I racconti di Satrampa Zeiros – “Come il sogno di volare” di Antonella Mecenero

 

Per “I racconti di Satampra Zeiros” ospitiamo oggi per la prima volta Antonella Mecenero, che ci propone un insolito quanto gradevole racconto a tema vampirico. Buona lettura!

Autrice

Antonella Mecenero è nata nel 1980 e vive con la famiglia in provincia di Novara.
Insegnante, nel tempo libero scrive e corre per le colline e porta sempre a casa nuove storie raccontare.
È stata premiata in molti concorsi letterari, tra cui quelli indetti da Giallo Mondadori e dal Trofeo RiLL. I suoi racconti sono presenti in numerose antologie, sono stati pubblicati da Giallo Mondadori e da Delos Digital. Per questo editore sono stati pubblicati a inizio 2020 quattro racconti fantasy, La spada di Emarana, La luna delle foglie Cadenti, Il posto della spada e Fino alla morte e oltre, che compongono la prima parte di una saga fantasy, Le cronache delle Ley.
Ha pubblicato due romanzi gialli, La roccia nel cuore (Interlinea edizioni, 2013) e Sherlock Holmes e il mistero dell’uomo meccanico (Delos Digital, 2014) e un’antologia di racconti fantasy La spada, il cuore, lo zaffiro (wildboar edizione, a cura di Associazione RiLL, 2016).
 

Sinossi

La morte, e cosa c’è dopo. Il lungo e forse infinito apprendistato ai misteri e agli orrori della non-vita, il trascorrere del tempo e delle ere, l’abbandono della natura umana per trasmigrare in una dimensione dove la notte è eterna, e anche l’Io si rivela un’illusione.
 
 

Come il sogno di volare

di Antonella Mecenero
 

Quando avviene davvero una nascita? Col primo respiro, col primo pensiero o con il primo ricordo di un pensiero?

Il pianto di un neonato non è più consapevole dell’eliotropismo del girasole o del subitaneo richiudersi al tocco delle foglie di certe mimose.

Ripercorrendo il nostro tempo a ritroso ogni ricordo è preceduto da un altro ricordo fino a giungere a un limbo indefinito d’infanzia in cui vi è solo la memoria confusa di esperienze precedenti. Anche allora sapevamo di avere un passato.

Dal mancato ricordo dell’origine nasce l’illusione dell’immortalità.

Ci percepiamo come un retta, di cui è definito il presente, ma di cui si perde in una nebbia indefinita il prima e quindi altrettanto indefinito deve essere il futuro. L’umanità anela l’immortalità col sicuro egoismo di chi rivendica un diritto. Il suo desiderio è inciso nel profondo di ogni anima, come il sogno di volare.

La mente umana, tuttavia, non è fatta per l’eternità.

La nostra esistenza è intrinsecamente connessa con la perdita. Torniamo nei luoghi che abbiamo abitato e non li riconosciamo, gli oggetti diventano polvere tra le nostre dita, persino le conoscenze si mutano in relitti di tempi trascorsi che galleggiano ormai inutilizzabili nella nostra memoria come velieri in disarmo. E nulla è più effimero delle creature viventi. Nessun uomo alleva farfalle che vivono un solo giorno. Allo stesso modo apprendiamo l’inutilità di dedicare attenzione agli esseri umani, a meno di non voler collezionare ricordi di lapidi.

La bellezza, tuttavia, non cessa mai di stupirci. A crearla è un irripetibile concausa di circostanze e la fragilità ne è una caratteristica pregnante. Noi, che siamo geneticamente programmati per approfittare il più possibile di momenti irripetibili, siamo attratti dalla bellezza come falene dalle fiamme.

Non ho paura di te.

Sono figlia di un’epoca crudele. A diciotto anni ho già visto al tramonto il riverbero contro le nubi dei campi in fiamme, dov’erano passati i lanzichenecchi. Mio zio, che era mercante, è morto di peste. Mio fratello non ha neppure avuto diritto  a una malattia famosa, se n’è andato consumato dal dolore, dopo essersi tagliato mentre giocava al fiume. La tosse consuma mamma ogni notte, pian piano, dandole tutto il tempo di soffrire per  coloro che sono morti prima di lei.

L’anno scorso ho visto una ragazza condotta in catene lungo le vie, con le comari che le lanciavano sterco e mi hanno detto che poi è stata bruciata in piazza come eretica e strega. Non qua, nel mio villaggio, troppo miserabile persino per una pubblica esecuzione.

Tu ora dici che puoi dissanguarmi. Se la Chiesa può smembrarmi e bruciarmi, suppongo che sia possibile che tu voglia bere il mio sangue. Mi sembra un desiderio più sensato di quello del prete che trascinava la ragazza come fosse stata un animale riottoso. Perché dovresti farmi più paura del signorotto che ogni giorno passa a cavallo davanti alla fattoria e mi guarda con i suoi occhi calmi e lascivi? Potrebbe prendermi contro il mio volere la prima volta in cui mi trovo da sola. Potrei essere uccisa soldato sbandato o da un lupo o da un uomo disperato. Perché dovrei temerli più di te?

Perché dovrei temere la vita che mi prometti, invece che la morte?

 Lo faccio con cura, con la stessa delicatezza con cui i collezionisti infilano lo spillo sottile nel corpo ormai morto delle farfalle. La consapevolezza di aver negato loro la possibilità di volare e di trasmettere ai discendenti le proprie caratteristiche è parte integrante del piacere. Rendere unico e inaccessibile alla concorrenza il proprio tesoro.

Non l’ho mai fatto prima. In questo, sono esattamente come te, sull’orlo di un abisso inesplorato. Ho sempre bevuto per sopravvivere, prima, o per uccidere. Ho attraversato solo i secoli partendo da un’antichità sconosciuta a quei libri di storia che tu non sai leggere. Non che abbia importanza, dal momento che non sai leggere. Mentre ti prosciugo, assaporo nel sangue il sentore di una primavera non ancora mutata in estate, col profumo di un orizzonte circoscritto da una dorsale di colline, da un fiume troppo largo e da un villaggio che solo per ignoranza d’altro viene chiamato “città”. Fa impressione constatare quanto poco di mondo tu conosca. E come tuttavia tutto questo basti per circoscrivere un’esistenza intera, come così poco sia bastato a creare una bellezza così perfetta.

Non temere. Il pallore ti donerà. Sei nata per essere una predatrice.

So con esatta certezza ciò che ti sto facendo.

Quello che ignoro è cosa stia facendo a me stesso.

Non è stato terribile. C’è stato dolore, certo, ma il dolore lo conosco. È, anzi, l’unico elemento della vita col quale abbia una famigliarità profonda. L’assenza di dolore che è seguita alla trasformazione, piuttosto, è una sorpresa.

Dolori talmente abituali che non li ritenevo neppure tali. Le mani, piene di geloni, sempre screpolate a furia di lavare i panni al fiume. I piedi e i polpacci dolenti alla sera, i talloni tagliati dagli zoccoli di legno. E quella sensazione al petto, quando di notte prendevo a tossire della stessa tosse di mia madre, qualcosa a cui cercavo di non pensare mai, che negavo persino a me stessa appena spuntava il giorno.

Posso anche non rivedere il sole. Non mi mancherà se insieme a lui ho abbandonato quel terrore.

Se a una pecora fosse dato per incanto di trasformasi in lupo, capirebbe la mia esaltazione.

La paura, fino ad ora, mi ha avvolto come un panno, talmente abituale da non doverne mai sentire il peso. Sono tornata nella mia casa, nella notte, per salutare mia madre. L’ho abbracciata, il suo petto ossuto, così fragile contro il mio, senza temere il contagio. Potrei anche entrare senza pericolo in un lazzaretto. Posso desiderare di essere aggredita in un vicolo per il puro gusto di vedere la sorpresa negli occhi di quegli uomini, mentre muoiono.

La morte non segue più i miei passi, le sono andata incontro e ho raggiunto un diverso grado dell’esistenza che mi sta comodo, come un vestito pensato per me da un sarto di città.

Neppure il nutrirmi è un problema. In campagna, si accarezzano i conigli, prima di macellarli e si vezzeggia la mucca a cui si deve sottrarre il vitello. Gli esseri umani non hanno occhi diversi da quelli degli animali, quando sono terrorizzati.

Infine, non c’è fanciulla che non sogni di passare l’eternità al fianco di colui che ama.

L’amo. Forse non nel senso che gli esseri umani danno alla parola, come potrei conoscerlo, del resto? Tuttavia sono affascinato dal suo entusiasmo, dalla sua continua sorpresa. Il suo corpo non cambierà mai, non perderà il fulgore dei diciotto anni. Adesso, però, posso sciogliere le sue trecce e arricciare in morbidi boccoli i capelli. Niente più abiti informi di un pesante color terra, ma broccati che le strizzino i seni e ne esaltino il collo candido. Un sottile nastro di velluto nero basta a nascondere le cicatrici che le ho lasciato. La sua mente, poi, è una landa inesplorata. Come si nutre un grazioso animale domestico, do cibo alla sua anima. Viaggiamo. Le faccio insegnare il francese per poter leggerei i filosofi e l’italiano, per apprezzare la poesia e la lirica. Ascoltiamo un bambino prodigio suonare a Salisburgo e  questo la spinge ad acquistare un clavicembalo. Sono decenni di continua scoperta.

Il mondo è una festa senza fine in cui si succedono abiti nuovi, melodie differenti, coppe sempre piene da svuotare. Anno dopo anno, cambio nel mio modo di attraversare il tempo. È naturale, essendo diventata un’altra cosa dalla ragazza che ero. Forse, mi sto trasformando ogni giorno più me stessa.

 Al contrario di ciò che si può credere, la noia non è abituale per un immortale. Siamo creature in costante adattamento nel continuo mutare del tempo. La certezza di ieri è una superstizione oggi, una leggenda domani. Tutto ciò che incontriamo è transuente e pertanto degno dell’attenzione che si riserva all’irripetibile. L’oggi ne è un esempio lampante. I re sono stati una costante per secoli. Ora se non accontentano il popolo vengono messi a morte senza che questo sembri più un sacrilegio. Il sangue dei nobili viene sparso per le piazze di Parigi e tutti constatano quello che noi sappiamo da sempre. Ha lo stesso colore e lo stesso odore di quello di chiunque altro. Quando imbratta in selciato al punto che camminando ci si deve sguazzare, viene a nausea persino a me.

Quello a cui non siamo abituati sono le costanti. Il sole, la luna e la fame sono le uniche cose che non cambiano mai.

Inizia a venirmi a noia la sua continua presenza. C’è un limite evidente alla plasticità di una mente. Posso prevederne reazioni e pensieri come i risultati di un meccanismo bellissimo, ma ripetitivo. È ancora bellissima, nonostante la nuova moda rivoluzionaria non sembri fatta per esaltare il corpo femminile e tuttavia ne conosco ogni neo. So che ha tre capelli di colore più scuro che partono dalla tempia sinistra, che ha una cicatrice sul mignolo destro e che il terzo dito del piede sinistro, che si è rotta da bambina, si è saldato male. Chiudo gli occhi e riesco a rievocarne ogni dettaglio. La sua bellezza ha cessato di stupirmi, anzi, sempre più spesso colgo la rozza origine contadina che neppure i secoli riescono a toglierle.

Potrebbe andarsene o io potrei chiederle di farlo. La caccia non è mai stata un problema per lei. Ma è diventata come una calzatura sgualcita, ma comoda. Scopro di avere piedi ormai troppo delicati per camminare scalzi.

I suoi ragionamenti, che un tempo mi avevano stupito, nascono spontanei nella mia mente.

 Un tempo mi chiedevo come lui guardasse il mondo, ma l’alba del novecento la osservo con il suo stesso sguardo negli occhi.

Non è vero che amiamo la guerra. Non ne abbiamo motivo, a parte che per l’ovvia disponibilità di sangue. La distruzione è prerogativa che spetta al tempo e gli uomini non dovrebbero arrogarsela. Nessuna creatura dovrebbe provare piacere a vedere un fiore appassire più in fretta.

Del villaggio in cui è nata restano solo macerie. Mi chiedo chi possa essere stato a dare l’ordine di bombardare un borgo che in quattro secoli è rimasto circoscritto a un manipolo di case, se sia stato un errore. Per noi che viviamo di morti necessarie, sembra un sacrilegio che le uccisioni avvengano per puro errore. La tomba di sua madre non esiste più. Nessuno ricorda neppure il nome della sua famiglia. È così strano sentire le lacrime anche sulle mie guance.

È arrivato il tempo di partire.

Mentre salgo sull’aereo, diretta verso un altro continente, torno a essere per un poco la ragazza che ero stata. Una contadina del seicento a cui è permesso di realizzare il sogno di volare.

Ho l’assurdo privilegio di aver raggiunto l’impensabile. Ora capisco davvero la mitologia che ho studiato, l’onnipotenza degli immortali. Vedo la terra staccarsi, più in basso e la osservo come Zeus, dai suoi occhi d’aquila

Non potevo immaginare la bellezza del mare irato, con i fulmini che ne illuminano la spuma. 

E allora perché c’è della paura sul suo volto?

L’immortalità, dice mentre precipitavamo, non sempre è un vantaggio.

Cadiamo. Un turbine di urla e terrore che si fa poi fiamme e acque gelate d’oceano.

Ci inabissiamo, in un’oscurità di cui mai avevo fatto esperienza.

Le nostre ossa si spezzano, l’acqua entra nei nostri petti, si taglia la nostra pelle e tuttavia non moriamo. Non possiamo morire.

Il sangue dei nostri compagni di viaggio finisce prima che ci possa rigenerare.

Siamo al buio, in una bara metallica che non abbiamo la forza di lacerare, adagiata sul fondale oceanico.

 E qui restiamo.

Nessun colore. Nessuna luce.

Fluttuiamo nel buio, senza vederci, i capelli come alghe, il corpo molle, impregnato d’acqua, privo della forza necessaria a toccarci.

Ascoltiamo.

 Alieni canti di balene, che scendono così in profondità per inintelligibili scopi a ogni migrazione.

Soffuse melodie acquatiche di cui nulla è più struggente della consapevolezza che abbiano un significato che non possiamo cogliere.

I frastuoni improvvisi delle lotte di invisibili giganti. Calamari e capodogli. E sperare che un colpo di quei corpi possenti per errore lacerino la nostra prigione.

Noi, immortali, supplici in attesa.

E il freddo che ci coglie quando il suono si attutisce e la vita ancora una volta ci passa accanto.

Lontano, quasi impercettibile, lo sciabordio delle onde in tempesta.

Ciò che lassù è apocalisse, qui è un dolce ondeggiare, il cullare ingannevole di un’inconsapevole madre marina.

Gli scricchiolii, gli assestamenti della carlinga.

Si lamenta, quasi piange, il relitto, con la voce che noi non abbiamo, come se fosse prigioniero e non prigione.

Misteriosi strepiti provenienti dal fondale sottomarino.

Sommovimenti, sbuffi di gas. Movimenti segreti che nessun occhio ha mai colto. Il respiro aritmico di una creatura la cui età mi incute suggestione, a cui siamo indifferenti, come a noi lo erano gli acari della polvere. Anche l’immortalità, quaggiù, appare una questione relativa.

Non in grado di articolare suoni intelligibili, tacciamo.

Pensiamo.

 Nel silenzio so solo che lei è lì, nel buio, e pensa.

Non c’è bisogno di telepatia. Nel buio, dilavati, svuotati, scarnificati, siamo uguali. Uguali i pensieri.

 Sempre più rarefatti col trascorrere del tempo.

E quando uno di essi ci coglie non sappiamo quale delle menti l’abbia formulato. Dove termini il mio essere e inizi il suo. Anche l’io di diluisce, quaggiù.

 Intanto la carlinga, al contrario di noi, muore.

Varchi sempre maggiori, fino a che strani pesci luminescenti prendono a entrare, riportando la luce.

Hanno sangue insapore e poco nutriente.

Siamo così deboli che solo se ci sfiorano la mano o la bocca riusciamo a nutrirci.

 Per riflesso, un corpo deglutisce, quando l’altro ingerisce.

Ridotti a puro istinto, il pensiero è solo un lampo di consapevolezza nell’istante della caccia.

E fame e freddo e buio prima e dopo.

Il sale e l’incessante procedere delle correnti marine, avranno la meglio sull’acciaio.

 Realtà e metafora che le nostre menti di un tempo avrebbero saputo apprezzare.

 Ci troviamo liberi, senza più conoscere il significato della parola libertà.

 Seguendo la nostra natura, cacciamo.

Sangue bianco, di pesce.

 Sangue freddo, di mollusco.

Scarso, di crostaceo.

 Sangue. Vita.

 Forza di articolare i movimenti.

 Nuotare.

Verso un mondo di cui, dopo aver saputo ciò che pensavamo fosse degno di essere conosciuto, ignoriamo tutto.

 E mentre nuoto non so qual è il braccio che muovo. Se è la mia bocca o la sua che affonda tra le squame di una cernia.

 Ci areniamo su una spiaggia come naufraghi immemori. Mai espediente fu più vicino alla verità.

 Senza sorpresa apprendiamo di essere approdati a un secolo differente. Un millennio che per quella ragazza di collina non era stato neppure pensabile.

 Sopravviviamo. Andiamo avanti nel tempo, come la nostra natura ci impone. Ma ci siamo inoltrati troppo avanti su una strada che non conoscevamo.

Pensiamo gli stessi pensieri, come un continuo canto a due voci. Senza più capire a quale mente appartengano. Come un unico corpo con due tronchi e quattro arti. O due corpi, ciascuno abitato da due anime. Simili, ma non ancora coincidenti.

Esco a caccia, senza sapere quale siano gli abiti giusti per quale corpo.

Ci lascerà anche il ricordo del  tempo in cui eravamo due creature differenti?

Cosa accadrà, allora? Approderemo forse a un nuovo stadio dell’esistenza. Una coscienza che sia l’esatta somma delle nostre due unicità. Come la melodia di un coro è diversa dalla semplice somma delle parti. Mi chiedo se questa, in fondo, non sia la fine delle nostre anime, giacché la risultante, in ogni caso, non saremo più noi.

 Mi chiedo se non sia questa la morte di un’anima immortale.

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