Recensioni: “La caduta di Artù” di J.R.R. Tolkien

Dettagli

Titolo: La caduta di Artù

Autore: J.R.R. Tolkien

Curatore: Christopher Tolkien

Editore: Bompiani

Genere: poesia, saggistica

Pagine: 296

Data di pubblicazione: Prima edizione novembre 2013

Prezzo: 20 Euro

Recensione

The Fall of Arthur”, “La caduta di Artù” è certamente, tra i titoli tolkieniani postumi (2013), quello meno spendibile sul piano commerciale.

Non è un romanzo, e nemmeno un racconto o una raccolta; è un poema, per di più incompiuto. Meglio ancora: la silloge delle versioni che di esso Tolkien aveva redatto, riordinate dal figlio Cristopher secondo una papabile cronologia desunta da appunti e lettere (la stesura risalirebbe, in questo senso, alla prima metà degli anni ‘30). Infine, “La caduta…” non ha nulla a che spartire con l’oramai familiare universo di Arda. Viceversa, quello che abbiamo per le mani risulta essere un testo difficile, composto da circa un migliaio di versi e suddiviso in cinque canti che – in un inglese moderno ma ricco di arcaismi – tenta di recuperare tramite l’uso del metro germanico desunto dal Beowulf la forma degli antichi poemi allitterativi dell’Inghilterra medievale, applicandola alla materia arturiana.

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Ecco tuttavia l’occasione, spesso occultata dalla fama acquisita dalle vicende dell’Anello, di osservare da vicino uno dei lati precipui del Professore di Oxford: lo studio filologico, il recupero e il vero e proprio restauro linguistico delle vestigia altomedievali britanniche, e la sua applicazione a una produzione personale. Un lavoro intento al quale l’avremmo potuto cogliere anche in tempi appena anteriori, quando scrisse “The Lay of Aotrou and Itroun”, anch’esso incompiuto, a imitazione degli antichi lai bretoni.

La trama cesellata dai versi rievoca invece un momento fondamentale della materia di Bretagna, e cioè la fine tragica del re Artù, così come indicato dal titolo. Conoscitore esperto delle opere di Chrétien de Troyes, Thomas Malory e di Goffredo di Monmouth, Tolkien non si affida però unicamente alla produzione basso medievale riguardante Artù, poetica o pseudostorica che sia. Nel richiamare dalle nebbie il suo Artù, circonfuso dai foschi bagliori degli immani sommovimenti di uomini del V secolo – vero spartiacque della storia – troviamo come egli si rivolga altrettanto equamente alle cronache di Gildas e al suo De Excidiu et Conquestu Britanniae, a Beda il Venerabile, e all’Historia Brittonum attribuita a Nennio, solo per citarne alcuni. Inevitabile, del resto, in un contesto di interdipendenza in cui molte fonti si connettono e si influenzano fra loro, in un’ apparente coerenza che al di là di discrepanze anche notevoli su certi dettagli ha indotto molti a ritenerle a lungo pienamente o fondamentalmente storiche.

Tutti questi materiali riemergono evidenti dalle notazioni operate dall’acribia analitica di Cristopher Tolkien, che ce ne mostra l’apparire e scomparire nel testo alla maniera di un fiume carsico, a seconda della versione analizzata de “La caduta…”; riferimenti spesso amalgamati in una miscela inscindibile di rimandi, per la quale ogni verso assume un significato ambiguo. La storia in ogni caso mantiene dei punti fermi anche nel susseguirsi di correzioni, e fin dall’inizio mostra l’avviarsi di Artù all’impresa fatale, quella di difendere, assieme al favoloso imperatore romano Lucio Hibero, i confini d’Europa dalle orde barbare che giungono da un Est assimilabile alle bibliche terre di Gog e Magog, oltre la Foresta di Mirkwood (nome con cui già Walter Scott e Morris identificavano la primeva Foresta Nera che Tolkien trasfigurerà in Bosco Atro).

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La vittoria nell’impresa, pur arridendo ai nobili di Britannia, ha un risvolto amaro: Artù aveva affidato durante la campagna la corona e la sposa Ginevra al nipote Mordred, e questi, con una doppia empietà, gliele ha sottratte entrambe. Di più: dimostrandosi vera belle dame sans mercy, la regina – pur fuggendo da Mordred – ne approfitta per compiere a sua volta il suo adulterio con Lancillotto. Una sequela di disgrazie che porterà tutti alla rovina, in un climax che però non ci è mostrato, a causa dell’interrompersi della bozza tolkieniana.

Sarebbero occorsi cinque vent’anni perché il Professore giungesse al proposito di concluderla, come accenna in una lettera del 1955 a Houghton Mifflin. E tuttavia non tenne nuovamente fede all’intenzione, lasciandola per sempre senza un finale.

Giunti dunque fin qui, vale la pena riportare almeno i più rimarchevoli degli aspetti della sintesi operata da Tolkien, ben evidenziati nella postfazione finale inserita da Bompiani, firmata da Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco (quest’ultimo presente anche in veste di traduttore).

Il primo, è senz’altro quello di aver elevato Artù a ultimo bastione di un mondo morente – la Britannia e l’Europa romane – vicino ad essere sommerso dalle invasioni germaniche e unne. Un eroe tragico, consapevole kathecon all’ultimo trapasso di un’era, opposto almeno in parte a quello descritto per esempio da Goffredo di Monmouth, che narra di un Artù avversario di Roma e del suo impero, e non alleato.

Un piano di lettura, dunque, quello metastorico appena menzionato, cui possiamo sovrapporre a seguire quello storico della temperie barbarica del V secolo, fino a quello meramente umano delle vicende di amori e tradimenti.

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L’altro aspetto da ricordare è infine la valenza archetipica che assume la materia arturiana nella versione di Tolkien, che usualmente avverso alle interpretazioni allegoriche o metaforiche, in questo caso fa mostra di non aver paura della potenza dei simboli, utilizzati con esemplare chiarezza a mo’ di guida interpretativa per il suo testo.

Un volume certo non pienamente fruibile nelle sue potenzialità da chi non abbia familiarità con la ricerca linguistica e filologica, “The Fall of Arthur”, ma comunque un pezzo notevole della produzione tolkieniana relativa ai suoi interessi e di autore e di medievista. Recuperarlo e studiarlo, non potrà che confermare il lettore nella passione per il creatore della Terra di Mezzo.

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