Recensioni: “Il cappotto vuoto” di Caterina Franciosi

Come insegnava il maestro indiscusso delle storie di fantasmi, Montague Rhode James, un sano brivido di paura è provocato più spesso dall’inserimento nella narrazione di un qualche elemento in apparenza familiare, che si riveli poi anomalo, inspiegabile, e per questo ancor più perturbante di qualcosa di apertamente minaccioso o soprannaturale. E’ più spaventoso incontrare qualcosa nel buio della nostra camera da letto, dove ci sentiamo per abitudine al sicuro e tranquilli, piuttosto che scendendo in una segreta infestata dove ci aspettiamo – è così ovvio! – che un qualche spettro possa materializzarsi sorgendo dalle tenebre.

Ecco perché la scelta di Caterina Franciosi di far ruotare la sua storia intorno all’indumento da cui prende il titolo, può ben essere riferita a circostanze simili. Un abito familiare, come migliaia di altri, ma reso unico da un legame speciale. Quello con la morte, che lo fa diventare assieme reliquia di chi non c’è più e una sorta di insospettato ponte con l’invisibile, almeno per chi voglia vedere.

Del resto, cosa c’è di più intimo di un vestito, per chi lo possieda, e cosa di più riesce quasi a ricreare – solo con gli occhi della mente? – quasi la forma fisica di colui che lo indossava? Anche nel folklore e nella tradizione popolare, gli abiti sono spesso assieme a particolari parti del corpo, l’equivalente simpatico di un individuo, e possono dunque fungere da legame fantasmatico con la persona, non importa se viva o defunta. Non sono stati rari i medium che, nel corso di sedute spiritiche, si sono affidati a questa credenza facendosi porgere come opportuno focus del loro fluido impalpabile, proprio un vestito appartenuto a un caro scomparso.

Attingendo a questo patrimonio di spaventi attinenti alla sfera dell’insondabile, Caterina Franciosi confeziona così un racconto che ha il pregio di fondere delicatezza e brividi, nel quale presenze nascoste, legami oltre la morte e vicende storiche si uniscono in un quadro riuscitissimo.

Mi viene però da pensare quanto “Il cappotto vuoto” avrebbe guadagnato in originalità ed effetto d’ambiente se il tutto fosse stato sceneggiato in un contesto nostrano invece che anglosassone, fornendo “polpa” a personaggi che restano in ogni caso ben tratteggiati. Quanto al tema dell’amore che vince anche le catene della morte – tema anche questo antichissimo sia nel mito che nei racconti tradizionali – è piacevole rilevare la sottile ambiguità cui si presta la lettura de “Il cappotto vuoto”, specialmente il suo finale.

Se in apparenza abbiamo infatti una sorta di romantico lieto fine, come non pensare all’eventualità di un doppio tipo di illusione: la più naturale, quella autoindotta, per cui la protagonista spezzata da un lutto mai elaborato inizia a vivere a poco a poco una realtà inconsciamente  manipolata. E quella più terribile, nella quale l’apparente sciogliersi in bene dell’intreccio soprannaturale non è che il preludio ad un acuirsi dell’infestazione di cui il cappotto non è che il fulcro materiale, non più necessario ora che al defunto è stato dato, con tutto l’amore del caso, nuovamente accesso.

Gli anniversari, si sa, tornano ciclicamente…

 

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