I Grave Digger sono tra i portabandiera del metal tedesco, in particolare della branca denominata power, inaugurata dagli Helloween negli anni ’80 e sviluppata negli anni ’90 dai Blind Guardian, gruppo con cui i Grave Digger hanno molto in comune. Per meglio dire, i Grave Digger sono la parte più rauca e scura del power metal, assomigliando quasi al metal di matrice americana e ai riff rocciosi e alle cavalcate degli Iced Earth. Chi iniziò tutto questo? Probabilmente gli Iron Maiden, Ronnie James Dio, i Black Sabbath e i primi gruppi metal che già intuirono una connessione estetica e tematica tra l’heavy metal e l’epica, la storia, la mitologia. Flight of Icarus degli Iron Maiden ne è un esempio, così come Alexander the Great, un brano dedicato ai viaggi avventurosi ed esotici e alla campagna militare di Alessandro il Grande. Il metal evoca l’atmosfera dell’epica usando strumenti nuovi, legati alla cultura del blues e poi del rock, chitarre elettrice, basso, batteria, tastiere, synth. Solitamente quando si pensa all’epica e alla storia, al folklore, in senso lato, s’immagina un insieme di strumenti tradizionali, una rivisitazione e rievocazione dell’epoca a cui il gruppo di musicisti fa riferimento; nel caso dei Grave Digger vi è un accenno alla tradizione e all’epica, oltre che nei testi, naturalmente, anche nelle scale armoniche utilizzate, soprattutto nelle parti di tastiera.
L’album Excalibur s’incentra, in quanto “concept” album, ossia disco fondato e strutturato su di un’unica idea, o in questo caso leggenda, sul ciclo arturiano. Il disco si apre con una tastiera medievaleggiante, con il ritmo di una ballata folk, e con i toni e le atmosfere con cui, man mano, che The Secrets of Merlin procede, i Grave Digger ci fanno intendere in quale terra, e in quale epoca, vogliono portarci. A un certo punto si sente l’accordo potente di una chitarra distorta, unito ad un piatto che pone l’accento sul primo quarto della battuta. Insieme alla tastiera evocativa sentiamo una chitarra rocciosa e dinamica, che si trasforma nel brano successivo Pendragon. Il genere si qualifica subito come un power/heavy metal nella sua forma più veloce e aggressiva, con riff e tappeti di batteria che portano al ritornello, il quale spesso ha le caratteristiche di un coro, altro elemento che evoca la collettività che ci s’immagina quando si pensa all’epica. Quest’ultima è infatti un genere letterario strutturato e pensato per la collettività, per tramandare la tradizione ai posteri tramite un complesso sistema di miti, leggende e cronache storiche mescolate insieme. C’è una sorta di connessione tra il senso di collettività espresso dai concerti rock e metal in genere, e il coro artisticamente scelto come ritornello, o meglio, il ritornello strutturato ad arte come un coro. Il power metal dei Grave Digger è incisivo e diretto, senza mezze misure, ne è prova Excalibur, title track dell’album, da ascoltare tutta d’un fiato. I riff di chitarra sembrano quasi provenire da un lavoro degli Slayer, e vanno verso una dinamicità e una verve tecnica sempre più incalzante, facendo presagire che ci si deve aspettare grandi cose da questo disco, soprattutto per gli amanti del genere.
The Round Table (Forever) riprende tramite le tastiere l’intro, iniziando con un bel po’ di secondi di musica orchestrale che si risolvono in un basso che scandisce i quarti, molto simile ad un basso tipico di un pezzo dei Judas Priest e della musica hard rock e heavy metal di fine anni ’70. La chitarra segue l’avanzare roccioso, ma sistematico e preciso, della strofa che porta al ritornello, un altro coro da cantare fino a perder la voce ai concerti. Rimaniamo su toni rock classici con l’assolo, con un bell’effetto wah wah, che riporta proprio alle sonorità tipiche degli anni ’70 – ’80. In questo assolo si sentono molto le influenze di gruppi come Saxon, e i già citati Judas Priest.
Morgane Le Fay inizia con un arpeggio di chitarra acustica, pulita, e una tastiera in background che fa da atmosfera e da ambiente alla voce pulita e all’arpeggio che ricorda pezzi come Don’t Talk to Strangers di Ronnie James Dio. Dopo l’intro in acustico segue un pezzo con chitarre distorte e pesanti, potenti, veloci, che partono dopo un cambio ritmico abbastanza netto e deciso.
The Spell inizia con una chitarra effettata con un flanger / chorus che agisce sui transienti del suono di chitarra, e in sottofondo l’effetto è mantenuto, e amplificato, mentre parte un riff di chitarra ritmica pesante e assolutamente in linea con lo stile dei Grave Digger. The Spell è una traccia notevole del disco, poiché mescola la voce pulita con la voce roca, e tecnicamente si rivela una vera e propria composizione, tra melodie che si sovrappongono, in sottofondo, nella parte pulita, e ritornano rocciose e sicure, con l’utilizzo massiccio di power chords nelle chitarre, i cosiddetti “bicordi”, che coinvolgono soltanto prima e quinta della scala della nota di riferimento al basso. A volte è anche aggiunta l’ottava più alta nella parte di bridge e di ritornello.
Tristan’s Fate inizia con un vero e proprio cantato medievaleggiante, e continua con il medesimo tono e ritmo, mentre sotto le chitarre, basso e batteria pestano e danno un senso di “cavalcata” al pezzo. I Grave Digger ci riportano nell’epica del ciclo arturiano e nelle sue atmosfere in un modo molto diretto e incisivo, virtuoso, con uno stile tipico del genere a cui appartengono.
Certamente ad oggi esistono moltissimi gruppi che fanno parte del medesimo genere, ma è sempre bene ricordare gli iniziatori e le pietre miliari in un ambiente come quello del power metal, dove ci sono tantissimi gruppi tutti identici e con poca originalità, ma anche grandi sperimentatori che hanno unito l’orchestrale all’heavy metal.
Nella branca più scandinava e nordica troviamo esempi di black metal atmosferico e d’ambiente che si rifà moltissimo alla musica tradizionale dell’area germanico – norrena. Per esempio possiamo citare i Falkenbach, Summoning, Forgotten Wood, Eldamar, Elderwind, gli Ahab, un gruppo titanico, anche se di deriva più “doom” metal, e alcuni lavori dei Bathory, uno dei gruppi iniziatori di questo tipo di musica che, a mio parere, rappresenta la summa della volontà evocativa dell’ “epic” metal, seppur utilizzando sonorità differenti, che abbandonano totalmente l’universo hard rock sulle quali comunque poggiano i piedi gruppi come gli stessi Grave Digger. Come ritmiche e suoni, infatti, non si discostano molto, anche strutturalmente, da moltissimi pezzi di band rock degli anni ’70, come per esempio i Rush, o gli Hawkwind, o i già citati Judas Priest e Black Sabbath. Musica, insomma, molto differente dalla rivoluzione che negli anni ’90 partì con i Pantera e i Sepultura, gruppi che portarono all’estremizzazione delle sonorità, anche e soprattutto per quanto riguarda l’aspetto voce e chitarra, tipiche dell’heavy metal. Anche in Italia anche abbiamo nomi di tutto rispetto: per quanto riguarda il power in senso stretto consiglierei l’ascolto degli ultimissimi lavori dei Doomsword, che dopo aver iniziato influenzati da Cirith Ungol e Candlemass, specialmente dai secondi, dal “doom” appunto, sono passati a fare musica più veloce e più incalzante, per lo meno per la gran parte dei brani, pur mantenendosi sempre sul loro stile caratteristico. La scena metal italiana è molto attiva e vale la pena approfondire l’argomento. Cito anche gli Holy Martyr, di Cagliari, che hanno sempre cantato di opliti spartani e di antichità, per poi fare un disco sul leggendario samurai giapponese cieco “Zatoichi”. Ciò dimostra che la sperimentazione nelle tematiche c’è e, anche per quanto riguarda l’ambito strettamente musicale, si sono evoluti con gli anni, migliorando i suoni utilizzati e facendo scelte stilistiche più all’avanguardia, sebbene si mantenga lo stesso filo conduttore e lo stesso stile, rappresentato da una passione sfrenata per il racconto, messo in musica e rielaborato tramite la stesura dei testi. La caratteristica fondamentale di questo genere è il collegamento tra la musica e le tematiche trattate nei testi, che danno origine a una serie di riferimenti a simboli ben precisi, come per esempio il gusto per l’antico, il pagano, il Medioevo, ma anche i racconti di Edgar Allan Poe nel caso del disco Mystification dei Manilla Road. Storia, miti e leggende sono gli argomenti principali trattati nelle canzoni, con vari riferimenti anche alla letteratura fantasy sword & sorcery, o a Tolkien.
L’heavy metal è un genere, soprattutto nelle sue derive “epic” , che è per antonomasia di nicchia, e ha delle caratteristiche ben precise che si sono ripetute, evolvendosi negli anni con lo scorrere del tempo e il mutare e l’ampliarsi delle strumentazioni. Vi è un sacco di sperimentazione per quanto concerne l’ambito “progressive” del metal, ma io reputo un album “progressivo”, ovvero d’avanguardia, che osa e sperimenta, anche Black Sabbath dell’omonima band, il loro primo lavoro, perché c’è da considerare che prima d’allora non s’era mai sentita musica così. Nessuno aveva osato tanto. La title track di quell’album ha come riff principale il tritono del Diavolo, il “diabolus in musica”, che per la cristianità medievale era addirittura peccato eseguire in pubblico o in privato, perchè nella tradizione del Basso Medioevo rappresentava il simbolo per eccellenza di Satana. Si tratta di un gruppo di tre note, un tritono per l’appunto, e se le suddette tre note vengono suonate insieme provocano una dissonanza, un suono sgradevole all’orecchio umano, il quale preferisce gli accordi, l’armonia, l’assonanza; ma se le note vengono suonate una ad una, come nel magnifico riff principale del brano Black Sabbath, il risultato è quello di evocare un’atmosfera che sa effettivamente di cupo, di sinistro, di stregoneria nera e oscura, nomen omen nel caso del titolo di questa canzone. Per quanto riguarda gruppi come Black Sabbath rimando il lettore agli articoli di Riccardo Maggi su Hyperborea nella sua rubrica “Spada, Stregoneria e Musica”.
Ritornando ai Grave Digger e al disco Excalibur, un concept in cui vengono riassunti e resi in stile power metal i principali temi e miti del ciclo arturiano, capitolo finale della Middle Ages Trilogy, arriviamo all’epicissima Lancelot. Un brano molto bello, orecchiabile, bel riff, belle ritmiche, bell’atmosfera e sempre tanto tiro e tanto, tanto pestare, con conseguente tanto, tantissimo headbanging. Lancelot parla, ovviamente, della figura di Lancillotto, e la traccia successiva parla di Mordred, Mordred’s Song, nella sua accezione negativa e maledetta, anche se anticamente pare che non fosse considerato l’essere malvagio che è passato ai posteri. Al contrario, il suo nome deriverebbe dal latino “Moderatus”, e la prima volta che viene nominato è negli “Annales Cambriae” del IX secolo, che parlano della battaglia in cui Artù e Mordred caddero insieme sul campo. Anche la poesia gallese del XII secolo lo descrive come un personaggio positivo. Nel “Roman du Graal” Merlino profetizza ad Artù che il suo regno sarebbe caduto in rovina per colpa di un bambino nato a Maggio dello stesso anno, che si rivela essere Mordred. Nelle cronache storiche sulla Britannia, la “Historia Regum Britanniae” di Geoffrey di Monmouth, è presentato come figlio della sorella di Uther Pendragon, il padre di re Artù, il quale gli affida il regno in sua assenza, durante una campagna militare contro l’imperatore romano Lucio Tiberio. Mordred lo tradisce impadronendosi del regno e della moglie del re, Ginevra.
Il disco si conclude con The Final War, Emerald Eyes, particolarissima ed evocativa, una ballad, e il brano Avalon.
Questa triade di brani ci porta nel pieno dell’atmosfera che i Grave Digger hanno voluto trasmettere tramite questo disco, ma anche attraverso i due album precedenti, Tunes of War e Knights of the Cross: un ambiente medievale, composto da sonorità con una buona dose di delicatezza, di attitudine narrativa, di racconto e da un altrettanto evocativo e potente incedere della sezione ritmica delle chitarre elettriche, per poi aprire la visione su di uno sguardo più ampio nel ritornello, che si struttura come un refrain di una ballata trobadorica medievale, specialmente nella molto bella e melodica Avalon.
Caratteristica che diventerà poi un must, un fondamento, una base, per il power metal tutto, quella di mescolare la melodia con la distorsione e i suoni pesantissimi delle chitarre. L’intento di portare l’ascoltatore in un altro tempo e in un altro luogo riesce anche se, bisogna ricordarlo, quando ci si avvicina ad un disco di una band che tratta di un tema ben specifico, un concept album per l’appunto, i leit – motiv e i refrain sono tantissimi. Le parti ripetute, anche musicali, l’atmosfera e lo stile devono mantenere una struttura compatta e precisa, anche dal punto di vista delle sequenze di accordi e della composizione armonica e melodica. A mio parere questo disco va ascoltato dopo Knights of the Cross, seguendo l’ordine di uscita, il quale a sua volta dev’essere preceduto da Tunes of War, considerato il capolavoro, il disco migliore, della band tedesca. Per l’ascoltatore a cui piacciono i suoni e il tipo di cantato grezzo alternato anche a qualche parte melodica, lo stesso vale per lo strumentale, e ha il desiderio d’immergersi in una parte di storia a metà tra le cronache e il mito, questo disco, insieme agli altri due della trilogia sul Medioevo, sono un valido lavoro artistico ed estetico (ricordiamo infatti l’indubbia bellezza delle copertine dei dischi, che contribuiscono all’evocazione che vogliono compiere i Grave Digger).
L’heavy metal fin da subito, ricordavo i Black Sabbath, si è approcciato ad atmosfere evocative, rappresentando la parte “in ombra” della controcultura di fine anni ’60, ricordo infatti che il primo dei Sabbath uscì durante il pieno del movimento flower power hippie. Se gli hippie evocavano la luce, il metal evocava il buio, la notte. Nella notte vi è mistero, tenebre, ma soprattutto molta, moltissima magia. La ricerca del metal epico, o che comunque tratta di tematiche legate a mitologia e leggende, è proprio quella dell’essenza di tali storie immortali e, tramite l’atto creativo, la trasposizione di quella sostanza, quell’impasto mitico epico, in musica. È questo che rappresenta l’evoluzione naturale degli aspetti più pesanti del rock dei Led Zeppelin, degli The Who, dei Doors (l’uso dell’organo come strumento evocativo per eccellenza), di Jimi Hendrix, ma anche degli AC / DC, nel pieno degli anni ’70, e soprattutto di band come Judas Priest e, successivamente, degli Iron Maiden. Ma già negli anni ’80 l’hard rock e l’heavy metal sono due generi ben precisi e con le loro caratteristiche.
Ciò che distingue l’heavy metal epico dal resto del metal, sono sì le tematiche e gli argomenti dei testi, ma anche l’utilizzo di tecniche vocali differenti, una tendenza agli intermezzi acustici, talvolta anche con un testo raccontato da una voce narrante, come spesso avviene negli album di gruppi come Manilla Road, Ironsword, Brocas Helm, e Virgin Steele. Una spiccata volontà di evocare, e rendersi sciamanici ed evocativi nei confronti del pubblico, che a mio parere rappresenta il lascito del rock di fine anni ’60 da cui il metal proviene, è un’altra caratteristica di questo tipo di musica, il frontman dei Virgin Steel David DeFeis è solito eseguire il brano Great Sword of Flame con in mano una spada infuocata. I Grave Digger sono un esempio eccellente di un gruppo di musicisti “duri e puri”, caratterizzati da uno spirito molto hard rock, fedeli alla propria musica e al proprio pubblico, per chi vuole ascoltare power metal grezzo, deciso, veloce, diretto, va sul sicuro ascoltando Excalibur e gli altri due dischi della trilogia.
“Sail away into the misty grey
Under escort of Morgane le Fay
Silently sliding on the sea
Abandoning mortality”
“Naviga via nel grigio nebbioso
Sotto la scorta di Fata Morgana
Scivolando silenziosamente sul mare
Abbandonando la mortalità”
(Avalon)
Prima parte dello speciale qui
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