I racconti di Satrampa Zeiros: “Il morto e la fanciulla” di Alessandro Forlani

Per la rubrica de “I racconti di Satrampa Zeiros“, torna Alessandro Forlani e con lui anche Malqvist e Thanatolia! E tutti loro lo fanno non in un giorno qualunque, bensì proprio in occasione del  14 febbraio.

C’entra forse San Valentino? Beh, lo scoprirete presto, leggendo de…

 

Il morto e la fanciulla

 

Accadde a tarda sera del quattordici febbraio.

«Un necromante ha rapito la mia ragazza!», il giovine gridò.

Perdio, come risero.

Malqvist si alzò dal tavolo, tornò a sedersi, di nuovo in piedi. Si appoggiò sul piano lurido di quercia fino a che la sala gli sembrò più o meno dritta. Scavalcò chiedendo scusa Aroldo a terra che nuotava tra piscolle di liquore; pestò il naso di Ramon a panza all’aria senza dire «mi dispiace», ché neppure se ne accorse. Barcollò tra gli ululati, fischi, gli urli e le risate fino a stringere alle spalle quel biondino disperato.

Lo era proprio, disperato, cazzo! Eccome se lo era!

«Ho bisogno di aiuto! Pago bene!», strillò. Si slegò dalla cintura un bel sacchetto tintinnante. Pesante. Interessante. Malqvist tornò lucido al rumore di astragali e al pensiero che c’è del buono, in ciò che termina per -ante.

Per esempio quel contante.

«… ma hai detto necromante?», tornò a ridere e sputare.

E i compari di inciuccata, l’oste, i servi e i mendicanti – e se avessero potuto anche i porci sulla brace – si rotolarono e sputazzarono e incianotirono di nuovo a ridere.

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«Vengo qui, denaro in mano! Offro un ingaggio! Mi perculate?!»

Lui ruttò. Si pulì il grugno. Prese il giovine da parte. Prima che un altro o che troppi altri si riprendessero da quella sbronza. Si accorgessero dell’oro e gli rompessero le palle. Erano troppo spaccatiammerda, ma è gente tosta non si sa mai…

«Senti, giovine», parlò paterno al ragazzo, «sei forestiero?»

«Fa differenza? L’oro è oro in tutto il mondo.»

«Ma a Thanatolia», respirò Malqvist, con lo sghignazzo nel gargarozzo, «quando dici che un necromante ti ha rapito la ragazza vale a dire che lei ti ha mollato o…»

«Che cosa?!»

Era tanto ubriaco che tentò per tre volte: alzò l’indice, il mignolo e finalmente riuscì a spiegarsi.

«No!», insistette il giovane, «sto dicendo la verità!»

«Quindi un mago – che poi: “mago”…»

«Un praticante delle arti nere!»

«Ha ra-pi-to…», lui scandì.

«La mia amata!»

«… principessa!…»

«Come sapete dei suoi natali?»

«Dì, mi prendi per il culo? Io tiravo a indovinare! “Un necromante ha rapito una principessa”! Cos’è, una favola?»

«Per me è tragedia.»

Il damerino si chinò a gemere contro lo stipite dell’osteria. Doveva essere davvero nobile perché a lui, solo a guardarlo, gli venissero un “gemere” e uno “stipite” in mente. Lo prese per il bavero – sticazzi: per il “bavero”! – e lo tolse dalla porta per trascinarlo a frignare fuori. L’aria del principe ce l’aveva, e quella fresca gli fece bene. Le sue scarpe di camoscio color pane per un anno, le sue vesti di velluto color tetto e pasti caldi, luccicarono di brina nell’azzurro plenilunio. Quelle nocciole che aveva addosso non gli sembrarono da cicopalmo, ma vetri di valore:

Potrei scannarlo, ficcarle in tasca; Malqvist si grattò: con il casino che c’era dentro non lo avrebbero sentito, e dai tini scorreva tanto vino che un’altra macchia di nero o rosso sarebbe stato «un cin cin salute», non un omicidio.

Ma restò un professionista.

E prestò l’orecchio e l’ascia ai patemi di monsù.

«Me ne andavo, con Isotta, a passeggiare pei cimiteri d’intorno ad Handelbab…», il giovine soffrì.

Ogni volta che ascoltava aristocratici parlare, Malqvist capiva bene perché facevano la vita comoda. Sembravano sciocchezze, ma… non gli pareva, e non era la stessa cosa passeggiare per i cimiteri e passeggiare pei cimiteri: per i, come i bifolchi, gli suonava da inciampata, lo stacco tra due sillabe, la pietra che ti punge, la pianta che ti duole e la dura scarpinata. I calli, suole marce e gli zoccoli di legno. Ma pei suonava morbido, un passo di pantofole, piedini bianchi e piccoli sul marmo levigato. Si ripromise lo avrebbe fatto, alla prossima escursione: che non avrebbe marciato per, ci sarebbe andato pei. Le poveracce che frequentava, riguardo i nomi – che è un altro punto – si incaponivano in ghingheri di attributi come ai nastri ed i lustrini e le frappe nei vestiti. Scialle, sciarpe, braccialetti, le collane e i pettinini; e “la calda”, “la zoppa” e “la ammalata” che seguivano le Carmen e le Samy nel suo letto.

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Ma perché, sante ragazze?! Prendete esempio da quelle vere! Da quelle nobili, da quelle giuste.

Solo Isotta. Senti lì!

Pura. Semplice. Perfetta.

«Mi ascolti, dunque?»

«Va avanti, giovine.»

«Me ne andavo, con Isotta, a passeggiare pei cimiteri d’intorno ad Handelbab. E a ragionare com’è funesto però sublime che il natio Continente de li Avelli ognor ci ponga in fronte la di noi caducità. Nella istessa oscura fossa chiusa al sole, io le dissi – ed ella sospirò – giacciono insieme i nostri illustri antenati e gli innumeri gaglioffi senza nome e senza onore.»

«Ci ho capito. Che è successo?»

«Un necromante sortì da un mausoleo circondato da falangi di scheletri.»

«Non doveva essere un necromante granché capace. Quelli bravi li rianimano interi: teschio, costato, tibie e tutto quanto. Anche armati, molto spesso.»

«Intendo coorti.»

«Non è importante: dipende com’erano da vivi. Se il morto era un nanerottolo, e ovvio che lo scheletro resusciti bassino.»

«Mi spiego: una legione. Un esercito, un’armata.»

«Va bene. Adesso è chiaro.»

«Il necromante e la buzzurraglia non-morta mi sottrassero Isotta.»

«E tu? Non combattesti?!», Malqvist trasalì. Gli sembrò molto bello avere avuto una tale, inusitata reazione ed esprimersi al passato. Inusitata: che mica è poco!

«La forza era soverchia

«… ‘sti morti della nerchia»; Malqvist tornò sé stesso, «ma hai trovato l’ascia giusta. Quanto hai nella bisaccia?»

«Una eterna gratitudine.»

«Quanto, al cambio?»

«Duemila astragali.»

«Per duemila astragali mi fotto la Necromamma. Andiamo al mausoleo: tornerai ri-fidanzato.»

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Il campanile batté un rintocco. L’uomo, all’emporio, si lamentò:

«Che vitaccia. Che gentaglia. Che schifezza di mestiere.»

Trismetristo era l’unico, a quell’ora, in città, che affittasse muli e carri, torce, sacchi ed utensili ai tombaroli abbastanza stupiti da lavorare di notte fonda.

Nelle tombe.

Con il buio.

Nell’impero dei non-morti.

Il continente cimiteriale, per quanto immenso, benché profondo, non sarebbe mai bastato a seppellire i cretini tutti.

Ma quei cultisti in fagotto nero e gli strafatti di necrotina, le congreghe e le cabale e processioni di fan che celebravano le loro messe a popstar con i tentacoli, a vitelli glitterati, a Déi Esterni che ti apparivano come Big Babol iridescenti, affollavano il negozio numerosi e più chiassosi delle posse dei predoni che scendevano alle fosse. Per i culti, a un cert’ora, serve essere attrezzati. E cospirando ti scordi sempre di quel turibolo o l’arthame che invece è necessario a una buona evocazione:

«Confratelli! Non ce l’ho! Ché devo averlo lasciato a casa!»

«Nessun problema, fratello in Astaroth: ci fermeremo da Trismetristo.»

Certe cosacce non euclidee lei puoi fare anche di giorno: ma vuoi mettere di notte?

«Se si chiama messa nera un motivo ci sarà!», un celebrante gli spiegò un giorno, «altrimenti è messa diurna!»

«Altrimenti è messa in posa», lo sfotté Malqvist: non lo capì. Per venerare una seppia alata non si dev’essere granché svegli.

Ma ne spendevano, di astragali, prima di uscire dalla città.

Presentò il giovine al bottegaio:

«Un necromante gli ha rapito la fidanzata.»

Uh, come risero tutti quanti! Gli asini, i cavalli, la clientela e il campanile: che batté un altro rintocco benché fosse solo l’una.

«Mi si canzona!»

«Io t’ho avvertito.»

«L’ha lasciato o fatto becco?!»

«Sei carino, sei biondino: ne trovi un’altra.»

«Ne trovi un altro

«Gliel’ha rapita». Malqvist riportò l’ordine con un’occhiata da macellaio, «ci serve un carro, due muli, lampade. Paga lui, e paga bene.»

I cultisti, il campanile e gli animali da soma ingoiarono i commenti e ritornarono ai fatti propri.

«Che fichetta. Quanta spocchia. Dì, ma sono soldi buoni?»

Ma il vecchio curvo, che biascicava, contò i quattrini e legò le bestie. Le maledisse, le bastonò, ripeté «muli di merda»; avvertendo per tre volte che non valevano ‘sto granché.

«Non mi sembra molto furbo», disse il giovine.

«Lo è. Quanto a questi – stai tranquillo – sono animali robusti e sani.»

«Andatevene affanculo. Morite. Non tornate

«Hai capito perché lo chiamano Trismetristo?»

«Risponde male.»

«Tre volte. Sempre.»

Una moneta alle sentinelle bastò ad aprire la grande porta del barbacane: quando furono passati, i soldati rinserrarono. Su Handelbab e le sue mura scese il telo della notte, l’orizzonte di sepolcri coprì torri e campanili.

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«Non è lontano», il ragazzo gli indicò.

«La vita è dietro, la morte avanti: è sempre questa la direzione.»

«Innanzi tutto, giovine», Malqvist lo istruì, «devi metterti bene in testa che la magia non esiste. Soprattutto non esistono i necromanti, non esiste necromanzia. Me l’ha spiegato un’amica maga studiata all’estero, che fa coppia con una cristo di spadaccina che… eh, se ci ho fatto un pensino! Ma ha l’aria di una che ti evira e poi usa il tuo cazzo come cote per la spada. Quindi, quello che affronteremo non è uno stregone, ma solo un farabutto con un trucco da teatro.»

«Un esercito di scheletri. Teatrante

«Burattini. Sì: bisogna essere disturbati per costruire giocattoli, marionette e fantocci con gli scarti degli ossari. Ma siamo a Thanatolia: e c’è gente che usa il nonno come sedia e col figlio nato morto ci ha fatto lo spazzolino. Si costruisce con quel che c’è.»

«Hai un piano?»

«Quando affronto un necromante circondato da un’armata, punto dritto al necromante: questo è il piano. Spacco. Fine

«Ahimè. Isotta sarà in pericolo

«Quando i maghi rapiscono una donna è per farne un sacrificio ai loro demoni con un sacco di consonanti: soprattutto la t e la z. Ci vuole molto tempo, per preparare quei riti. Ce ne vuole anche di più, per pronunciare quei nomi. Ciò ci dà un buon margine: Isotta è ancora viva. Ma tieni in mente, giovine, che è colpa solo tua se te l’hanno rapita.»

«Hai ragione, ne ho vergogna: avrei dovuto pugnare. Che cos’è la trafittura di una lancia a paragone di una vita senz’ella?»

«Hai spugnettato, sta qui l’errore: perché dovevi trombare lei

«Come osi?»

«Non sono stupido, non puoi mentire: per certi riti innominabili e cosmici i maghi – è cosa nota – abbisognano di vergini. Le riconoscono dall’odore.»

«Lo devo ammettere

«E che cos’altro?»

«Non ti capisco.»

«Ascolta, giovine», lui ridacchiò, «io, quando voglio stare solo con una tipa, mi tocca spendere tutti i soldi che non ho per trovare una stamberga possibilmente non vista tombe. Tu ed Isotta dovreste vivere in un palazzo…»

«Due, palazzi», contò punto il damerino.

«Quante stanze?»

«Cinquecento

«… e vi appartate nei cimiteri?»

«Le piacciono i cadaveri», il ragazzo si arrossì.

«Le piacciono

«Ci piacciono

«Vi piacciono in che senso?»

«Che io mi accendo.»

«Ti viene duro.»

«Che si abbandona!»

«Che lei si bagna. Beh, come ho detto è Thanatolia: c’è a chi piace fare picnic sui coperchi delle bare e a chi piace di spogliarsi tra le spoglie dei mortali. E che cosa facevate, quando il mago vi ha assalito?»

«Facevamo… beh, del pitting

«Vale a dire darsi al petting nelle fosse comuni, gli ossari e in quel genere di posti

Che era peggio però del potting – lui storse la bocca: quel sesso duro indossando l’elmo ch’era comune tra i militari.

«Ma anche tu, perciò…»

«Io no.»

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Malqvist posò la scure sulla cassetta, tra loro due: fu un distinguo perentorio di quattro chili di acciaio. Non si sentiva di dire «il giusto, il salubre sta qua e di là ciò che è malato e le tenebre e l’errore»: c’è una parte, c’è quell’altra; si può stare da una sola, e lo sapeva come sapeva che sorge il sole e che il mattino bisogna alzarsi per orinare.

Il trotto dei due muli durò un lungo silenzio.

«Lo avete provocato?», dovette chiedere la buon’ora.

«Macché, scherziamo?», si indignò il signorino.

 

Il mausoleo era un mausoleo.

A Malqvist raccontarono che in un mondo al di là di questo esisterono città con sobborghi di lamiera, con tuguri in pvc, di cartone e compensato. Gli infiniti paraggi di immondizia e reietti. Che le chiamarono “baraccopoli”, che ci abitarono i miserabili: non gli sembrava che i mausolei – perché ce n’erano davvero tanti – fossero infine così diversi. Tra i rifiuti dei viventi, tra i viventi rifiutati. Cos’è un cadavere se non un cellophane, un involto, una stagnola; cos’è uno scheletro? Non è una lisca? Non gli sembrava che i necromanti – perché ce n’erano davvero troppi – fossero altro che antichi poveri senza un centesimo di vita in tasca. O in carne, si schifò: perché la carne era un poˈ una tasca.

Impugnò l’ascia.

«Mi aspetti, giovine

«Ho una daga: vengo anch’io

Il plenilunio snobbò insultato quel coltello da formaggino, e le fiaccole feroci che crepitavano all’ingresso della tomba preferirono corrusche il suo ferro del mestiere. Lui ne accese un’altra, di quelle che avevano in dotazione, e parlò allo sbarbatello come si parla con un compare:

«È una bega: tu sta qui, ché dovrai fare la guardia ai muli. Come potremmo salvar la pelle, altrimenti?»

L’altro si incupì di quel compito tremendo, si aggrottò determinato, responsabile ed attento. Con i pivelli quella stronzata acchiappava sempre: l’unico modo in cui i muli potevano salvare vite, spesso, era mangiarseli: gli stenti ne ammazzavano assai più di Ghoul e mostri, ché solo l’incubo sta alle calcagna di un tombarolo che se la fila.

O l’incubo o i colleghi.

Malqvist varcò il cancello del bilocale dell’aldilà. Percorse un corridoio più lungo del dovuto.

Più fetido.

Profondo.

Più buio del normale.

Trattenne uno sbadiglio.

No, anzi: sbadigliò.

Erano sempre più del normale; l’aggettivo è “innaturale”.

Dopo vent’anni di quella vita trovava tutto banale e basta.

Lo stanzone che trovò dopo i ripidi gradini gli ricordò quell’annata infame da miliziano della città: tante bare tutte in fila, tutte uguali, come brande; la rastrelliera delle alabarde e gli scudi a pié del letto.

Pié di cassa, casomai.

È una tomba o una caserma?

Andò cauto pronto al colpo nel corridoio tra le due file di feretri, che contenevano gli intatti scheletri di marmittoni di un’altra guerra. Sotto il guanciale di una carcassa notò dei fogli di pergamena: ci si può fare dei bei baiocchi, con certa roba; si fermò a guardare meglio. Un libro magico sapeva leggerlo quel che bastava, ma queste pagine ritraevano donnine nude di migliaia di anni prima tutte prese in giochi eterni con maschi nudi coevi. Lui sorrise: era bello che un camerata defunto si fosse addormentato godendosi un giornaletto. Certe cose non cambiano; quel pensiero gli piacque. E lasciò il pornazzo antico all’antico vecchio porco.

Ma il vecchio porco si mosse.

Con tutti gli altri.

Sessanta, circa.

Si sollevarono dalle bare ed impugnarono le alabarde.

Ed era una caserma, quella, porcamorte: ci aveva avuto ragione; ché si schierarono in formazione come soldati professionisti.

Malqvist valutò che una dozzina ne avrebbe fatti facilmente fuori. Sapeva che al quindicesimo sarebbe stato sudato. Sapeva che al ventunesimo avrebbe avuto il fiatone. Sapeva che al trentunesimo avrebbe avuto un taglietto: di lama arrugginita, però, che c’è del rischio. Sapeva che al quarantesimo avrebbe taaanto desiderato avere al proprio fianco anche il bimbo e il suo coltello, e già al pensiero gli venne moscio. E sapeva che affrontare sessanta scheletri lo racconti alla locanda, e che quindi non è possibile.

Però ci credono, ché piace crederlo.

Tornare indietro non se ne parla: gli sbarravano la strada; e il suo orgoglio gli imponeva di tirare qualche sberla.

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Fece a pezzi i cinque smilzi che avanzarono per primi: la bipenne sparse denti e ossibuchi sulla pietra, spezzò l’aste marce e nere, rotolò i crani tra blatte e topi. Guadagnò tempo – si fece spazio – per proseguire in un’altra stanza; c’è sempre un’altra stanza, spaccò una grata di ferro bruno e trovò un angusto androne. Ci sarebbero passati due-tre non morti alla volta: poteva reggere, ma fino a quando? Fermò il cancello schiantato a terra di traverso alla parete: che li avrebbe trattenuti fino a un colpo di fortuna.

Bisogna crederci. E avere culo. Io ci ho sempre avuto culo.

L’altra stanza, finalmente, era il loft del necromante.

Arredato uguale a tutti: stesso scranno, stessi libri, stesso tavolo di marmo; stessi quarti di cristiano da quei ganci alle pareti, stessi barattoli con le budella, stesse bobine che crepitavano, le stesse scariche di luce nera che illuminavano la volta gotica. Che risplendevano sul mucchio d’oro nelle decine di vasi egizi.

Ma non era qui per questo, Malqvist sospirò.

Lo schifoso spuntò nudo dietro una tenda di pelle umana tatuata: dio, che orrore! Un necromante è già brutto molto nel suo mantello di panno nero, gli amuleti, il cappello e il bustino di costole. Ma un necromante come l’ha fatto la Necromamma…  – Malqvist inghiottì – non lo avrebbe mai più scordato.

Soprattutto lo inorridì quel suo sorriso felice. Il volto era sereno, lo sguardo luminoso: nonostante il sudiciume che gli cerchiava quegli occhi neri. Gialli. Uno nero ed uno giallo. Quella maschera malvagia di chi ha odio per la vita – l’espressione che hanno sempre i praticanti dell’arte oscura – non lo avrebbe mai turbato quanto tanta ilarità.

Lo stronzo ha un piano!; sollevò l’ascia, che non funzionerà.

Dalla tenda si affacciò una ragazza che poteva solo essere quella Isotta del giovine. Anche lei del tutto ignuda – perché era Isotta: non era nuda… – e guardarla era un incanto. Era bello un gran bel poˈ. I capelli lungo i fianchi, gli occhi azzurri, il viso bianco. Quelle gote come pesche.

Sulle pere e la patata non gli vennero pensieri.

«Fermo, bruto!», lo implorò la principessa, «il mago è al mio servizio.»

Malqvist sì: trattenne il colpo. Calò la scure. Si arrese. Ché non avrebbe potuto nulla contro l’esercito del suo sguardo, l’orifiamma in quelle labbra, flauti e liuti nella voce.

Ma restò un professionista.

E contro l’altro poteva eccome.

Aprì la testa del necromante con un fendente della bipenne.

«Che cosa hai fatto?! Che cosa hai fatto?!», strillò Isotta insanguinata. Era un Pollock di cervella e di icori del bastardo.

«Ho un lavoro. Ho una parola. L’ho promesso al tuo ragazzo. Che sta in pena e mi ha pagato per ricondurti tra le sue braccia», la prese per la mano; «ma adesso vestiti. Ma adesso spiegami: com’è ‘sta storia, che ti serviva?»; alzò il mento e scatarrò sul cadavere del mago; «ce ne andiamo

Lei piangeva.

Malqvist ascoltò il sinistro strepito nell’androne: era la grata caduta giù, erano lame gettate a terra, era lo schiocco di tibie e teschi ridotti in polvere sul pavimento. Crepato il necromante, fottuti i suoi non-morti: la regola era quella. Ed è una scienza esatta. La polvere di ossa soffiò dentro la stanza, bruciò nelle narici, negli occhi, nella gola; il puzzo orrendo di qualche secolo di putredine arretrata gli scese nello stomaco.

Sboccò.

Ma Isotta no.

Non ce le vedo, le principesse, a buttar fuori la bile e il vomito. Non caga manco, secondo me. Gli sembrò giusto, gli parve ovvio.

Schiarì il cammino con la sua torcia resa più vivida dai gas necrotici:

«Ma perdersi è un istante. Cadere in qualche pozzo. Non mi mollare», le ripeté, «stringi, stringi la mia mano

Com’era debole, la poverina! Era fredda, no: gelata.

Gli venne un dubbio.

Rabbrividì.

Si fermò a auscultarne il polso:

«… ma tu sei morta…»

«Lo sono. È bello

«È stato quello?»

«L’idea fu mia. Simulammo il rapimento perché Arolfo mi lasciasse. Non lo avrebbe mai permesso

«Arolfo è il giovine?»

«Ma mi ama troppo

«Ha sborsato bei quattrini. Ha il cuore in pezzi. Ti vuole salva

«Ma sono morta

«Ma tu sei morta

«Sono morta, finalmente!»

«Può sempre essere che vedendoti mutilata, ferita, squartata… »

Malqvist cercò il taglio da qualche parte su quel bel corpo: tra le scapole, in un fianco, sulla nuca… altrove no. La aveva vista di fronte, nuda, e non c’era nessun segno: neppure il nero di una garrota su quel collo in porcellana.

«Mi ha liberato con il veleno. Col suo seme avvelenato.»

“Un necromante ha rapito la mia ragazza”.

I proverbi non mentono, Malqvist annuì.

Gli sembrò che la sua torcia si sganasciasse di vive vampe.

«Dovresti avere le labbra scure.»

«Era bravo. Molto bravo.»

«Lo devo ammettere», disse lui. Si grattò il mento, «ma c’è un problema…»

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Per i minuti che gli ci vollero a tornare in superficie, per quell’erta di gradini che in salita era più dura, incerta e scivolosa, continuò a rimuginare come risolvere quell’affare. La principessa tornava al giovine: che pagasse e poche storie! Ma fosse stato l’afflitto Arolfo non gli avrebbe dato un soldo.

«Ci ha ragione», bestemmiò.

Si ricorra in tribunale!

Dove trionfano gli aristocratici e dove perdono i poveracci.

Non gliela stava portando viva: gli portava la sua salma. Ma si muoveva. Però parlava. Ma respirava: scoprì che no. Non la aveva tratta in salvo. Forse sì, ma non del tutto… Farsi pagare metà tariffa? Le voci corrono, non se ne parla: «sai che Malqvist fa gli sconti?»; «si accontenta»; «è messo male»; «perché ha fatto una cazzata»; «…che sarebbe?»; «sta a sentire…»

Sei denigrato. Sei sputtanato. Disoccupato, puttanamorte!

La lasci andare. La schianti lì. Torni su solo, racconti balle:

«Non ce l’ho fatta, l’abbiamo persa. Fatti forza, amico mio…»

«Malqvist non è capace di fare fuori sessanta scheletri! Malqvist è fuggito di fronte a un necromante!»

Peggio ancora, cazzo.

Merda!

E quella bella ragazza morta che lo fissava con occhi vuoti, quel volto pallido nella pece, la sua gelida carezza, quel sussurro di sepolcro, quelle labbra fredde e spente… incominciavano ad inquietarlo.

«Perché l’hai fatto?»

«Ti piace vivere? Sii sincero», lei lo avvelenò.

Che strizza, cazzo. Mi fa paura.

Sulla soglia della tomba Malqvist la fermò:

«Resta qui. Che lui ti veda, ma da distante.»

Non gli rispose.

Ritrovò il giovine.

Felice.

In estasi:

«L’hai salvata!», lo abbracciò. Fece per correre da lei, da Isotta; che gli tendeva le braccia candide da quel rettangolo di oscurità.

Lo trattenne:

«’spetta: paga

Il damerino scucì il denaro. Gli lasciò tutta la borsa. Molti altri pezzi d’oro rispetto a quelli che gli promise. Gli mise in mano quel capitale – poteva essere persino tutto – come gettasse dei sassolini. Gli si sarebbe spogliato lì. Gli avrebbe dato camicia e brache, pur di andare ad abbracciarla. Non lo guardava nemmeno in faccia. I suoi occhi erano Isotta.

Lui insistette:

«Fermo, fermo»; lo tenne stretto per una spalla. Non si sarebbe potuto divincolare: «la ami tanto

«Me lo chiedi?»

Com’era vero che sorge il sole e che la sera ti viene sonno.

Non c’era un’altra legge.

La bega era risolta.

Lo lasciò andare. Arolfo lo superò.

Malqvist brandì l’ascia, si girò su sé stesso. Gli aprì la schiena, i polmoni e il cuore con un morso della lama.

La ragazza, dal sepolcro, gli sorrise.

Sembrò viva.

Lui si chinò su Arolfo prono a terra nel suo sangue. L’ultima luce nelle pupille era ancora per Isotta. Un sozzo alito di magia nera gli penetrava già nelle carni: come sempre, a Thanatolia, in qualche forma sarebbe tornato in piedi.

E lei aveva tempo di aspettare la raggiungesse.

Adesso erano insieme. Ma insieme per davvero.

«Basta pitting, deficienti!»

C’erano i muli ed il carro intatto: Malqvist si stupì. Salì a cassetta, tirò le briglie, guardò al giovine squartato:

«Buon San Valentino», disse.

Ripartì.

Ma chi fosse il festeggiato non lo aveva mai saputo.

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