L’archetipo della Quest tra Epica e Fantasy

Perceval, o Parsifal, è uno dei cavalieri del ciclo arturiano, protagonista di uno dei primi romanzi della storia, intesa in senso moderno, il “Conte du Graal”, il racconto del Graal. Si tratta di un romanzo cortese d’avventura che incorpora nella sua struttura quello che Joseph Campbell chiamerà “il viaggio dell’eroe”, un archetipo letterario che ritorna molto spesso, anche in opere contemporanee, e trae le sue origini dall’epica. L’autore è Chrètien de Troyes, scrittore e poeta francese la cui biografia, compresa la stessa data di nascita, ci è in buona parte sconosciuta. Di lui sappiamo che fu un chierico presso le corti di Maria di Champagne e, successivamente, di Filippo I d’Alsazia e che apprese le arti del trivio e del quadrivio, ovvero filosofia e teologia. Il “Perceval”, il racconto del Graal, è dedicato al suo protettore, Filippo I d’Alsazia. Fu attivo dalla metà del 1100 fino a prima del 1190, probabilmente scrivendo molti più componimenti e romanzi dei cinque giunti sino a noi, comunque fondamentali per la comprensione di cosa rappresentasse il ciclo bretone nell’immaginario comune dell’uomo medievale. Oltre al “Conte du Graal”, scritto durante l’epoca delle crociate, scrisse anche “Erec et Enide”, “Cligès”, “Lancelot ou le chevalier de la charrette”, e “Yvain ou le chevalier au lion”, tutti riguardanti il ciclo arturiano: l’insieme di storie, racconti, miti e leggende su Camelot, re Artù e le avventure dei suoi cavalieri. Nell’introduzione di “Cligès” è citato anche di un poemetto in versi riguardante Tristano e Isotta e una trasposizione di un frammento delle “Metamorfosi” del poeta latino Ovidio. Nella tradizione cortese e nelle opere letterarie, pervenute anche grazie alla riscoperta del Medioevo e dell’antichità in genere avvenuta nell’Ottocento grazie ai movimenti culturali del Romanticismo, Chrètien de Troyes risulta essere un punto di riferimento e una solida base da cui partire. Insomma, un autore fondamentale.

Nel “Conte du Graal” si leggono le gesta di Perceval,  il più umile tra i cavalieri della Tavola Rotonda, nato e vissuto in una foresta. Poiché era destinato a diventare cavaliere, la madre lo tenne nascosto, in tenera età, al fine di proteggerlo, ma il destino lo porterà ugualmente alla corte di Artù. Lì fu proprio a Perceval, insieme a Lancillotto e altri cavalieri della Tavola Rotonda – che rappresentava il massimo grado di onorificenza e potere presso la corte di Artù – che venne affidato il compito di cercare il Graal. Gli altri fallirono e fu Perceval, il più umile, che si presentò alla corte di Artù con abiti da boscaiolo, affascinato unicamente dagli ideali più nobili della cavalleria, a vedere il Graal alla corte del Re Pescatore. Non si trattava della coppa da cui bevve il Cristo durante l’ultima cena, ma di “un” graal, ossia, una coppa, con dentro un’ostia consacrata. Durante la famosa sequenza della “processione del Graal” Perceval vide prima il Graal, dorato e splendente, pura luce, e poi una lancia che stillava lentamente una goccia di sangue lungo il braccio del servo che la trasportava. Questa lancia, la lancia di Longino, il soldato romano che trafisse il costato di Cristo, sarà l’oggetto della cerca di Galvano, altro cavaliere del ciclo arturiano.

In tutto il ciclo bretone è ricorrente il tema della “Quest”, ovvero della cerca. Gli uomini medievali erano affascinati dalle leggende e dalle storie popolari riguardanti le reliquie sacre del Cristianesimo, che reinterpretò i simboli della mitologia pagana formando una mitologia altrettanto ampia, ricca di creature mostruose come poteva esserlo, per esempio, un poema omerico come l’Odissea, e di leggende e luoghi a metà tra questo mondo e un altro, la sfera del mistico e del divino. Durante il medioevo ebbero larga eco anche miti nordici, come quello di Sigfrido che uccide il Drago, il cui modello è affine a quello di San Giorgio.  In poche parole, una figura eroica del mondo pagano poteva essere rileyys secondo tratti cristiani, rielaborando (non sostituendo) ogni elemento valoroso comunemente riconosciuto ad una virtù cristiana.

Quello della ricerca è un tema molto antico. La parola inglese “Quest” deriva dal francese “quete”, che significa appunto ricerca, viaggio in cerca di un tesoro, viaggio in cerca dello scopo ultimo del cavaliere. “Quest”, insomma, vuol dire ricerca e ritrovamento del tesoro, ed è un tema molto antico. Questo può essere, nel caso di Perceval, il Graal, nel caso di un Odisseo disperso nell’immensità del mare, reame di Poseidone, la sua mai dimenticata Itaca. In ambito pagano l’eroe raggiunge l’apice della sua esistenza tramite imprese che fanno in modo che l’umano si scontri con la sfera del divino, che spesso coincide con forze ataviche naturali, con la sfera dell’intangibile. Nel medioevo e in un complesso di credenze e leggende popolari di matrice cristiana, invece, l’eroe e l’uomo è portato a una “cerca” che lo spingerà ad ammirare la luce divina, alla contemplazione. Il finale ultimo del mito cristiano è la contemplazione, mentre in età pagana era l’azione e il gesto eroico visto e inteso come atto nei confronti della realtà.

Alla corte del Re Pescatore Perceval avrebbe potuto ottenere il Graal, ponendo fine alla carestia che stava devastando l’intero regno. Ma, pur essendo partito proprio con questo scopo, l’eroe, a causa di un eccesso di riservatezza e rigidità nell’osservanza del codice cavalleresco, non chiese nulla al Re Pescatore durante la “processione del Graal”, non portando, di conseguenza, a compimento la sua “Quest”. Questo gesto è stato interpretato in vari modi. La cristianità tramandò quest’aneddoto per evidenziare che, se Perceval avesse attuato il precetto cristiano per cui “chiedi e ti sarà dato”, secondo le parole del Vangelo, avrebbe potuto portare a termine la sua cerca. L’ethos cavalleresco ci dice che Parsifal avrebbe anche potuto spingersi ad esprimere una parola di troppo, se a fin di bene, e a compiere un’azione di troppo. Invece viene descritta l’immagine di Parsifal quasi troppo cavalleresco, se si può così definire, troppo disumanizzato. Il silenzio è una caratteristica dell’imperscrutabilità del volere divino. Agli uomini s’addice parlare, chiedere, osare un poco, ed è per questo che in ogni “Quest” l’eroe rimane uomo senza divenire un dio.  Nella letteratura greca antica abbiamo tantissimi esempi di come, proprio grazie a queste facoltà, gli uomini riuscissero a districare gli inganni e i tranelli degli dei a loro avversi, tenendo sempre presente che la tracotanza, la cosiddetta “hybris”, non era mai perdonata e ammessa, essendo i Greci molto attenti al senso della misura. Tali virtù si tramandarono allo stoicismo e tramite le dottrine stoiche al Cristianesimo. 

Vi è un filo conduttore nel senso di ricerca che la “Quest” assume attraverso i secoli che può essere riconducibile a ciò che Jung, nel Novecento, definirà inconscio collettivo. Per Jung l’inconscio umano è collettivo nel senso che vi sono degli elementi ricorrenti nei sogni – manifestazioni analizzabili dell’inconscio – che si rifanno alla storia e alla tradizione di un determinato popolo, piuttosto che di un altro. Jung riconobbe l’importanza della tradizione nell’animo e nella psiche umana. Quegli elementi ricorrenti sono a loro volta rappresentazioni di archetipi presenti in ogni mente umana, che Jung definisce in un modo che lascia spazio a svariate interpretazioni. Essi sono essenze dell’inconscio, presenze ataviche e ancestrali, segni lasciati sulla specie umana attraverso le ere più antiche, quando ancora non esisteva la scrittura, e gli uomini s’interfacciavano alla natura e si scontravano con essa. L’inconscio umano contiene questi archetipi quasi in modo innato; essi si svelano e si rivelano attraverso quella parte dell’esistenza conscia e razionale. In base alla tradizione religiosa, sociale e culturale la “Quest” muta nei secoli e si trasforma in continuazione, proprio come mutano i costumi e gli usi stessi degli uomini. Per Achille il tesoro della cerca era la gloria, per San Giorgio il Drago, per Perceval il Graal. Con lo svilupparsi del romanzo cortese il tesoro diviene la donna amata, con le leggende su Lancillotto e Ginevra; la donna angelicata dello stilnovo dantesco. Con la scoperta delle Americhe e con le grandi esplorazioni geografiche la ricerca si sposta sulla brama di maggior conoscenza, e quindi di conoscenza di sé, dell’umano e delle sue potenzialità come era nell’antica Grecia. Poi il tesoro diverrà, con la società di tipo industriale e l’ammassarsi delle persone in ambienti urbani, qualcosa d’interiore, come sempre era stato, ma con una connessione salda e ferrea con l’ambito terreno.

In epoca contemporanea l’idea della cerca in senso tradizionale medievale è portata avanti dalla letteratura fantastica in modo autentico e diretto, genuino, spontaneo. Sebbene il genere fantasy derivi dai romanzi ottocenteschi non ne condivide il pessimismo cosmico, tipico del primo Romanticismo. Assume piuttosto i caratteri dell’epica antica, commisti all’elemento romanzesco avventuroso di autori come, ad esempio, Stevenson, o lord Dunsany, e risente delle visioni di Coleridge e del suo “Kubla Khan”, in parte, se prendiamo in esame autori come C. A. Smith. Howard era anche influenzato dall’appena nato romanzo “pulp”, lui stesso era autore di svariati racconti del genere, che diventerà parte del giallo e del thriller. Quindi vi sono svariate influenze nei padri della letteratura fantastica, capaci di accogliere la tradizione per portarla ad un altro livello, donandole nuova vita, alimentando il fuoco della “Quest” e del senso di ricerca tipico dell’animo umano. 

Tutti i miti sono rappresentazioni degli aspetti più incomprensibili della natura umana, aggiunse Jung ne “Gli archetipi e l’inconscio collettivo”, quindi l’uomo sta cercando di comprendere a pieno sé stesso da sempre, specchiandosi tramite il mito, i racconti d’ispirazione mitica, epica e religiosa nel senso più tribale e ancestrale del termine. Alla fine della “cerca” vi è quindi l’essenza di ciò che di divino c’è nell’umano e di ciò che di umano c’è nel divino. Si tratta dell’unione degli opposti, qualcosa che sa di alchemico, di mistico, di vero, qualcosa che va al di là di questo mondo materiale. Per un uomo di epoca medievale era normale vivere immerso nella narrazione mitica e in quello che in età contemporanea viene definito “storytelling”, ovvero quella parte di realtà che è anche storia, anche racconto della realtà, che va a formare l’humus su cui cresce e si sviluppa il folklore di una determinata popolazione. Senza mito non c’è popolazione, e non c’è neanche uomo. È infatti tipico dell’uomo inteso come specie il mitizzare, l’immaginare e il creare allegorie, metafore, simboli, tramite un continuo perpetuarsi di tradizione e mitologia, che racchiudono in sé saggezza e sapienza popolare su qualsiasi argomento. I poemi dell’epica, antica, medievale, post medievale, Romantica, e la facoltà del mitizzare tipica dell’animo umano, formano un tutt’uno con ciò che è l’essenza vera e reale dell’uomo. Nella letteratura fantastica si percepisce qualcosa di più di tutti questi aspetti. C’è un’atmosfera magica che si affaccia alla dimensione del mistico, di ciò che è al di là, ciò che è oltre, infinito, rispetto agli altri generi di romanzo che ci sono pervenuti nel corso dei secoli, anche tramite l’evoluzione che è avvenuta da Chrètien de Troyes a oggi.

Gli antichi conoscevano bene la ciclicità del tempo. La letteratura fantastica può essere intesa come un ritorno alle origini, un anelito al ritorno delle condizioni umane di coabitazione con la natura, anche tramite uno scontro, ma mai tramite lo sfruttamento selvaggio e dissennato. Tolkien stesso scrisse di Hobbit, creature pure d’animo, in una terra pura, la Contea, dai verdi prati, vitale, in un momento storico in cui proprio dal punto di vista psicologico c’era bisogno di purezza, di immaginazione, di gesta eroiche, di forza, di energia vitale. La realtà storica di Tolkien era indubbiamente una realtà di morte, così come tutta la prima metà del Novecento. Jung comprende questo legame tra storia e uomo. Ogni uomo è figlio della sua epoca e così anche le sue opere artistiche, e tramite l’arte, intesa come prodotto dell’uomo, a metà tra il mondo dell’astratto e il mondo del materiale e del concreto, è possibile dedurre molto dell’uomo, che sia inteso come scrittore o come singolo preso in esame in relazione a un insieme d’individui, i quali formano l’inconscio collettivo. 

La “cerca” è una tematica centrale ancora oggi nel fantasy che, pur essendo molto ampio e caratterizzato da diverse sfaccettature, trova nella “Quest” il suo scheletro. Si tratta infatti delle fondamenta su cui si basano tutti gli esempi tradizionalmente eccelsi del genere. La struttura del “viaggio dell’eroe” fu teorizzata da Vagler, sceneggiatore hollywoodiano e studioso di Joseph Campbell, il quale affermava che il viaggio dell’eroe fosse l’autorealizzazione dell’Io che trova sé stesso. Suddivise poi questa struttura narrativa in dodici “pattern”, secondo diversi passaggi. Si parte dal mondo ordinario per poi passare al richiamo all’avventura, che verrà inizialmente rifiutata, e all’incontro con un maestro, un mentore che accompagnerà l’eroe – o l’iniziato, volendo intendere il tutto in chiave misterica e mistica – attraverso il varco della prima soglia. Vi è poi una fase di difficoltà da superare, amici e nemici con cui l’eroe si interfaccia, per raggiungere l’archetipica caverna dove si trova il tesoro, affrontare la prova centrale, ottenere la ricompensa per aver ottenuto il tesoro, e raggiungere così la fase di compimento di sé, autorealizzazione, che coincide con la fase di climax della narrazione.

Vi è sempre una crescita esistenziale rispetto all’inizio dell’avventura. L’eroe, o l’iniziato, comincia il cammino in un modo, va nel mondo non conosciuto, affronta svariate prove e, tramite l’aiuto di una guida, di un maestro, di uno sciamano, oltrepassa la soglia, la prima soglia. Da quel punto in poi spesso vi è un distacco tra l’eroe e la sua guida, come per esempio Gandalf con la Compagnia dell’Anello a Moria, oppure Virgilio con Dante, o ancora Obi-Wan Kenobi con Luke Skywalker in “Star Wars” (cito diversi esempi per far meglio comprendere quanto sia universale e archetipica questa struttura narrativa, naturale e spontanea). Vi è poi la prova centrale e, infine, il raggiungimento del tesoro e il ritorno, che coincide sempre con un maggior grado di consapevolezza di sé e del mondo da parte del protagonista o, se vogliamo intendere il tutto in modo iniziatico e spirituale, vi è la massima autorealizzazione di sé nel vero viaggio dell’eroe con il raggiungimento della luce, dell’illuminazione mistica. La visione del Graal del Perceval di Chrètien de Troyes, che risplendeva dorato e la luce delle candele e delle torce e delle fiaccole sembrava oscurarsi al suo passaggio, così come all’alba il Sole fa tramontare la Luna e le stelle, essendo l’astro più splendente, il simbolo del verbo, della verità, del divino. Se intendiamo il viaggio dell’eroe secondo quanto ha scritto Campbell, il Graal sta a indicare appunto questo, il Sole stesso, la rappresentazione immaginativa archetipica della verità e del verbo che stanno a indicare la vita e l’energia che da essa deriva.







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