buio della notte e i grilli che sommessamente intonavano un canto offrendo un tributo in musica alla notte stessa.

Con la sua coppa colma di vino, Hoshiyame guarda fisso oltre le nuvole grigie, oltre la pioggia che gli bagna il viso, oltre al dispiegarsi del vento, tra assunti di morte.

Danzano le nubi nere sopra la testa del monaco, restando immobile, pronuncia le parole del Codice, scegliendole con cura.

Haak-me-kur, il mio nome dimenticato. Il mio nome da assassino.

La lama vibrò nell’aria, squarciando l’abisso tremebondo di un ritorcersi di epoche dispiegate sul dispiegarsi dei disegni sulla pergamena.

Tagliai in due la pergamena.

Divenendo un’unica cosa con il buio stesso.

In questo reame di ombre

Nient’altro che distanti crepuscoli

E un pensare leggero

Al di là del tempo

La mia spada, il mio silenzio

Abbracciando la quiete del niente

Apparve un Fauno.

Mi disse di non fermare i miei piedi in quel luogo.

Camminai.

Apparve un Drago.

Mi disse di non gettare la mia spada e la mia esistenza nella paura di lui. Perchè lui voleva solo del cibo.

Custode di antichi segreti dimenticati.

Apparve una Tigre.

Mi disse di non fermare i miei piedi presso quel luogo oscuro.

Haak-me-kur.

Il mio nome risuonava tra le stanze e le altezze innevate.

“Il dio degli incubi”

Soltanto uno scatto, un irrilevante momento, un bagliore negli occhi e riconobbi il maestro Hadori.

Mi era stato fedele e mio amico fino all’arrivo delle truppe Kushin.

Poi lo persi, e il suo ultimo respiro ricadde sulle mie ginocchia, mentre gli tenevo tra le mani i capelli e la testa insanguinata.

“E’ l’altro mondo?”

“E’ l’Incubo”

Le truppe Kushin circondarono la piana su cui mi trovavo, immerso nella nebbia e nella notte più buia, riuscivo a malapena a scorgerli, evitando i loro fendenti e le loro frecce.

Da distante, potevo vedere le mura del castello, altissime, con i vessilli con un grifone scarlatto in campo nero,

I Kushin mi circondarono, ma mi resi conto di non avere più la mia spada.

Lembi di pelle che si staccavano sotto i morsi famelici delle creature notturne, s’infilava la mia carne tra i denti sulle gengive e tra la lingua e le bave dei Kushin.

Il mio corpo lentamente si disfaceva, cercando di tirare fendenti per difendermi.

Ma la spada non era più nelle mie mani. Era lontano, penzolante da un ramo di un albero contorto.

Urlai. Ma nessun suono uscì dalle mie labbra, nessun respiro, solo vento che sferza con forza gli alberi, e i rami cadevano distrutti tra i Kushin e la mia figura, che ora potevo quasi scorgere dall’alto di un’infinita distanza, da un cielo al di sopra degli inferi.

Le mie carni continuavano a essere sbranate, mentre lentamente le ossa e i tendini scricchiolavano sotto ai canini degli affamati.

Nessuna considerazione di realtà, poteva annullare la condizione di liberazione di un morso, e di strisce di pelle torturate e dilaniate, mentre tagli profondi riempivano il mio corpo, e lentamente svanivo da ogni tipo di pensiero concreto. Da ogni memoria.

Gli incubi sono dolci impressioni d’inferno. Echi di un’eternità oscura.

Mentre la notte muove i suoi astri, e le sue costellazioni, la mia mente si allontanava vertiginosamente e spaventosamente da ogni riflessione sul muoversi eterno di un tempo inesistente, mentre quasi sazi di carne, i Kushin terminavano il loro banchetto. Un convito senza ospiti, una vittima di un sacrificio, un muoversi verso l’infinita voragine dell’abisso avvolgente di un nulla vuoto, di cui puoi quasi percepire il non odore, il non sapore, la non vista.

Hoshiyame sedeva di fronte a me. Il fumo degli incensi e le sue parole cessarono all’improvviso. Fuori era l’alba. E cantavano sommessamente cicale e uccelli di bosco. Il mondo si svegliava più potente, superando un’altra morte, superando l’ennesima notte gelida e distante. Le stelle tra Orione e il Sagittario mi guardavano silenti, in quiete.

E al di là, l’infinita tenebra.

“Dio degli incubi, mezzo spirito, mezzo uomo”

Hoshiyame parlava senza muovere le labbra. La sua voce proveniva dagli spazi più dimenticati dell’essere.

Haak-me-kur. Il mio nome da assassino.

Diventai il dio degli incubi e dell’ombra.

 

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